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Tre trifole per Rebaudengo: Un'indagine ad Alassio
Tre trifole per Rebaudengo: Un'indagine ad Alassio
Tre trifole per Rebaudengo: Un'indagine ad Alassio
E-book304 pagine

Tre trifole per Rebaudengo: Un'indagine ad Alassio

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Info su questo ebook

E' autunno, momento magico di silenzi, di foglie dorate e di funghi e il commissario Bartolomeo Rebaudengo passeggia nei boschi di Ceva. Ma la tranquillità dura poco, subito funestata da un delitto atroce, quasi un rituale che rimanda a un fatto di cronaca nera vecchio di dieci anni. Lo scenario è una bella villa sulla collina di Alassio, tra palme, eucalipti e profumo di mareggiate invernali. Nel frattempo gli uomini del commissariato indagano anche su una vicenda poco chiara che si svolge all’interno di una sfarzosa galleria d’arte e antiquariato appena inaugurata. In uno di quei momenti grigi, durante le indagini, quando la soluzione sembra lontana e si avverte il peso della lentezza, un amico va a trovare Bartolomeo nel suo ufficio e lo aiuta a ritrovare la pista, come sa fare un buon cane da tartufi.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2012
ISBN9788875637347
Tre trifole per Rebaudengo: Un'indagine ad Alassio

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    Anteprima del libro

    Tre trifole per Rebaudengo - Cristina Rava

    Cop_tre_trifole.jpg

    I tascabili

    Il nostro indirizzo internet è:

    http://www.frillieditori.com

    info@frillieditori.com

    editing e impaginazione

    Michela Volpe

    layout copertina

    Sara Chiara

    III Edizione

    copyright © 2012 Fratelli Frilli Editori

    Via Priaruggia 31/1, Genova – Tel. 010.3074224; 010.3772846

    isbn 978-88-7563-734-7

    Cristina Rava

    Tre trifole per Rebaudengo

    Un’indagine ad Alassio

    LogoFratelliFrilliEditori.JPG

    Fratelli Frilli Editori

    Prologo

    Alassio sembrava una luminaria natalizia stesa davanti al mare, a riflettersi sull’acqua immobile, quasi lacustre. Era lontana, lontanissima, nello spazio e nel tempo. Lì il tempo non c’era, solo la notte con il suo silenzio, un silenzio che dominava lo spazio, l’ombra e la penombra. E la luna era un pendolo di peltro immobile, appeso sopra il mondo, sulle foglie di latta dei limoni, sulle rose grigie, sulle lame nere della cancellata arrugginita.

    In mezzo al giardino una riproduzione in marmo dell’Attis di Donatello sovrastava una fontana morta. La luce del plenilunio colava chiara sulla ghiaia del viale, a formare pozze pallide sotto l’intrico alto dei rami. Sul fondale, una scalinata polverosa portava all’ombra di una loggia, sovrastata da un timpano che proclamava la sua solennità. Al piano superiore stava una fila di finestre chiuse con le persiane scrostate. Chissà se mai, in un passato difficile, s’erano aperte al vento abbagliante che arrivava dal mare, pieno di aromi e di sogni… Non sembrava una casa dove le risate fossero corse da una stanza all’altra, come fremiti d’aria fresca a muovere la calura estiva. Era difficile immaginare che qualcuno avesse apparecchiato in giardino una tavola con la tovaglia di lino immacolato, rigido di ricami, e che odore di aglio dorato e pomodori avesse invaso la cucina. Chissà se un raggio di sole aveva mai brillato sulla condensa formata dal vino bianco ghiacciato, nelle caraffe panciute. Le rose ormai eran rovi ed i gerani erano intrichi selvatici, sarebbero stati un buon rifugio per giocare a nascondino: quell’inerzia malsana non evocava però il ricordo di corse e strilli di bambini, era come se tutto fosse stato così da sempre, come se fosse nato così, era una conchiglia erosa dal tempo, immemore del mare.

    Eppure una finestra aveva le persiane aperte e dietro le tende pesanti si poteva vedere la luce dorata di un lampadario. Era al piano terra, accanto al portone d’ingresso invisibile nel buio della loggia. Quindi la conchiglia aveva il suo mollusco, che dietro i vetri chiusi percorreva le sue ore ed i suoi giorni, abituato alla muraglia di silenzio che lo isolava dal mondo. Oltre quella barriera la vita ricominciava, i grilli erano un coro intenso e vivace, le lucciole danzavano al ritmo dei loro lumini amorosi e lentamente, man mano che ci si allontanava, affioravano voci di gente, musiche che accompagnavano le cene sulle verande dei ristoranti, suoni di strada, e qualcosa arrivava perfino dall’Aurelia laggiù, dal groviglio di fanali bianchi e rossi delle auto che andavano e venivano come processioni di formiche, regolate da codici misteriosi.

    E davanti a quell’anfiteatro magnifico di splendore notturno stava il mare, preso da una sonnolenza benevola, quasi senza onde.

    Forse il primo colpo sarebbe potuto sembrare il ciocco di un petardo molto potente o di un fuoco d’artificio difettoso, scoppiato senza far luce, ma gli altri tre in rapidissima successione non potevano essere altro che colpi di pistola. Dopo una pausa prolungata il quinto.

    Arrivavano dalla conchiglia. Il tempo passava senza che succedesse altro, ma forse qualche rumore dalla strada si poteva sentire: cassetti che cadevano, armadi che venivano svuotati, sedie che intralciavano il passo, porte che sbattevano, senza una voce. Dopo tanto silenzio, ora che si udiva qualcosa, era intimamente legato alla morte.

    Qualcuno spalancò la porta, impossibile vedergli la faccia nascosta da una matassa di ricci scuri. Corse sulla ghiaia, aprì il cancello che cigolò come d’obbligo e si diresse, sempre correndo verso valle. Si vedeva che non era una persona abituata a quell’esercizio, scivolava sulle suole di cuoio e mulinava con le braccia per tenersi in equilibrio. Si sporse dal muretto per scrutare la strada, dal basso apparvero i fari di un mezzo che doveva essere grosso, un camion o qualcosa di simile che si stava avvicinando. Il tizio diede un’occhiata anche verso monte, ma lì, se fosse arrivato qualcuno sarebbe stato più difficile accorgersene, perché la via era nascosta dal fogliame. Decise di riprendere la sua corsa, forse valutando che sarebbe riuscito ad arrivare in tempo in qualche punto del percorso, prima di essere illuminato dai fanali del camion, ammesso che fosse diretto lassù. Finalmente arrivò a quella che doveva essere la sua destinazione: una stradina laterale dal fondo erboso che sembrava perdersi nella campagna. Pochi metri dopo l’inizio, nascosta dall’ombra di un gigantesco ippocastano, c’era un’auto. Il fuggiasco aveva scelto bene il luogo dove nasconderla, perché risultava pressoché invisibile a chi avesse percorso la principale, e poi era ancora distante dal centro del paese. Era una vettura sportiva, piatta come una sogliola, il rosso smorzato dal buio. L’uomo aprì la portiera, si sedette e diede contatto.

    Armando aveva attrezzato il suo camion nuovo da tre giorni e non lo aveva più spostato dal cantiere, ma era venerdì, l’indomani sarebbe stato giorno di riposo e aveva preferito portarselo a casa, meglio nel cortile della cascina che non sulla piazzola dell’Aurelia, accanto alla palazzina in ristrutturazione, specialmente durante il fine settimana, con tutto il casino di turisti che sarebbe arrivato di lì a poche ore.

    Guidava a velocità moderata, non soltanto perché la strada di casa era piena di curve e stretta come un budello, ma proprio perché non aveva fretta. Era sereno, quell’ultimo lavoro lo metteva al riparo dai debiti e forse lo avrebbe spinto ad assumere un altro muratore e questo era bene, voleva dire che la sua piccola impresa edile stava andando avanti. Sapeva che avrebbe trovato sua moglie spaparanzata sul dondolo nel minuscolo giardino, già sentiva le sue parole, sempre le stesse da qualche tempo: Oh Armando, che caldo, ho le caviglie che non me le sento più. Speriamo che arrivi presto il momento!. Lui l’abbracciava e lei si lasciava abbracciare, poi armeggiando un po’ si tirava su dal dondolo e l’accompagnava in cucina, dove lui apriva una lattina di birra e cominciavano a raccontarsi la loro giornata. Quella sera aveva mangiato una pizza con i ragazzi, giù vicino al porto, ma quando le aveva telefonato lei non aveva brontolato, forse ne aveva approfittato per riposare mezz’ora di più. Certo che adesso il peso del bambino si faceva sentire. Ad agosto avrebbe partorito; anche lui era impaziente e nello stesso tempo pieno di una paura che i corsi pre-parto non avevano dissolto.

    Perso nei suoi pensieri, ma non distratto dalla guida, compì l’ultima curva che lo separava dal bivio che portava alla manciata di case dove abitava, esattamente un istante prima che la Ferrari esplodesse. Il suo cervello registrò ogni evento, prevedendo l’istante successivo, come se avesse già visto centinaia di volte quella scena, e forse era vero, forse l’aveva davvero vista, nei polizieschi americani. La distanza tra il suo mezzo ed il luogo dell’esplosione fu sufficiente a garantire la sua incolumità e quella del camion, ma non quella della sua mente. Rimase a fissare quel rogo le cui fiamme si attorcigliavano in volute rabbiose, seguendo i refoli della brezza notturna. Non sentiva niente, perché aveva guidato fin lassù con i finestrini completamente abbassati per gustarsi i profumi della campagna notturna: questo aveva permesso all’onda d’urto di continuare la sua corsa senza mandare in frantumi il parabrezza, ma le sue orecchie erano fuori uso. Il motore ronfava ancora acceso, con un gesto completamente inconsapevole aveva messo in folle e tirato il freno a mano, e se ne stava lì, a guardare, incapace di fare altro, completamente ignaro delle due auto che si erano accodate ed i cui occupanti erano scesi a guardare quel macello: una portiera, che era volata via roteando, permetteva la vista dell’interno dell’abitacolo, dove per brevi tratti appariva una vaga sagoma, un mucchio di stracci ardenti, immerso nel fuoco, come se fosse stato dentro ad un bruciatore. Anche l’ippocastano s’era incendiato, una torcia immensa che sparava ceneri incandescenti verso il cielo. Nessuno a Moglio aveva mai visto un’esplosione simile, nemmeno in tempo di guerra.

    Questa però, è una storia vecchia.

    (Giugno 1996)

    I

    ‘La nebbia agl’irti colli piovigginando sale...’, e dal fondovalle saliva sfilacciandosi tra i dorsi delle colline, e colmava i fossi, lasciando vedere solo le chiome dei castagni più alti e qualche punta aguzza di abete. Nell’aria c’era odore di fumo di legna e di umidità.

    Bartolomeo di tanto in tanto si fermava e tendeva l’orecchio per ascoltare il rumore dei passi di lei. Non la vedeva, ma la sentiva muoversi lentamente, tra i tronchi, e quando sostava, le foglie cadute frusciavano mosse dal suo bastone. Le aveva insegnato come fare, cosa guardare, come svelare nel sottobosco bagnato la sommità tondeggiante di sua maestà il porcino. A lei era parsa subito un’idea fantastica come spesso appaiono le novità quando si è tanto giovani. Nessuno le aveva mai insegnato l’arte fine e silenziosa della cerca dei funghi, intendendo con il termine ‘fungo’ soltanto il boleto e disdegnando la moltitudine di muffe più o meno accattivanti che affiorano dal terreno. La sublime amanita caesarea è l’unica che possa contendergli il prestigio, con la sua eleganza, i suoi colori caldi, come quelli dell’aurora di un giorno sereno, giallo e arancio, e con la sua fragranza: se si è in possesso di un fegato in ghisa la si può mangiare anche cruda, con olio e prezzemolo. Gli ovuli a Ceva si chiamano ‘cucune’ e i boschi di Castelnuovo, tra castagni e antiche vigne espiantate, sono il loro reame.

    Mentre guidava, Bartolomeo le aveva spiegato le divine gerarchie con lo stesso tono reverente che avrebbe usato per quelle angeliche e lei non aveva mai fiatato, cercando di fissare nella memoria i vari modi ‘d’essere porcino’: di quercia, di castagno, di faggio, di nocciolo. Al di sotto, la plebe: i galletti, le colombine, i sanguin, i cecalotti, ma solo con il freddo dopo Ognissanti, e al selvatico nelle costiere di pini, i quali non van del tutto disdegnati in caso di ‘cappotto’ come si dice in gergo, perché sott’olio, da aprirsi per le feste natalizie, anche i funghi plebei fanno la loro figura, diciamo che son sempre meglio che niente. Candida aveva capito bene la lezione, aveva annuito in silenzio con marcati assensi del capo, aveva calzato gli scarponi sui calzettoni spessi, tutto nuovo, e aveva teso le mani: lui in una le aveva messo il bastone, nell’altra il cavagno. Ci si vedeva appena, erano partiti da Albenga con il buio e a Bartolomeo aveva fatto uno strano effetto aspettarla sulla via, guardando quella villa tanto bella e tanto triste, mentre dal finestrino gli arrivava l’ansito salato della mareggiata.

    Lei aveva chiacchierato per un bel pezzo, agitata dalla novità, aveva parlato di scuola, dei libri che le piacevano, di un cantante di rap, aveva evitato l’argomento ‘padre’ né a Bartolomeo era venuta la malsana idea di proporlo, aveva curiosato tra i suoi cd trovandoli ‘roba fossile’, insomma era stata una chiacchiera continua, come una radiolina fino al colle di Garessio, incantata dai colori delle montagne autunnali, dai fulvi e vermigli, dall’oro dei primi larici, come se invece di risalire la strada provinciale verso il Piemonte fosse stata a Yellowstone. E per farla felice perfino un rapace di grandi dimensioni s’era librato in volo proprio davanti a loro e s’era allontanato con grande solennità verso la valle attigua, quella del monte Galero. Poi, come una bambolina, al momento d’immettersi sulla statale del col di Nava in direzione di Ceva, aveva appoggiato il capo al poggiatesta e s’era addormentata, di botto, senza neppure aver finito il discorso che durava da mezz’ora, cullata dalla regolarità dei lunghi rettilinei. Bartolomeo ne aveva subito approfittato per infilare un cd di arie di Mozart, di Rossini e Shubert cantate da Cecilia Bartoli, in sordina, in modo da non svegliarla, non solo per riguardo verso di lei, ma soprattutto per potersi gustare quel paesaggio amato a suon di musica, la sua musica.

    Eran forse passati quindici giorni dalla soluzione del caso che aveva visto per tragica protagonista proprio la sorella, quando aveva ricevuto una telefonata in ufficio. Il centralinista non essendo rimbambito, al sentire quel cognome gliel’aveva passata senza discutere. Il commissario Rebaudengo era rimasto perplesso per qualche istante, gli sfuggiva il fine, il disegno che avrebbe potuto celarsi dietro quella chiamata, non riusciva a capire il senso di quelle frasi confuse, imbarazzate, poi si era reso conto che Candida di Blasi non voleva niente di strano. Lui, lo sbirro era stato l’unica figura buona, affidabile, in un mare in tempesta, nell’attraversamento di quei giorni d’incubo e lei non voleva perderlo, non voleva che, una volta cessato il suo ruolo di sbirro, cessasse anche la sua presenza nella sua vita, insomma lo voleva come amico. Era una cosa un po’ insolita che una ragazzina si scegliesse come amico del cuore un commissario di polizia di trent’anni più vecchio, ma quella non era una ragazzina qualsiasi: le avevano ammazzato la sorella di poco più grande, la mamma viveva in America, dove era tornata poco dopo il funerale ed il padre era un pallone gonfiato imbecille che sarebbe riuscito a risvegliare istinti omicidi perfino in Sigmund Freud. Se Bartolomeo fosse stato abbastanza abile da evitare che la ragazzina si prendesse una cotta edipica, forse la strada dell’amicizia tra loro due sarebbe stata percorribile. Con una mirabile manovra all’apparenza del tutto casuale, le fece conoscere Ardelia e naturalmente la dottoressa dei morti seppe affascinarla: durante una cena in pizzeria si chiacchierò d’indagini e di differenze tra realtà e finzione letteraria o cinematografica, senza che mai la mente di Candida avesse modo di soffermarsi a ricordare che proprio quelle mani e quegli occhi davanti a lei avevano frugato nel corpo di sua sorella in cerca di risposte. Il ghiaccio era stato rotto, la cotta forse era stata schivata o sarebbe rimasta talmente subliminale da non arrecarle dolore e l’amicizia poteva davvero cominciare.

    Era arrivato l’autunno, qualche provvidenziale pioggia e la nebbia, e con queste tre condizioni, nei boschi, si sa, nascono i porcini e tutti gli altri. Così s’era preso un giorno di riposo e s’era portato dietro la mascotte. Ardelia quel venerdì lavorava e li avrebbe raggiunti durante la mattina del sabato. Bartolomeo s’era offerto di scendere in riviera a prenderla, per non avere due auto al momento del ritorno, ma lei non aveva voluto saperne, aveva deciso per il treno, uno di quei treni con l’aria un po’ da far west, che avevano garantito il pane al padre del commissario e gli avevano permesso di farlo studiare.

    Il giorno dopo sarebbero andati ai boschi della Pedaggera, era già Langa, uno di quei luoghi dell’anima che con il loro declivio, e le vigne, le cascine, le nebbie raccontano molto più dei loro abitanti di quanto non saprebbero fare loro stessi, peraltro parchi di parole e poveri d’immagini retoriche.

    Quella sera avrebbero mangiato alla casa del Villarello, la casa dei ferrovieri, dove viveva ancora il fratello di Bartolomeo e la madre, la donna dalle dita magiche che facevano il ‘plin’ ai ravioli più elegante di tutta la val Tanaro. Non era detto che sarebbero riusciti a mangiarli con il sugo di funghi, bisognava vedere come procedeva la giornata, ma sarebbero andati bene anche con la fonduta di raschera o nel brodo, purché i ravioli fossero estremamente numerosi ed il brodo estremamente esiguo. La mamma di Bartolomeo, Ernestina, che aveva ottantadue anni ed un cervello di una quarantenne e per certi versi anche meglio di tante quarantenni, conosceva la storia di Candida, di sua sorella e della sua famiglia, e s’era offerta di ospitare la ragazza: le avrebbe preparato la camera di Bartolomeo da giovane. Aveva letto tutti i giornali, ma alla fine aveva voluto sapere dal figlio, per capire meglio. Lui era diventato un mito durante le partite a carte dei vecchietti all’osteria o quelle di bocce che si tenevano nell’ampia bocciofila, ma anche durante le code dal medico, tra tinte e permanenti delle signore dal parrucchiere, nelle conversazioni della gente: Adesso ce l’abbiamo anche noi il nostro Montalbano, oh basta là, e anche più bravo e quando parla si sente che è piemontese: così imparano a dire che quelli di Cuneo sono tonti!. Ernestina curava ancora il minuscolo orto che ornava la casa dei ferrovieri, ognuno aveva il suo pezzo, ma non si può vivere soltanto di verdura. Così quando si avventurava in centro per fare le commissioni con il suo passo da bersagliere e la sporta della spesa, una retina rossa, sempre la stessa da più di trent’anni, poteva quasi immaginare il tenore dei commenti. Il suo giro non era sempre uguale, dipendeva dalle necessità di casa, ma prima o poi le tappe si ripetevano: ritirare le scarpe dal calzolaio, comprare la canfora per gli armadi, un salto in macelleria per il lesso da metter su nel pomeriggio perché piaceva a Giacomo, il figlio che aveva continuato la tradizione ferroviaria e che viveva con moglie e due figli nell’appartamento accanto. Quand’era di nuovo sul marciapiede, avrebbe voluto attardarsi un attimo per ascoltare, ma poi si allontanava, tanto indovinava ugualmente: Ma non era l’Ernestina Rebaudengo? La madre del commissario, quello che lavora in Riviera?. Adorava quella sensazione, soprattutto come risposta a quanti avevano mormorato che suo figlio avesse ordito oscure trame per finire ad Alassio a far niente, tra belle donne e ombrelloni. Bartolomeo amava sua madre e, restaurato da una bella psicoanalisi, adesso poteva permettersi di amarne anche i difetti e le manie. Ora non soffriva più quando riconosceva la sua pretesa di controllare le esistenze dei figli, quando li trasformava nei bersagli del suo amore un po’ ossessivo, o quando riusciva a risvegliare i loro sensi di colpa senza mai lamentarsi apertamente, anzi, di solito fingendo di scherzare sulle proprie debolezze. Ma non era stata solo lei a spingerlo sul lettino di un analista, ci aveva pensato anche papà, uomo buono fino al midollo, ma oppresso da un senso del dovere cupo, senza spiragli trasgressivi e senza allegria. Le ultime pennellate al quadro le aveva date la nonna paterna, vero spauracchio della sua infanzia, donna secca e agra, pregna di una religiosità che avrebbe fatto tremare i cardinali riuniti per il concilio di Trento. Meno male che poteva ricordare anche l’altra nonna, quella svanita, chissà, magari aveva l’Alzheimer, va a sapere, che parlava col cane e stava al buio come le mosche, diceva lei.

    In quel posto quei ricordi avevano una naturale dolcezza, altrove gli sarebbero sembrati di sicuro più malinconici. Intanto che ruminava, con un orecchio ascoltava i passi della ragazzina e con l’altro i rari rumori che arrivavano dalle strade lontane: una motosega, un cane che abbaiava, il campanile che suonava le undici del mattino...

    Il grido di Candida lo fece sobbalzare e forse se l’avesse avuta, avrebbe posato una mano sulla pistola, ma non l’aveva, non l’aveva mai, e poi non si va per funghi con una calibro nove incastrata nelle braghe sopra una chiappa. Il cuore gli diede un sussulto e prese a correre come un forsennato. Non disse niente, non la chiamò, non gridò per non attirare l’attenzione finché non la vide. Era in ginocchio, con le mani giunte sulla bocca in senso di meravigliata contemplazione, come una statuina della Vergine del presepio, che nella stessa posizione contempla il Bambin Gesù. Solo che al posto del Bambinello c’era un porcino d’inusitata fierezza, una semisfera color del cioccolato con un gambo obeso e sodo: un capolavoro di michelangiolesca maestà! E lui che nel cesto aveva tre graziosi boccioli, quei porcinelli che si mettono sott’olio interi, provò un moto d’invidia: ‘Il solito culo dei principianti!’, pensò, ma non disse niente perché una lacrima di commozione sulla guancia della ragazza glielo impedì. Forse non pensava di essere degna di un simile privilegio, o forse aveva soltanto i nervi a pezzi, dopo tutte le sue traversie, così piangeva per un porcino. Anche il sentimento evocato in Bartolomeo fu di profondo struggimento e, chissà perché, si ritrovò a vedere in quell’adolescente la figlia che non aveva avuto.

    Asciugata la lacrima, quel premio inaspettato le diede una carica più energica di una pista di cocaina, la riempì di euforia cercatoria e decise che sarebbe riuscita a colmare il cesto di esemplari uguali.

    Candida vola basso, reperti come questo sono rari anche nella vita di cercatori anziani e più esperti di te, abituati a farsi strada tra rovi e pietraie, come fossero cinghiali. Tu hai trovato questa meraviglia senza soffrire: è statisticamente impossibile che un miracolo simile si ripeta, devi credermi!.

    Va bene commissario, anzi no, adesso vicequestore.

    E non chiamarmi commissario, e lascia perdere il vicequestore, porca paletta, almeno non in mezzo a un bosco!.

    D’accordo, Bartolomeo, però io della tua percentuale statistica me ne batto i coglioni. Se ho trovato questo, posso trovarne degli altri! Tu mi dici così soltanto perché sei invidioso. Guardalo, è talmente bello che sembra un effetto speciale del Signore degli Anelli! Tu invece povero sfigato, hai trovato quei tre cosini, appena un gradino sopra le muffe unicellulari, che le ho studiate l’altro giorno, ecco sì, un po’ più grossi di un antibiotico, ah ah, un antibiotico!.

    Quindi vuol dire che per la mia età ci vedo ancora abbastanza bene!.

    Ah per quello senz’altro, ma non sta lì il problema: il problema piuttosto è l’invidia. Non avresti mai pensato che io, misera tapina, la prima volta che ho messo piede in un bosco, avessi una simile botta di culo, ti sembra una terribile ingiustizia e allora mi tiri fuori il discorso statistico!.

    Senti, bambina, non si va per funghi per sfida!.

    E perché no? Lo fanno tutti, per funghi, a caccia o a pesca! Si va avanti a colpi bassi, a manovre indegne… Hai mai sentito dire che un cercatore di funghi abbia rivelato i suoi ‘posti’? E se te li dice, te li dice sbagliati!.

    Guarda me per esempio! Non te li ho detti, ti ci ho addirittura portato!.

    E come avresti fatto a portarmi per funghi senza portarmi per funghi! Il punto è un altro: è che non avresti mai pensato che un’imbranata come me sarebbe letteralmente inciampata in una meraviglia simile! Questo m’incoraggia: posso trovarne altri! Riprendiamo! Io vado di lì, tu vai di là! Ti va bene?.

    No, io vado di lì e tu vai di là!.

    Va be’, fai un po’ come vuoi: vinca il migliore!.

    Sì, furbetta, però voglio che restiamo a tiro di voce, quindi non allontanarti troppo!.

    Va bene commissario… vicequestore!.

    Non ti va di fare uno spuntino? Sono suonate le undici già da un po’!.

    Lo fai per distrarmi, così mi scende il rendimento: se mai più tardi!.

    Strappò una manciata di foglie ancora verdi da un ramo basso di castagno e allestì una specie di confortevole culla al suo porcino, perché non si rovinasse contro le pareti del canestro, poi si rialzò, baciò sulla guancia il suo avversario e ripartì decisa verso di lì.

    La nebbia s’era alzata, non faceva caldo ma nemmeno freddo e qualche raggio di sole filtrava tra il fogliame, si sentiva ancora il ronzio degli insetti e al naso arrivava il profumo del muschio tiepido.

    All’una fecero la pausa pranzo. La situazione s’era evoluta: sei funghi per il commissario, i tre successivi un po’ meno neonati, adolescenti(?), mentre Candida ad uno era e ad uno era rimasta. Chiacchierò poco mangiando, visibilmente con i musi, addentava il suo panino con la mortadella come se avesse voluto fargli male. Bartolomeo non poté non apprezzare la scelta della mortadella: niente prosciutto cotto o crudo, o sottiletta o qualche altro formaggio ceroso da fast food. La ragazza aveva dei numeri, poteva essere coltivata, prima o poi le avrebbe fatto conoscere la testa in cassetta o il lardo e niente coca cola, un bel bicchiere di dolcetto, uno solo s’intende, ma buono.

    Alle due, dopo aver raccattato i pochi rifiuti, si separarono di nuovo.

    Al rientro la chiacchiera di Candida fu più incontenibile di una piena del Tanaro, ma di quelle brutte, novembrine: aveva trovato altre due bocce nere ed un elegantone di faggio con il gambo da danzatore ed un bel cappello color caffelatte. Adesso era Bartolomeo che faceva i musi, guidando in silenzio verso il centro del paese, in direzione di Villarello.

    A tavola ogni tanto la spiava mentre mangiava con un entusiasmo poco adatto ad una signorina della buona società,

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