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Torino la chiusura del cerchio: Una nuova indagine di Vivaldi e Meucci
Torino la chiusura del cerchio: Una nuova indagine di Vivaldi e Meucci
Torino la chiusura del cerchio: Una nuova indagine di Vivaldi e Meucci
E-book405 pagine4 ore

Torino la chiusura del cerchio: Una nuova indagine di Vivaldi e Meucci

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Info su questo ebook

Nel corso di lavori all’interno di un’area gioco bimbi nel quartiere di Lucento, periferia nord di Torino, vengono rinvenute delle ossa umane. Di chi sono, ma soprattutto, da quanto sono sotterrate, è il primo interrogativo che si pone la sezione omicidi della Questura. Di contro, la DIGOS torinese, sembra finalmente essere sulle tracce di un terrorista che pare averla fatta franca per decenni. Il passato torna a bussare in due indagini particolari, per certi versi speculari, incredibili, paradossali, che sapranno incontrarsi, intersecarsi, intrecciarsi fatalmente in un assurdo gioco del destino. Sullo sfondo la vita di Mario, pensionato, e i suoi conflitti familiari che lo indurranno a scelte drastiche e inaspettate. Peccato che anche lui abbia qualcosa da nascondere. Un terribile segreto prigioniero anch’esso del passato. Come in una partita a scacchi, l’attesa e la strategia incolleranno il lettore fino all’ultima pagina attraverso emozioni forti, empatia e commozione. Storie malate, che arrivano da molto lontano.

Maurizio Blini, è nato a Torino nel 1959. Oltre a innumerevoli racconti inseriti in antologie, tra cui, per Edizioni del Capricorno, Porta Palazzo in noir (2016), Il Po in noir, (2017), Montagne in noir (2018), ha pubblicato i seguenti romanzi: Giulia e altre storie, Ennepilibri Editore (2007 tradotto e pubblicato in Bielorussia, da Prajdzisvet 2012 e Knigazbor 2013), Il creativo, Ennepilibri Editore (2008), L’uomo delle lucertole, A&B Editrice (2009), Il purificatore, A&B editrice (2011), Unico indizio un anello di giada, Ciesse Edizioni (2012), R.I.P. (Riposa in pace), Ciesse Edizioni (2013), Fotogrammi di un massacro, Ciesse Edizioni (2014), Figli di Vanni (con Gianni Fontana), Golem Edizioni (2015), Rabbia senza volto, Golem Edizioni (2016), La ragazza di Lucento, Fratelli Frilli Editori (2018), La ragazza di Lucento, riedizione a cura de Il Giornale (2020), La strategia del coniglio, Fratelli Frilli Editori (2019), Le bugie della notte, Fratelli Frilli Editori (2020), I cattivi ragazzi, Edizioni del Capricorno (2021), I delitti del dragone, Fratelli Frilli Editori (2021), La congiura del geco, Edizioni del Capricorno (2022).
LinguaItaliano
Data di uscita4 mag 2022
ISBN9788869436093
Torino la chiusura del cerchio: Una nuova indagine di Vivaldi e Meucci

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    Anteprima del libro

    Torino la chiusura del cerchio - Maurizio Blini

    1

    Torino, primavera 2019

    «Ferma, ferma!»

    L’escavatore si blocca con uno stridio sinistro e fastidioso, mentre uno degli operai vicini, con un piccone in mano, fa segno al capo cantiere poco distante di avvicinarsi. Ha il braccio alzato teso come un vigile all’incrocio.

    Il geometra Manassero, giubbotto giallo fosforescente e casco indossato, si avvicina con un altro addetto al cantiere.

    «Che c’è? Qualche tubatura non segnalata?»

    L’operaio non risponde ma, con il manico del piccone, indica perplesso qualcosa a terra, nello scavo. Manassero si inchina per osservare meglio chiedendo a sua volta il piccone. Con calma smuove della terra nel punto indicato, sembrano vecchi stracci, poi si ferma sorpreso. Resta immobile, in una sorta di surplace. Dio solo sa a cosa stia pensando in questo momento. Poi alza lo sguardo al cielo e impreca.

    «Porca puttana, questa non ci voleva proprio…»

    L’operaio lo guarda di sottecchi mentre sospira.

    «È veramente quello che sembra?», chiede.

    «Già, si direbbe proprio di sì. Fai una cosa, chiama il 112, fai venire qualcuno. Dì che abbiamo trovato un teschio e che, probabilmente, qui sotto ci sarà pure il resto.»

    Il geometra Manassero chiama il suo diretto superiore in Comune. Informa sull’accaduto dicendo che resta in attesa di disposizioni. La risposta è perentoria. Tutto si deve fermare immediatamente, imperativo.

    «Di chi sarà? Magari è vecchio, starà qui da chissà quanto tempo» dice l’addetto al cantiere.

    «Perché pensi questo?»

    «Beh, intanto perché la superficie del terreno non era smossa, anzi, come hai visto, è piuttosto compatta. E poi, per logica direi, qui, fino a qualche giorno fa c’era un’area cani e, se non sbaglio, da almeno una decina di anni. Insomma, chi vuoi che vada a sotterrare un cadavere in un’area cani?»

    La sua tesi non sembra fare una grinza. In effetti, è assai improbabile che qualcuno, seppur nottetempo, abbia interrato un cadavere proprio qui. Così come l’osservazione sulla compattezza del terreno regge. E poi ci vorrà pure del tempo affinché un cadavere si riduca a scheletro. Anni. Sì, probabilmente si tratta di roba vecchia.

    «E cosa c’era prima dell’area cani, qualcuno lo sa?» chiede Manassero. Nessuno risponde. Meglio aspettare comunque l’arrivo della polizia. Una cosa è certa, queste sono sempre delle rogne, non c’è nulla da fare.

    Manassero si accende una sigaretta e, mentre respira il suo fumo amico, vede arrivare una volante della polizia che si ferma in via Cipolla. Gli agenti scendono e lui, avvicinatosi, racconta quel poco che sa o che può immaginarsi possa essere successo, poi indica il teschio che riaffiora sinistro dal fondo della buca. Una rapida occhiata e uno di loro, il capo pattuglia, avvisa la centrale operativa. Poi, presa una valigetta dall’auto, la apre sul cofano e, con una cartellina in mano, esclama.

    «Beh, allora, intanto che aspettiamo la cavalleria, datemi tutti i vostri dati.»

    Manassero prende i documenti e sospira nervoso.

    «Cosa state facendo qui?» chiede l’agente

    «Un’area giochi per bimbi, il nuovo giardinetto sostituisce l’area cani che è stata trasferita in via Verolengo.»

    «E, se non sono indiscreto, a che vi serve l’escavatore?»

    «Perché è necessaria una base d’appoggio in cemento per altalene e quant’altro sarà installato. Cemento, rivestito poi da un materiale plastico simile alla gomma» replica Manassero.

    Intorno, qualche curioso inizia a fare capolino. La voce fa in fretta a spargersi.

    Sarà sufficiente a breve vedere la Scientifica indossare le tute bianche e iniziare i primi rilievi, per poter poi imbastire storie e commenti dai colori noir, così come si conviene in un quartiere popolare come quello di Lucento, periferia nord di Torino.

    2

    Torino. Ospedale Maria Vittoria. Pronto soccorso.

    Sono seduto su di una barella con indosso solo una specie di camicia da notte a quadretti legata sulla schiena. Mi osservo le ginocchia, sono legnose. Ho freddo ma mi hanno detto di stare qui. Mio figlio e sua moglie sono nello studio attiguo e stanno parlando con un medico. La porta è socchiusa. Ne scorgo i movimenti ma non riesco a percepire le loro parole.

    L’odore è pungente, un misto tra disinfettante e detersivo, non mi piace un granché. Ci farei meno caso se potessi vestirmi un pochino. Ora ho i brividi.

    Torno a guardarmi le ginocchia e poi le gambe. Sono magre come rami secchi. Un tempo, ricordo, erano potenti, muscolose, capaci di grandi cose. Che schifo diventare vecchi. Sento voci nel corridoio, un certo viavai. Rumori di barelle che scorrono su rotelle cigolanti e claudicanti. Mi tocco il capo. Mi duole. Sul lato destro sento una garza. Con i polpastrelli la sfioro in tutta la sua grandezza. Una maschera interrogativa mi altera i lineamenti del viso. Sarò caduto? Mi avranno dato una botta in testa, forse? Una rapina? Il mio sguardo torna a posarsi desolato sulle mie ginocchia, non ricordo assolutamente nulla.

    Cerco di intravedere il più possibile attraverso lo spazio che separa la porta aperta dallo stipite. Si sono seduti tutti quanti ora, vedo il medico che gli parla e lui di spalle. Ora scuote la testa lentamente. Mia nuora si è spostata ed è sparita alla mia vista. Mentre stringo le braccia al corpo per il freddo che provo, mi accorgo di avere l’ago di una flebo infilato nell’avambraccio sinistro, un cerotto e un livido scuro. Sospiro profondamente: sono perplesso.

    Ma come si diventa da vecchi? Fragili e delicati come cristalli. Appena una bottarella ed eccolo lì, impertinente quanto insolente, comparire come d’incanto, un nuovo ematoma, a ricordarti, qualora non te ne fossi accorto, che il tempo passa inesorabile, come un fiume che scorre lento e che sembra non finire mai. Sono i capillari che esplodono, mi hanno detto, invecchiano anche loro, figli del loro tempo, non ce la fanno più.

    Le mie mani gelide come quelle di un cadavere si poggiano sulle ginocchia. Un brivido corre lungo la mia schiena. Sento rumori di sedie che si spostano, mio figlio apre la porta e mi guarda. Si sforza di sorridermi ma so che non è sincero e lo scruto con sospetto. Io so quando mio figlio finge, me ne accorgo. Come potrei non leggergli negli occhi una sorta di preoccupazione?

    Guardo lei, Ivana, mia nuora. Ha la solita espressione arcigna e non ci prova nemmeno a far finta di sorridermi. Si avvicina e semplicemente mi riprende con lo sguardo, come se fossi un bimbo disubbidiente appena caduto dalla bicicletta. Il medico mi saluta appoggiandomi la mano sulla spalla. Dice che non devo preoccuparmi e che tutto si risolverà. Io mi guardo intorno con occhi spauriti, come quelli di un uccellino che cerca la madre, non sto capendo nulla. Cosa è successo? Perché sono in un ospedale? Chi mi ha dato una botta in testa? Vorrei chiedere tutto questo, ma dalla bocca mi escono solo due parole striminzite: «Ho freddo.»

    Vedo mio figlio chiamare un’infermiera. Escono tutti nel corridoio e mi lasciano nuovamente solo, come se a me fosse precluso qualsiasi diritto a essere informato, alla verità. Le braccia conserte sono l’unica difesa che mi viene concessa e non è molto a mio modesto avviso. Passano minuti interminabili e ora devo pure fare pipì. Sarà il freddo, la prostata, non so. Provo a chiamare mio figlio e dopo qualche istante lo vedo entrare insieme a un’infermiera piuttosto giovane.

    «Piero, devo andare in bagno. E poi ho tanto freddo…», dico.

    Intanto, lei mi sorride gentile e controlla la flebo.

    «Qualche istante e la lascio andare» esclama. «Qui abbiamo praticamente finito. Poi si potrà vestire e tornare a casa. Contento?»

    La guardo serio, smarrito, muovendo appena il capo. Perché a noi anziani ci trattano tutti come bimbi? Con quelle vocine strane, alcune in falsetto, quei sorrisi da cartolina, quelle espressioni da idioti? Mi toglie l’ago, mi prende un dito della mano destra e me lo spinge su di un pezzo di cotone che ha appena appoggiato proprio lì.

    «Tenga premuto per qualche minuto. Mi ha capito? Tenga premuto!»

    La guardo con occhi pietosi, non sono né sordo né rimbambito. Almeno credo, ma va bene così. Purché mi ridiano i vestiti e mi lascino svuotare la vescica. Per Dio!

    Vedo mia nuora Ivana allungare gli indumenti a Piero, mio figlio. Lui si avvicina e mi aiuta a vestirmi. Perché non lo fa lei? Le faccio schifo? Piero mi abbottona la camicia con attenzione. Il suo viso è vicino al mio tanto da percepirne il respiro, ma i suoi occhi sembrano evitarmi.

    «Cos’è successo, Piero?», bisbiglio, quasi fosse un segreto.

    «Nulla papà, stai tranquillo. Poi a casa ti spiego.»

    Non replico. Poi a casa mi spiega. Va bene.

    «Posso fare pipì? Mi scappa…»

    Mi dà una mano a scendere dalla barella e a infilarmi i pantaloni, poi indica una porta in fondo alla stanza. Quello è il bagno. Mi allontano con passi lenti, sono debole. Entro e, dopo aver urinato, mi lavo le mani. Poi mi osservo allo specchio. Il viso smunto, più magro del solito, due grosse occhiaie scure e una benda sulla testa. Scrollo nuovamente le spalle ed esco. Mi sento come intontito e poso il mio sguardo su Piero che mi aspetta appoggiato allo stipite della porta. Non gli chiedo nulla. Tanto a casa mi spiega, ha detto.

    Nel tragitto, con me non parlano, non mi rivolgono la parola, come se non esistessi. Resto muto a guardare il mondo fuori dal finestrino. Proprio come un bimbo sul seggiolino, con la differenza che ho in testa tanti pensieri che si rincorrono confusi. Tento invano di ricordare qualcosa ma, nulla, un buco nero sembra aver inghiottito quella porzione di tempo. Mi ritrovo improvvisamente in una condizione di assoluta fragilità, quasi vergognandomene, come se fosse colpa mia. Osservo di nuovo Ivana. È rigida come uno stoccafisso. Il busto fermo come incollato al sedile mentre il capo si muove continuamente sul collo, come quei cagnolini che un tempo si piazzavano sui pianali delle auto. Mi scappa un sorriso. Chiudo gli occhi. Non siamo mai andati d’amore e d’accordo io e lei, senza un particolare motivo in verità. Una questione di pelle: Ivana non mi ha mai concesso più di tanta confidenza e io l’ho ripagata con la medesima moneta. Punto e basta. E così sono passati gli anni, tra sguardi, silenzi, ipocriti sorrisi e frasi di circostanza. Anche con Piero la situazione non è mai stata così chiara, con quel suo carattere ombroso, trattiene tutto dentro di sé. Introspettivo e talvolta rancoroso, non mi ha mai perdonato la separazione da sua madre. E io, non ho mai forzato più di tanto, sperando che le cose si mettessero a posto da sole, con il tempo. Ma così non è stato.

    Piero è un uomo intelligente, lavora duro. Ha seguito la sua passione per i dolci studiando all’Alberghiero, ha fatto l’apprendista e successivamente il dipendente per molti anni in una pasticceria storica della città. Ora ha una attività tutta sua e ne va giustamente orgoglioso. Resta il fatto però che, oltre al lavoro, non ha altre particolari passioni. La moglie, anche lei con un negozio di parrucchiera, non ha tempo da dedicargli, mentre i figli, si sono entrambi sistemati all’estero, e questa loro fretta di svignarsela, da lei in particolare, penso di averla compresa anche troppo bene. Giovannino, che ora ha trent’anni, è sous chef in un noto ristorante di Londra, nella zona di Piccadilly, mentre Sara, fuggita dalle grinfie della madre che intendeva imprigionarla nel negozio di famiglia, è invece riuscita a laurearsi in Economia, vive e lavora in Francia, a Lione. Ha trovato impiego in un istituto bancario e si occupa di analisi del mercato azionario. Probabilmente in questo ha preso da me, anche se io in banca ero solo un semplice ragioniere. Chissà.

    Siamo arrivati in corso Toscana 220, zona Lucento, a Torino, il mio indirizzo.

    Piero mi apre la portiera dell’auto, inusuale gesto di cortesia, e poi mi accompagna a casa, nel mio appartamento al sesto piano. Saliamo sull’ascensore, l’atrio è invaso da odore di soffritto, Ivana per fortuna è rimasta ad attendere in auto, parlava al cellulare e per un attimo ha smesso di interpretare la parte della tuttologa salutandomi con la manina.

    Lungo il tragitto osservo Piero che, al contrario, evita di guardarmi. A volte ha momenti di estrema timidezza, come quando era un bimbo. Sorrido pensando a quanto in questo mi somigli. Entriamo in casa, lui poggia la borsa su di una sedia, mi fa delle raccomandazioni e si sincera che il frigorifero sia pieno di roba commestibile, proprio come piace a me. Prima di uscire mi dà un bacio sulla fronte e poi bisbiglia.

    «Più tardi torno, dobbiamo parlare un pochino.»

    Lo osservo cupo.

    «Di cosa?»

    Lui sospira come spazientito.

    «Della tua salute, papà. Di quello che ti è successo. Ora sento Evelina e le dico di venire appena possibile, va bene?»

    Io annuisco e basta. Evelina è la signora del primo piano che si occupa di me saltuariamente. Odio chiamarla badante, Dio me ne scampi e liberi, per fortuna sono ancora autosufficiente, tuttavia mi lava e stira gli indumenti, tiene pulita la casa e, di tanto in tanto, mi prepara qualche manicaretto da mangiare, anche se io me la cavo ancora piuttosto egregiamente ai fornelli.

    Piero mi saluta ed esce. Mi accomodo sulla sedia e con la mente ritorno alle sue parole. Dobbiamo parlare…

    Quando era un ragazzo ed era infuriato con me iniziava sempre così le sue discussioni. Me lo diceva sempre in tono minaccioso quel dobbiamo parlare. Mi accarezzo le fasce della bendatura e rifletto sulla sua espressione. No, questa volta non era affatto minacciosa. Sorrido. Sembrava quasi un modo per prendere tempo, guadagnarne. Deve parlarmi della mia salute. Spiegare quanto accadutomi, finalmente: ma perché non lo ha fatto subito, chiedo a me stesso. Mi alzo e mi infilo nel bagno, accendo la luce dello specchio e mi guardo. Accidenti, in effetti si tratta di una bella botta. Ripasso delicatamente i polpastrelli della mano sulle bende. Mi rendo conto di essere più magro del solito. Il mio sguardo si abbassa sulle mie mani. Sono nervose e trattengono il lavandino come se questo dovesse schizzare via da un momento all’altro.

    Non provo dolore, solo tanta stanchezza. Forse è meglio riposarsi sulla poltrona e guardare un po’ di televisione. Mi avvicino lentamente al soggiorno e mi siedo, prendo il telecomando e premo un tasto a caso. Le immagini scorrono e i suoni riempiono la stanza, tuttavia, sento tutto in modo ovattato, come se ci fosse una eco sorda. Infilo gli occhiali e cambio canale più volte. Inutile, non riesco a concentrarmi. Spengo e chiudo gli occhi, appoggio il capo sullo schienale e mi lascio trasportare lentamente in un sonno riparatore. Sì, meglio ricaricarsi. Non ho alcuna fretta e né impegni mondani da assolvere, purtroppo. Meglio abbandonarsi e lasciarsi cullare lentamente.

    3

    Torino, via Cipolla

    Quando il commissario della sezione Omicidi, Federico, arriva sul posto, la Polizia Municipale ha già sistemato delle transenne per contenere uno sparuto gruppo di curiosi. Il magistrato, dottor Passante, pipa fumante in bocca, discute con il medico legale sulle ipotesi più recondite, mentre la Scientifica, coadiuvata da un paio di esperti in archeologia forense, si dà da fare nell’estrarre con una certa armonia e ordine, reperti ossei dalla scena del delitto.

    «La vera novità di oggi, in effetti, sono proprio loro» dice il dottor Pastore, medico legale. «Antropologi e archeologi forensi, discipline complementari e integrative ormai inserite a pieno titolo nell’ambito delle indagini legali, hanno il compito di individuare e delimitare la reale scena del crimine, rinvenendo prove di reato nell’esumazione dei resti delle vittime.»

    Il dottor Passante lo guarda limitandosi a muovere il capo.

    «Com’è la situazione?» li interrompe Federico che sopraggiunge alle loro spalle.

    «Statica, per ora» reagisce il magistrato. «Restiamo in attesa che qualcosa accada.»

    Federico sposta lo sguardo osservando i lavori. Uno dei giovani in tuta bianca sta effettuando una sorta di carotaggio del terreno proprio a ridosso del ritrovamento. L’ispettore La Porta, al suo fianco, si mostra a dir poco curioso di queste nuove tecniche di investigazione.

    «Questi qua mi fanno sentire vecchio, te lo devo proprio dire» esclama grattandosi il capo.

    Federico non replica ma ascolta il magistrato che si rivolge a La Porta.

    «Lei ha ragione da vendere, esimio ispettore. Per fortuna però, aggiungerei. Vede, la nuova pratica antropologica forense, si concentra sullo studio dell’individuo al fine di restituirne un’identità certa, sia sotto l’aspetto biologico, ovvero la statura, il sesso, l’età al momento della morte, e sia per gli eventi occorsi in vita, quali fratture, inserti ossei, placche, impianti in metallo, titanio, oro, che sia. Così come le possibili cause del decesso.»

    La Porta muove solamente il capo mentre continua ad ascoltare.

    «Si ricorderà lo scalpore di quando i primi biologi fecero il loro ingresso in polizia. Sembrava una vera e propria rivoluzione…» aggiunge il magistrato.

    «Vero, ha ragione dottor Passante. Il tempo trascorre velocemente e ci si deve adeguare. Questa vicenda mi ricorda però un vecchio caso di oltre trent’anni fa, di quando ero ancora un giovane poliziotto. Pensi che nella circostanza, nei campi di La Loggia, avevamo scavato un po’ tutti quanti, con pale, picconi, e poi avevamo raccolto le povere ossa di una malcapitata prostituta in una cassetta di legno della frutta che ci avevano gentilmente prestato. Senza guanti, protezioni, nulla. Altro che inquinamento della scena del crimine. A questo mi riferivo poco fa.»

    «Lei si immagini che tutto passerà presto al vaglio dei tecnici di laboratorio, alle varie analisi, alla datazione al radiocarbonio, e persino gli strati di terra verranno datati per addivenire con il minimo scarto possibile alla data di esumazione. Per fortuna, ripeto. Tutte queste operazioni, oggi, ci semplificano di gran lunga la vita.»

    «E, se mi permette, abbassano anche di molto la soglia di errore.»

    Il dialogo viene interrotto da un collega della Scientifica che arriva con delle ossa in mano.

    «Dottor Passante, guardi…»

    Il magistrato si avvicina senza però replicare, se non con uno sguardo interrogativo dipinto sul volto.

    «Beh, semplice aritmetica, dottore. Se i femori recuperati risultano per ora tre, qui di cadaveri ne abbiamo almeno due.»

    «Santo Dio…» replica lui inarcando le sopracciglia.

    Federico si avvicina alla buca inginocchiandosi. Riflette sulla zona. Gli hanno appena riferito che questa era un’area cani, pertanto con movimenti anche saltuari, giorno e notte forse, chissà. E poi i colleghi della Scientifica parlano di cadaveri datati. Pertanto bisognerà tornare indietro nel tempo. E per fare questo, la datazione assume un valore determinante.

    Due cadaveri seppelliti a circa un metro di profondità in una zona periferica della città. In fondo nulla di strabiliante, si potrebbe dire, anzi. Si volta verso La Porta con una smorfia. I pensieri che volano veloci nella sua mente. Poi di nuovo vicino al magistrato.

    «Allargherei la zona da delimitare, a questo punto. Dobbiamo scavare in tutta l’area, scoprire il più possibile. Potrebbero esserci altri cadaveri. Nulla si può escludere.»

    Il dottor Passante è dubbioso ma siccome l’area non è poi così grande, pensa si possa fare. Saranno necessari più mezzi e più personale, però.

    «Fatevi prestare una fotoelettrica dall’esercito, per la notte. Nessuno deve inquinare quest’area. E facciamoci mandare altri colleghi cortesemente» ordina a un suo collaboratore.

    «Sono curioso di sapere quanto dovremmo correre a ritroso nel tempo» aggiunge poi espirando una nuvola di fumo.

    «Comunque vada, sarà un rompicapo per tutti quanti» risponde Federico.

    «Quando ci si rivolge al passato possono intervenire un sacco di variabili indipendenti. Intanto sentiamo cosa sapranno raccontarci quelle ossa…» replica lui allontanandosi verso l’auto. «Facciamole parlare, cantare se necessario» aggiunge.

    4

    Questione di vedute.

    «Che intenzioni hai?», chiede Ivana mentre prepara il caffè.

    «Beh, ne abbiamo già parlato…»

    «Prima si trattava solamente di ipotesi. Ora siamo costretti a farlo.»

    Piero si gratta la testa imbarazzato abbassando lo sguardo in cerca di parole.

    «Guarda che è per lui che lo dobbiamo fare, capisci? Per la sua sicurezza», ribatte Ivana incrociando le braccia.

    «Sì, certo, me ne rendo conto, però converrai con me che non è semplice. Devo trovare le parole giuste. Il coraggio…»

    «È quello che ti manca, vero? Come al solito!»

    «Sì. Non sono pronto. È sempre stato un uomo indipendente. Non ha mai avuto bisogno di nulla…»

    «Prima, Piero. Prima di questi attacchi. Il medico è stato chiaro, no? Questi vuoti, sono come dei buchi neri, non semplici mancamenti. Perde conoscenza, cade, si procura delle ferite. Potrebbe coinvolgere anche altre persone, capisci? E poi non si ricorda più nulla di quanto successo. Amnesia totale. Può diventare pericoloso per sé e per gli altri. So quanto sia difficile per te assimilare il concetto, ma pensa, se si dovesse perdere nel corso di una crisi? Non si ricorderebbe nemmeno il suo nome…»

    Piero scuote la testa.

    «Sì, certo, però questo potrebbe accadere in qualsiasi momento, anche nella casa di riposo. Oppure quando è fuori. Non è mica un carcere sai? Gli ospiti possono uscire dall’istituto, mattino e pomeriggio.»

    «Piero, cerca di essere razionale, ovvio che possano uscire, ci mancherebbe, ma nella struttura sarebbe monitorato tutti i giorni, seguito anche nell’alimentazione, nei controlli medici…», incalza Ivana alla ricerca di parole ancora più convincenti.

    «E poi può farsi nuovi amici. Hai visto il dépliant… attività sociali, sportive, ludiche, biblioteca, sala cinema. Gli farà bene stare in una dimensione protetta, fidati, si sentirà al sicuro, quanto meno la sera, la notte, Piero. Evelina non può gestirlo e un’altra signora ci costerebbe troppo», continua.

    «Ivana, lui è autosufficiente anche economicamente. Ha una bella pensione in grado di sostenere le spese», dice Piero riuscendo finalmente a parlare. Ivana versa il caffè nelle tazzine, invitandolo a sedersi al tavolo.

    «Lo sai che prima o poi ci toccherà integrare, è solo questione di tempo. Ha ottantasette anni, Piero.»

    Lui si stringe il capo con le mani, come se questo improvvisamente pesasse come una zavorra.

    «Non pensavo di arrivare a tanto. Toccherà anche a noi?»

    «Se non ce ne andiamo prima al creatore, sì, Piero. Ti illudi che i nostri figli si cureranno di noi? La vita è questa e penso che Villa Gaia sia una soluzione più che dignitosa.»

    «Non so come dirglielo…»

    «Portati il dépliant, è molto chiaro. Oggi le residenze per anziani sono strutture moderne, accoglienti, dinamiche…»

    «Ivana, non devi convincere me.»

    «E poi è in zona, saremo vicini, lui potrà venire a pranzo da noi la domenica… ogni tanto.»

    Piero si alza con l’opuscolo di Villa Gaia in mano. Lo sfoglia nervosamente, guarda le fotografie, legge. Una confort zone per i graditi ospiti, un parco meraviglioso, persino una piscina. A guardarlo sembra di andare in ferie a Riccione o in qualche altro bel posto al mare. Già, ma a Lucento non c’è il mare. E probabilmente nemmeno quei sorrisi smaglianti sulla carta patinata. Chissà quanto è vero e quanto no. Piero sospira nervoso. Deve convincere suo padre che è la cosa giusta da fare, senza spaventarlo però, senza farlo preoccupare. Un groppo alla gola sembra quasi soffocarlo mentre dei ricordi affiorano prepotenti. Alcuni belli, come quando papà gli aveva regalato il suo primo motorino. Era grigio metallizzato, di seconda mano, un Cimatti con carburatore da sedici. Rammenta ancora l’emozione forte nell’averlo visto inaspettatamente in cortile, davanti al garage. Altri, invece, meno belli, come quando il padre se ne era andato via di casa, lasciando la mamma dopo l’ennesimo litigio. Piero si asciuga velocemente con un fazzoletto le lacrime che hanno fatto capolino e si allontana verso il bagno. Non vuole farsi vedere dalla moglie. Lo aveva odiato quel giorno, con tutto se stesso, augurandogli persino la morte. Ma poi con il tempo gli era passata. Già, perché il tempo aiuta sempre a curare le ferite, pur sapendo che non guariranno mai del tutto, e saranno proprio quelle cicatrici a darti la forza necessaria per andare avanti. Già, il tempo, quello stesso tempo che ora lo chiudeva in un angolo senza possibilità di fuga. A ottantasette anni le opzioni si riducevano drasticamente. Ottantasette anni.

    Ci sarebbe arrivato lui a quell’età? E se sì, in quale stato?

    5

    Il giorno successivo. Mattino.

    È l’alba del giorno dopo quando i lavori vengono ripresi. Metà del terreno è stato setacciato con cura anche attraverso l’uso di metal detector. Per ora nulla in più che due vittime seppellite a poca distanza l’una dall’altra. Dal primo esame obiettivo del medico legale si tratta di due donne. Tutto qui. Nessuno si sbilancia oltre.

    L’atmosfera è tesa. Si ha come l’impressione di assistere in diretta a un incubo, una vicenda torbida, antica forse, malata, sicuramente.

    Quando un terzo scheletro riaffiora da quell’inferno di terra e sassi sul posto ci sono Gai e Vecchi. Sono appoggiati all’auto con un’espressione annoiata. Si risvegliano entrambi da una sorta di torpore quando, sentiti gli schiamazzi, vedono avvicinarsi altro personale agli scavi.

    «Ancora ossa…» esclama il collega della Scientifica riponendole in un contenitore dedicato.

    «Quindi siamo arrivati a tre» dice Vecchi grattandosi la barba.

    «Non è che qui magari una volta c’era un cimitero?» chiede Gai con una smorfia strana dipinta sul viso.

    «Un cimitero? Ma che cazzo dici?»

    «Guarda che nella zona dei campi di calcio, ad esempio, c’era un piccolo cimitero che è stato smantellato negli anni settanta. Un tempo si usava avere tanti piccoli campisanti. Che vuoi che ti dica?»

    «Davvero?»

    «Sì, davvero, quindi non fare tanto lo spiritoso. Perché l’alternativa allora sai quale potrebbe essere, vero?»

    «Come no, un serial killer.»

    «Appunto. E tu vai a ricostruire le varie storie criminali di un secolo fa con nulla in mano? Tanti auguri!»

    Vecchi non replica ma sospira. Pensa però che prima di sera avranno finito di scavare e così lui potrà andarsene tranquillo in palestra e poi a vedersi un bel film di fantascienza su Netflix con una birra in mano.

    Intanto ecco di nuovo il magistrato e altre persone che arrivano alla spicciolata. Vecchi guarda l’ora, si sono fatte le dieci di mattina e lui inizia ad avvertire un certo languorino.

    «Andiamo a farci una bella colazione al bar, dai, qua c’è già troppa gente per i miei gusti» esclama montando in auto.

    Gai lo asseconda pensando che un paio di croissant e un buon cappuccio possano proprio andare bene a quest’ora.

    Pensa a quanto potranno essere difficili le indagini nel caso si trattasse veramente di omicidi seriali, affascinanti, senza alcun dubbio, ma ostiche da morire. Come scalare l’Everest a piedi nudi, come un bonzo.

    Sorride da solo a quella specie di battuta che gli è uscita così spontanea. Si tocca l’orecchino al lobo dell’orecchio e poi guarda

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