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Se son rose moriranno: Intrigo spinoso per Rebaudengo
Se son rose moriranno: Intrigo spinoso per Rebaudengo
Se son rose moriranno: Intrigo spinoso per Rebaudengo
E-book367 pagine

Se son rose moriranno: Intrigo spinoso per Rebaudengo

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Info su questo ebook

Un malato muore nell’afa opprimente di un’estate di qualche anno fa. Un dolore improvviso e ingiusto dissesta la vita di Ardelia Spinola. In una triste sera autunnale, il dottor Steiner si fracassa una caviglia cadendo dalle scale di casa. Nel frattempo Bartolomeo Rebaudengo si rigira tra le mani un pacco di cocaina senza mittente e senza destinatario, abbandonato come un rifiuto in una “fascia” di ulivi sopra la splendida baia di Alassio.
Questi sono gli ingredienti di una nuova storia che vedrà i talenti dei protagonisti, sempre sospesi tra dramma e risata, uniti nella ricerca della soluzione di un caso complicato. Tempi e dosaggi sembrano la chiave per comprendere la natura dei decessi di anziani, trovati morti nelle loro abitazioni. Si tratta di una serie di “equivocal death” come dicono gli esperti dell’FBI, oppure dietro c’è un disegno perverso? La logica di Rebaudengo e l’intuito di Ardelia accompagneranno il lettore verso la verità.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2012
ISBN9788875637323
Se son rose moriranno: Intrigo spinoso per Rebaudengo

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    Anteprima del libro

    Se son rose moriranno - Rava Cristina

    Ardelia

    Primo capitolo. Requiem

    Requiem aeternam dona eis, Domine

    Et lux perpetua luceat eis

    Io non ci sono, al mio posto c’è un dolore. Mi sento grigia e sgretolata, come quegli angeli dolenti che ornano le vecchie tombe, con le facce erose dalle intemperie. Stanno lì, a difendere nel tempo una memoria sempre più labile, ma non per loro.

    È da stamattina che piango e mi dondolo e Rashid mi ha lasciato soltanto per andare a mangiare un boccone e avvertire la mamma. Adesso è con me sul sedile di fianco, in silenzio. Ascolta questa musica che non conosce, queste parole che non comprende, questa geometria celeste che s’innalza oltre la paura e oltre il giudizio, e di tanto in tanto socchiude gli occhi. Rashid è un grande bambino.

    È da stamattina che diluvia, senza tregua, quasi come se i venti avessero spinto le nuvole per farle convergere su questa piccola, minuscola morte.

    Kyrie eleison

    Christe eleison

    Kyrie eleison

    Rashid ha suonato al mio citofono alle otto, stava andando a scuola, ma poi non c’è più andato, anche se io ho insistito, devo dire non troppo, perché mi atterriva l’idea di restare sola.

    Ti ci accompagno io, così lo prendiamo e lo portiamo a casa, ha detto.

    Ho afferrato una vecchia coperta, l’ombrello. Era da tanto che non mi dava fastidio un’aritmia che mi tiro dietro dall’infanzia, e sentivo le extrasistole sfarfallarmi sotto allo sterno, ma era l’ultimo dei miei problemi.

    Ce l’hai un ombrello per te?, gli domando.

    Sì Ardelia, ce l’ho, non preoccuparti per me: andiamo, che è sotto l’acqua e si bagna tutto.

    ...Tanto l’acqua ormai non potrà più dargli fastidio...

    Abbiamo corso tra i vicoli tenendoci per mano, senza manco aprire gli ombrelli che ci avrebbero dato soltanto fastidio, sbatacchiando qua e là contro le pareti delle case troppo vicine.

    E l’ho visto.

    Uno straccio di pelo bagnato, ho riconosciuto il mantello, anche se non gli somigliava più. Era un mucchietto di materia spenta, ceneri esauste dopo un devastante rogo interno causato dal veleno.

    Dies Irae, dies illa

    solvet saeculum in favilla,

    teste David cum Sybilla.

    Sono caduta in ginocchio, mi è uscito solo un mugolio, ho alzato gli occhi al cielo grondante e ho incrociato lo sguardo di Rashid che forse non capiva, ma meravigliosamente non giudicava. Ha aperto il suo ombrelletto verde e me lo ha messo sulla testa, perché io potessi compiere il mio lamento funebre al riparo dalla pioggia martellante.

    Ho ripetuto il suo nome, quasi l’ho gridato, dondolandomi avanti e indietro perché sempre ho dondolato nel dolore. Il bambino mi ha sfilato la copertina che tenevo arrotolata sotto all’ascella e ha coperto il piccolo corpo. Allora mi sono ripresa, sono ritornata al mondo, anche se il mondo era ridotto a un vicolo buio e lustro d’acqua, con il chiasso delle grondaie che vomitavano e singhiozzavano.

    Ho avvolto la piccola cosa, era rigida, ho sentito il freddo attraverso il pelo e la coperta. Non c’è niente di più freddo, totalmente freddo, di un corpo morto.

    Misero corteo funebre Rashid e io, lui quasi in punta di piedi per tenermi l’ombrello, non parlava: forse conosceva la mestizia di una perdita e sapeva benissimo che non c’è niente da dire. Lo zaino gli sbatacchiava sulla schiena perché camminava storto proprio per tenere alto l’ombrello, che stringeva nella mano olivastra e grassoccia e con l’altra mi dava piccoli, timidi colpetti sul braccio. Mi sono voltata verso di lui e due grosse lacrime gli colavano piano sulle guance paffute, ancora da bimbo. Altre due erano già pronte nei suoi grandi occhi color cioccolato. Lo avrei abbracciato, ma non potevo.

    Tuba mirum spargens sonum

    per sepulchra regionum,

    coget omnes ante thronum

    Siamo arrivati davanti alla porta di casa, gli ho allungato le chiavi e lui ha aperto.

    Tu adesso devi andare a scuola, sei già molto in ritardo.

    Io non ci vado!.

    Perché? Adesso devo pensarci io.

    Perché io sola non ti lascio, fino a quando lo avremo sepolto. E mi ha guardato con una determinazione che mi ha impedito di parlare. Non piangeva più, forse s’era asciugato di nascosto le lacrime, lui è un piccolo uomo e come tale doveva essermi di conforto, non poteva abbandonarsi al pianto.

    Allora se proprio non vuoi andare a scuola....

    Però glielo dici tu alla mamma che non ho potuto, vero?.

    Certo, ti giustifico io. Però tu adesso mi fai un piacere.

    Quale?.

    Vai in cucina e prepari una caffettiera. Sei già capace?.

    Sì che sono capace, anche se quella della mamma è diversa, ma l’ho già visto fare da altri. Ma tu dove vai?.

    Io starò in bagno per un po’ di tempo.

    Ma stai bene? Cioè, lo so che non stai bene, ma voglio dire, non ti senti mica male?.

    No, sto bene... Non è per me: devo preparare il mio piccolo per la sepoltura. Lo capisci?.

    Ha annuito ed è andato in cucina. Ha guardato il barattolo del caffè sul ripiano vicino al microonde e la caffettiera sullo scolapiatti. Ho ritenuto che se la sarebbe cavata.

    Sono andata in bagno, quello grande. Ho posato il mio fagotto sul fondo della vasca, sono uscita, mi sono chiusa la porta alle spalle e sono sparita in dispensa, dove conservo alcuni kit di lavoro. Sono tornata in bagno con il necessario, cellulare compreso, e ho girato la chiave. Ho foderato la vasca con un telo impermeabile e con la faccia lavata dal pianto ho cominciato il mio lavoro di sempre. L’ho aperto, ho prelevato sangue, residui dello stomaco, tessuto epatico, rene e surrene, polmone, milza e pancreas. Non potevo e forse nemmeno volevo aprirgli la zucchetta, ma sono riuscita a prelevare un campione di midollo spinale, anche se non ho potuto congelarlo, pazienza. Ho giudicato che ci fosse materiale sufficiente per stabilire che il mio amore non era morto di vecchiaia. Ogni campione nel suo apposito contenitore sterile. In fretta nella borsa frigo. All’interno della cavità toracica ho riscontrato la presenza di liquido siero-emorragico. Il cuore era aumentato di volume, con un aspetto globoso e il miocardio si presentava piuttosto flaccido. Polmoni espansi di colorito rosso cianotico, edematosi. Versamento siero-emorragico anche nella cavità addominale. Fegato congesto e aumentato di volume. Reni e surreni congesti. Una catastrofe! Ho telefonato a Ughetto, che mi ha risposto con la sua voce funeraria, quanto mai adatta.

    Ha cercato di obiettare, ma io sono andata avanti con la freddezza del vero leader che non ammette repliche. Gli ho dato quindici minuti per venire a prendere i campioni. Nel frattempo ho telefonato alla mia amica Silvana, anatomopatologa al Galliera.

    Sì lo so che quello che ti chiedo non è legale, ma se non lo fai tu, prendo la macchina, vengo lì e me lo faccio da sola!.

    Ho ricucito, ho pettinato il pelo senza vita, gli ho chiuso gli occhi per non vederli opachi come nei miei clienti abituali. Ora era pronto per la sepoltura e nel frattempo avevo messo in moto la macchina della vendetta, la quale comportava un primo passo: conoscere la causa di morte. Ho richiuso il telo e l’ho infilato in un sacchetto. Sarei passata dall’ospedale prima di tornare a casa, per buttarlo tra i rifiuti. Se c’era del veleno, non era bene che si mischiasse alla ‘rumenta comune’.

    Rex tremendae maiestatis,

    qui salvandos salvas gratis,

    salva me, fons pietatis

    Da occidente un barbaglio di rame ha tagliato il grigio, sta smettendo di piovere ma un pulviscolo scivola ancora dalle nuvole incerte. Il tramonto arriva presto, d’autunno. La valle Arroscia si snoda verso le montagne, piana alla vista fino al primo bastione, il monte Fronté: oltre sono foreste, pascoli e solitudine, un altro mondo. E da quel mondo arriva il sereno, un vento color lavanda che spinge la nuvolaglia pesante verso est.

    Ma non è un tramonto di pace; di pietà forse, ma non di pace, non per me. L’aria è troppo limpida, i contorni delle cose sono così netti che fa male guardarli, sembrano lame. L’ultimo sole è stanco, lascia strisce di sangue dove si posa. La giornata più brutta degli ultimi anni si sta spegnendo.

    Abbiamo percorso una strada sterrata a pochi chilometri dalla città. Da qui si vede tutta la pianura che circonda Albenga, oltre c’è un mare di ferro ruvido, pieno di creste. Mi fermo, spengo il motore ma non tolgo il contatto. Scendiamo, fa freddo. Non chiudo le portiere per poter sentire Mozart. Faccio il giro dell’auto, apro il cassone e prendo la pala. Rashid non ha voluto lasciare il corpicino da solo durante il viaggio e lo ha tenuto in braccio. L’ho avvolto in un lenzuolo ricamato di quand’ero bambina. Ha chiesto di scavare lui la fossa, è un lavoro da uomini. Ho annuito.

    Confutatis maledictis,

    flammis acribus addictis,

    voca me cum benedictis

    Adesso è accanto a me, ha piantato la pala quasi fino al legno nel terreno gonfio d’acqua e se ne sta lì senza sapere bene cosa fare. Non ha mai visto un funerale cristiano, e questo non lo è, però sente parole che si levano splendide e terribili in una lingua straniera, che è la lingua di un’altra religione. Il sole sta naufragando a occidente, ecco è andato e la montagna s’è coperta d’ombra. Forse sto meglio, non ne potevo più di riflessi metallici, di colate roventi sulle ultime nuvole, di cumuli e nembi e cirri altissimi straziati di rosso: almeno il buio nasconde, come la neve. Mi viene un ultimo sussulto di pianto e mi riempio di orrore pensando che a casa mi aspettano il suo cestone, i suoi giochini, sul davanzale c’è la sua erba e lui è un mucchietto di niente coperto di terra e presto corroso dalla decomposizione, composti azotati che tornano al ciclo della vita. Lui, Baciccia, non ci sarà mai più, con il suo carattere, i suoi vezzi, le sue meschinità, la sua vicinanza muta. È caduto nella trappola, la sua saggezza ingenua di animale non ha saputo prevedere, non c’era nessuno a difenderlo, ha sofferto atrocemente, s’è trascinato tra i vicoli, forse cercando di tornare a casa. Avrei dovuto capire, quando ha cominciato a piovere e non l’ho visto vicino a me, ma forse semplicemente non era in camera, magari era nella sua sabbietta, o in cucina o sul terrazzo, al riparo della tettoia a contemplare la notte. Il fatto che non fosse sul letto non significava un pericolo... Un sabato di riposo, niente sveglia alle sei e mezzo: è stato il campanello, Rashid... Mi sembrano trascorsi giorni, settimane e invece è solo questa mattina.

    Niente sarà più come prima, non c’è rimedio al vuoto. L’assenza è memoria del dolore, è rinnovamento dello strazio, una specie di rampino, di arpione piantato nella pancia che tira verso il basso, verso l’inerzia, verso l’impotenza.

    E io adesso devo tornare a casa e a casa Baciccia non c’è ad aspettarmi, perché è qui, in questo buco freddo e bagnato e a casa non comparirà mai più! Mi viene un conato di pianto così forte che mi faccio male alla gola. Allora Rashid mi sorprende. Mi viene vicino e mi parla.

    Dottoressa, vattene in macchina e chiudi gli occhi, ascolta la musica, che è così bella. Lo copro io.

    Quando arriviamo in Albenga c’è già buio.

    Di’ a tua madre che le telefono domani, questa sera non me la sento.

    Okay, le ho già spiegato un po’, non preoccuparti. Sei sicura di stare bene? Ce la fai a stare da sola? Vuoi che venga un po’ la mamma, magari dopo cena?.

    Mi sentirei deficiente, chiunque potrebbe dire: ‘T’è morto semplicemente un gatto e tu hai cinquant’anni!’. Quindi meglio evitare. Solo che le cose non stanno esattamente così: Baciccia non era solo un gatto, era il mio convivente, ipocrita, opportunista e delizioso come in genere lo sono gli uomini, e io ho sì cinquant’anni, ma davanti alla morte di una creatura amata ne abbiamo tutti pressappoco cinque. Sarebbe troppo difficile da spiegare e non so nemmeno se avrei voglia di farlo. Quindi meglio declinare l’offerta, con garbo.

    Davvero Rashid, sto bene, sono triste ma sto bene, stai tranquillo, hai già fatto tanto per me. Arriviamo davanti all’ingresso del suo carruggio, lui salta giù e sparisce in un attimo. Adesso arriva il bello. Faccio giusto quelle settemila manovre per infilare la mia auto nella rimessa, scendo, chiudo il portone sotto la pioggia sferzante e compio di corsa il breve tratto che mi separa da casa. E chi lo trova il coraggio di fare la scala, aprire la porta, accendere la luce dell’ingresso e trovarmi in un appartamento vuoto, in cui nessuno mi fa ‘miao’ che è stato per tanto tempo il miglior ‘buonasera’ del mondo?

    Oh cazzo Ardelia, cerchiamo di non sbrodolarci nel dolore, che tanto non serve a niente! C’è un’indagine da portare avanti, devo scoprire l’identità dell’avvelenatore, a cosa farne di lui ci penserò dopo. Di sicuro non chiederò aiuto al buon Bartolo, come lo chiamo ogni tanto, che è a Roma a fare un corso di aggiornamento, una roba per diventare superpoliziotto come quelli americani. E non lo farò nemmeno al suo ritorno, perché i miei progetti nei confronti della persona che mi ha ammazzato Baciccia son tutto fuorché legali!

    In effetti entrare in casa è una mazzata: non soltanto nessuno mi viene incontro, ma gli occhi mi cascano subito sul suo topo di pezza e poi su una matassa informe di elastici per capelli, aggrovigliati con uno spago, che fa capolino da sotto una sedia della cucina; per ultime noto le ciotole lucenti. Mi metto una mano sulla bocca, come se stessi per vomitare e volessi trattenermi fino al gabinetto, ma è solo un latrato soffocato quello che mi passa tra le dita. Non posso piangere come se fossi nel deserto, urlando al vento la mia disperazione, perché ai signori La Grotteria del piano di sotto verrebbe un accidente. Meno attiro l’attenzione, meglio è; non saprei come spiegare il mio comportamento, consapevole del fatto che alla maggior parte delle persone apparirebbe insensato. Quindi cerco di piangere in silenzio e stranamente ci riesco. Lacrime e lacrime e ancora lacrime si rinnovano sulla mia faccia, un rigenerarsi d’acqua marina che mi lava le guance, il collo, mi entra in bocca, mi riempie il naso che devo soffiarmi in continuazione. Spero solo che il commissario non prenda la bella iniziativa di chiamarmi in questo momento, a conclusione del corso quotidiano, per fare due chiacchiere rilassanti. Anzi mi auguro proprio che a nessuno venga l’idea di telefonarmi... Mah, pensandoci bene è sabato sera, la gente ha prenotato il ristorante, poi sceglie il cinema, oppure cura gli ultimi dettagli per rendere perfetta la tavola, aspettando gli amici per cena. Solo io sono sola, soltanto di me nessuno si ricorda, tutti hanno qualcosa di meglio da fare, Baciccia era l’unica autentica consolazione nella mia vita e adesso Baciccia è morto, anzi, no, me lo hanno ammazzato! E riparto con un nuovo diluvio. Mi lascio cadere sul divano del salotto, in penombra, perché l’unica luce accesa è quella dell’ingresso. E non so per quanto tempo continuo a piangere, i minuti trascorrono ma non me ne accorgo e forse perdo anche la nozione di me stessa. Piango, piango e basta: io non sono più Ardelia Spinola, una donna con un lavoro, un posto nel mondo, una capacità di relazione, un’identità insomma: no, io sono un ingorgo di pianto, un contenitore vuoto, due braccia che si chiudono su un’assenza. E giù lacrime.

    A un certo punto mi viene da guardare l’orologio al polso: le otto e mezza. Era l’ora del penultimo spuntino, una manciata di crocchette giusto prima del telegiornale, allo scopo di mangiare in pace, senza Baciccia seduto sulla seggiola di fianco alla mia che aspirava tutti gli odori che arrivavano dal tavolo. Già solo parlare all’imperfetto mi fa stare male. Mi viene su un sospirone di quelli che facevo da piccola, dopo aver pianto inascoltata per tre ore, quando subentrava la consapevole rassegnazione che nessuno sarebbe venuto a controllare nella mia cameretta in fondo al corridoio se fossi ancora viva. Sospiro di nuovo e trovo la forza per tirarmi su dal divano. Vado in bagno, faccio pipì, ma è poca perché le riserve idriche se ne sono andate per un’altra strada, mi metto le pantofole ed entro in cucina. Anche lì, mazzata, c’è il suo castello, una costruzione di corda e peluche per gatti viziati, dalla quale pende un topino finto legato a un elastico che non dondolerà mai più. Apro il frigo, ma ovviamente non ho fame. Con tenerezza noto che Rashid non soltanto ha fatto il caffè, ma ha messo quello avanzato nel bricco smaltato e ha lavato la caffettiera.

    Mi accorgo di avere sete, ma non di acqua naturalmente: io non ho mai sete di acqua, ne bevo un buon litro e mezzo perché bisogna, ma senza trarne godimento, e in questa congiuntura sciagurata un bicchiere d’acqua non mi sarebbe di nessuna consolazione.

    Vado in dispensa. Casa mia è molto antica e i muri trasudano un gelo secolare; la dispensa, dove ristagna il freddo anche ad agosto, svolge benissimo la funzione di piccola cantina, luogo di transito tra la cantina vera e propria e la tavola. Però non posso proprio bere senza toccare cibo, perché altrimenti mi rovescio lo stomaco. Prendo una baguette, la riscaldo un po’ nel microonde e tiro fuori dal frigo un salame di Varzi appena cominciato. Eccezionalmente ne avevo regalato una fettina anche a lui. Questo sarà il banchetto funebre: pane, salame e dolcetto! Lo verso in un pallone e lo riempio fino alla metà, poi lentamente mi accendo una sigaretta, la prima della giornata, sono le nove, non si può dire che sia una fumatrice accanita. Con queste ultime piogge la casa si è raffreddata parecchio, ma il vino mi conforta, sento il suo calore che scende e che apre le strettoie dell’anima.

    Dopo il primo bicchiere e una mezza dozzina di fette di pane e salame, mi sembra di tollerare meglio il dolore. L’atto di deglutire mi ricorda che Baciccia è morto avvelenato e questo pensiero per un attimo mi strizza lo stomaco; bevo un sorso e passa. Non accendo la televisione, non metto musica, i telefoni tacciono, strano che Bartolomeo non chiami. Magari è con qualche bella poliziotta... Ma chi se ne frega, che vada a fanculo lui e la poliziotta! Io ho altro a cui pensare, ben più grave della sua instabilità affettiva. Non lo avrà fatto apposta, ma certo che il suo è davvero un istinto raro: sembra quasi che scelga con attenzione i momenti migliori per non esserci!

    Sono le dieci e sento che ci risiamo, come una bordata di nausea incontenibile arriva un altro attacco di pianto, preceduto da qualcosa di molto simile al panico: non vorrei stare così male, vorrei poter scappare, ma non ci sono possibilità di fuga e non ho nessuna alternativa al dolore. Lo so perché mi è successo: con la coda dell’occhio ho visto nell’angolo tra il frigo e la finestra il suo minibisonte dell’Ikea, tutto strappato, del quale da tempo s’era stufato, senza però averlo abbandonato del tutto. Più di una volta era tornato utile, soprattutto durante interminabili giorni di pioggia: allora lo afferrava con le zampe davanti, lo teneva fermo come una preda e lo mitragliava di colpi con le zampe posteriori unite, allo scopo di sventrarlo, come fanno i leoni e le tigri. Dopo innumerevoli trattamenti di questo tipo il minibisonte era stremato, praticamente sgonfio, ma quando mi ripromettevo di buttarlo Baciccia che capiva tutto, ricominciava a giocarci e io rimandavo. Riprendo a piangere e devo di nuovo mettermi una mano sulla bocca per non prorompere in alti gemiti.

    A questo punto suona il telefono. Penso a Bartolomeo e mi irrito subito: non poteva chiamarmi mezz’ora fa, porca paletta, che stavo un po’ meglio e non sarei esplosa in un lamento incomprensibile, come invece rischio di fare adesso?

    Mia piccola Ardelia? Tutto bene?. Non è il commissario, è il mio quasi zio ebreo, lo psichiatra misterioso che ha schivato la galera soltanto per raggiunti limiti di età.

    Oh Gabriel, Gabriel..., e giù a ragliare, senza riuscire ad articolare una parola. Mi rendo subito conto che in questo modo rischio di far venire un infarto al mio povero vecchietto e così cerco di rimediare.

    Scusa, scusa Gabriel, scusami se piango come una scema, ma è che, è che... e non riesco a dire cos’è ‘che’, in modo da tranquillizzarlo.

    È che cosa, bambina mia? È successa una disgrazia? Ma tu stai bene? Ti prego, dimmi cosa c’è che non va! Hai scoperto di avere una malattia? Perché sei così disperata?, e sento nella sua voce l’angoscia che cresce. Devo calmarlo al più presto, non è mica un ragazzino, alla sua età con la pressione non si scherza! Devo anche trovare un modo garbato per dargli quella che è comunque una brutta notizia.

    Mi hanno ammazzato Bacicciaaaa!, e concludo con un lamento da prefica. Ecco, gliel’ho detto davvero con molto tatto.

    Dall’altra parte del telefono, una persona normale avrebbe espresso parole di cordoglio, di affettuosa solidarietà, avrebbe tentato in qualche modo di consolare, si sarebbe rivolto al cuore affranto e non alla mente, di certo un po’ intorpidita dal dispiacere. Ma il dottor Steiner non è una persona normale. Quando si spegne la lunga ‘...aaaa!’ finale di Baciccia, lui tace. Poi comincia con le domande.

    Sei sicura che non si sia trattato di una morte accidentale?.

    Ho fatto i prelievi necessari, ci vorrà un po’ per avere le risposte, comunque sono sicura: non è mai una morte accidentale quando un gatto mangia un’esca avvelenata, perché vuol dire che qualcuno l’ha messa apposta. Soffiata di naso. Avresti dovuto vedere le condizioni degli organi interni! È solo questione di aspettare i referti del laboratorio: so di non sbagliarmi!.

    Laboratorio veterinario?.

    No, il mio, ma quello di Genova, a cui mi rivolgo per i casi complicati. Ecco, è accaduto il miracolo! Domande pratiche, risposte pratiche, atteggiamento reattivo, da medico legale e non da vecchietta gattara.

    Avvelenamento..., dice quasi tra sé.

    Ne sono sicura. Bisogna sapere prima di tutto la categoria di tossico, poi da lì arrivi a conoscere il principio attivo. Nella nostra zona non è difficile ottenere veleni micidiali in qualunque rivendita di prodotti per l’agricoltura, basta avere un patentino che quasi tutti i contadini posseggono.

    Questo ti orienta verso un contadino?.

    Potrebbe esserlo come no, magari si tratta di un parente, di un amico che ha facile accesso al magazzino.

    E potrebbe abitare nel centro storico?.

    Non lo possiamo escludere.

    Io credevo che i contadini abitassero tutti presso i loro terreni; la piana di Albenga è disseminata di case vecchie e nuove, circondate da serre e coltivazioni.

    Questo è vero nella maggior parte dei casi, ma non è una regola rigida, ci sono eccezioni.

    Bene, è un argomento molto ampio, e complesso. Sarà opportuno parlarne di persona.

    Ma io non me la sento adesso di venire da te!.

    Infatti, non te lo avrei chiesto.

    E tu non devi venire da me, lo sai benissimo, non a quest’ora!.

    Certo cara, stai tranquilla: ‘sarà opportuno’ non voleva dire adesso. Andrà benissimo domani, che è domenica.

    Mmmm, strano questo eccesso di buon senso, questa chiusura rapida di un discorso che sembrava dovesse andare avanti ancora... Mi resta il sospetto che possa piombarmi in casa adesso. Naa, non è mica matto! Per quanto siano scarse le possibilità che gli sbirri si presentino a casa sua a mezzanotte per verificare il rispetto degli arresti domiciliari, lui comunque non può avere la certezza che non succeda!

    Buonanotte piccola mia.

    Buonanotte, rispondo a un telefono ormai muto.

    Strambo personaggio. Quanto può impiegarci ad arrivare qui? Dieci minuti, ma pensando in grande. Cosa faccio, gli vado incontro? Che poi magari è un’idea mia, magari vuole davvero parlarne domani, con calma e certamente non per telefono. Sono indecisa sul da farsi. Entro in cucina e metto sul fuoco il pentolino della tisana. Io non è che ci muoia dietro alle tisane, nemmeno quelle con nomi suggestivi, tipo: vaniglia e lampone, frutti di bosco e ginseng, rosa canina e violetta; è solo che il beverone serale va a colmare ciò che manca al litro e mezzo di acqua quotidiana, il ‘lavaggio dei tubi’, come lo chiamo io.

    Il dottor Gabriel Steiner con le sue domande spoglie di qualsiasi emotività è come se avesse chiuso un rubinetto. Non mi viene più da piangere. Questo non significa che stia meno male, sto esattamente come prima, solo che ora penso in modo organizzato. Credo che ricorrerò nuovamente a Pasqualino, il mio agente nei carruggi. Solo lui, attraverso le sue fonti che si chiamano: zia Ninì, il cugino Beppe, la cognata di sua cugina Nunzia, la sorella di Ciccillo, può fornirmi una specie di mappa dettagliata di Albenga vecchia, perché sento che è da qui che devo partire.

    Il mio obbiettivo appartiene a una categoria precisa d’individui: i sadici. Questi soggetti ignorano le leggi o fingono d’ignorarle, e si sentono in diritto di eliminare piccoli animali fingendo di agire in nome di qualche fasullo criterio sanitario o economico, valido solo nella loro fantasia. Una specie di motivazione di superficie li spinge a ‘disinfestare’ soprattutto le aree che circondano la loro casa o più ampiamente il loro territorio, perché se lo facessero altrove non otterrebbero alcun vantaggio dalla bonifica. La verità più profonda è che si tratta di individui disturbati che traggono piacere dall’infliggere sofferenza; per alcuni gli animali rappresentano soltanto l’inizio di una ‘carriera’ e quasi per tutti è gratificante verificare l’esito delle loro azioni. Quindi meglio agire in prossimità dei percorsi abituali perché il raggiungimento del piacere è più agevole. Certo esistono sadici che non assistono, che godono comunque immaginando da distante il dolore inferto alle vittime, ma sono rari; la maggior parte di loro non resiste al piacere della verifica. Per questi motivi ‘sento’ che il responsabile abita o frequenta assiduamente il centro storico e che l’aiuto di Pasqualino è ideale. Naturalmente non devo considerare soltanto gli abitanti delle vie limitrofe a casa mia, perché non conosco ancora il tipo di veleno usato e nemmeno la quantità, pertanto ignoro l’autonomia di movimento che ha avuto Baciccia dal momento dell’ingestione a quello del decesso. Solo quando saprò il nome del prodotto e la sua letal dose, potrò stabilire con discreta approssimazione questo intervallo di tempo: con la punta di un compasso sul luogo del rinvenimento della salma, disegnerò un cerchio che avrà per raggio la lunghezza presunta del percorso compiuto dopo il pasto incriminato e prima di cadere definitivamente. L’eventualità di uno spostamento per mano umana e la considerazione che di certo, anche sulle sue zampe, il micio non ha proceduto in modo rettilineo, sono variabili che complicano parecchio il quadro. È comunque l’unico modo per ottenere un approssimativo ‘dove’, il quale non risponde alla domanda ‘chi?’, perché non è detto che l’assassino abiti nel punto in cui ha posto l’esca, però può avere comunque un valore indicativo, anche perché il centro storico è relativamente piccolo. Non vanno trascurate altre informazioni, relative agli abitanti della zona e alle loro attività e abitudini.

    Questo genere di divertimento non viene considerato un reato grave da chi lo pratica, che in genere non usa particolari precauzioni per nasconderlo. Se si è fortunati capita d’incontrare qualcuno che è al corrente del vizio, magari per ammissione del colpevole stesso: in ambiente rurale, uccidere gli animali domestici è considerato niente di più che una cattiva abitudine e talvolta perfino una necessità, senza far tanta differenza tra il topo e il gatto, o il cane del vicino, colpevole di qualche sgarbo. Per fortuna sono sempre più numerose le persone che disapprovano questo comportamento: bisogna individuarne almeno una e indurla a raccontare qualcosa, anche episodi non recenti.

    Spengo la fiamma, caccio la bustina nel pentolino e guardo l’ora. Non riesco a togliermi dalla testa che Gabriel abbia deciso di raggiungermi, anche se a questo punto dovrebbe essere già qui. Quasi quasi gli telefono; spero di fermarlo, anche perché una passeggiata notturna al di fuori dell’orario consentito dal giudice equivale a un’evasione vera e propria. Suona, suona e non risponde nessuno. Provo sul cellulare ed è spento. Non mi piace. Evidentemente è uscito e non va bene, ma allora perché non è ancora qui? Vado un attimo a far pipì, mi do una lavata alla faccia che sembra un caco maturo, ma non è che dopo sia tanto meglio, mi caccio sulle spalle un cardigan che avevo comprato nelle Shetland, la cosa più rigida e pungente che si possa indossare, afferro il cellulare ed esco.

    Non piove ma fa decisamente freschetto. D’istinto mi viene da guardare negli angoli bui, all’ombra dei rari terrazzini, nei minuscoli cortili dove la luce dei lampioni arriva poco o niente, per vedere se distinguo la piccola sagoma di un gatto raccolto a mangiare qualcosa per terra. Dovessi imbattermi in questa situazione, gli porterei via il suo misero pasto per poterlo analizzare con calma. Ma non vedo niente di simile e mi dirigo verso piazza San Michele. D’autunno e ancor più d’inverno il centro storico è deserto, sembra che non ci abiti nessuno, oppure che sia abitato da fantasmi. Io sono uno dei fantasmi e devo dire che qualche volta sentire l’eco dei miei passi sul pavé, come adesso, un po’ d’ansia me la mette. Oltrepasso la cattedrale e il monumento ai caduti e quando arrivo in piazza San

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