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Cappon Magro per il Commissario: Rebaudengo indaga nei carruggi di Albenga
Cappon Magro per il Commissario: Rebaudengo indaga nei carruggi di Albenga
Cappon Magro per il Commissario: Rebaudengo indaga nei carruggi di Albenga
E-book313 pagine

Cappon Magro per il Commissario: Rebaudengo indaga nei carruggi di Albenga

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Info su questo ebook

Albenga ha un cuore misterioso, nascosto nei suoi carruggi pieni d’ombre, dove i panni stesi asciugano più per il vento che per il sole. Accanto a povere case e minuscoli cortili, sorgono i palazzi delle famiglie nobili del tempo andato. E proprio in una di queste dimore viveva un’anziana zitella, intelligente e stravagante… Viveva, perché la sua morte viene denunciata dalla badante in una fredda mattina di febbraio.
Per Bartolomeo è l’inizio di un nuovo caso che sembra di facile soluzione; la rosa dei sospetti ha pochi petali. Ma le cose s’ingarbugliano, e non soltanto nell’indagine: anche nel suo cuore. Di chi è la colpa? Dei fantastici occhi da circassa della donna venuta dall’est, da un mondo che crediamo di conoscere e di cui non sappiamo quasi niente. La soluzione arriverà, ma nessuno ne uscirà illeso, nemmeno il commissario Rebaudengo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ago 2012
ISBN9788875637576
Cappon Magro per il Commissario: Rebaudengo indaga nei carruggi di Albenga

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    Anteprima del libro

    Cappon Magro per il Commissario - Rava Cristina

    Capitolo uno: nel quale si scopre che in una casa ligure vivono non una Svetlana, bensì due

    Negli appartamenti del centro storico di Albenga c’è silenzio, perché le pareti sono di pietra spessa ed il traffico corre fuori le mura. Non si sentono le conversazioni dei vicini, suoni di radio e televisori altrui, come nei condomini moderni.

    In quella cucina, per esempio, c’era una gran quiete, la quale però non inclinava a sentimenti sereni e pacifici, inquietava piuttosto, proprio perché non si sentiva un suono, non si avvertiva un movimento. Il sole non era ancora sorto, d’inverno fa fatica ad emergere dal mare freddo, e senza la lampadina appesa al soffitto a volta, ci sarebbe stato ancora buio. Due creature stavano in quella cucina, una donna e una gatta, la prima seduta su una seggiola impagliata, la seconda accoccolata accanto alla stufa a legna che si stava riscaldando lentamente. Per uno strano caso del destino esse si chiamavano tutte e due Svetlana, evento banale nel grande impero di Russia, straordinario ad Albenga. La donna, di tanto in tanto, tentava di precisare che il suo nome era Svitlana, con la i al posto della e, all’uso ucraino, ma se ne dimenticavano sempre tutti. La signora arrivava dall’Ucraina, appunto, e la gatta dalla Siberia, che è territorio russo, ma non avevano compiuto insieme il viaggio dall’oriente algido fino al mar ligure, diciamo che erano arrivate ognuna per conto proprio, attraverso tortuosi itinerari, e lì s’erano incontrate e amate. Svitlana chiacchierava con Svetlana un po’ in ucraino e un po’ in russo e la micia, dolcissima e aristocratica, non si perdeva una parola. Svitlana sapeva benissimo che l’animale non capiva un accidente di quello che lei diceva, d’altronde non avrebbe capito nemmeno se lei le avesse parlato in dialetto ligure o in portoghese, che è quasi la stessa cosa. La gatta però sapeva interpretare il tono della voce, la lentezza, le note morbide e quelle severe, bassi e acuti, e su quelli regolava la sua attenzione verso la signora, quando e se ne aveva voglia. Svitlana non era la padrona della gatta, l’aveva già trovata nella casa ed era stato amore a prima vista, ancora prima di sapere che l’animale vantava origini non tanto diverse dalle sue.

    Una capricciosa signora torinese l’aveva fatta arrivare da quelle foreste remote con l’aeroplano, l’aveva chiamata Svetlana perché faceva tanto ‘Russia’, e l’aveva regalata nella condizione di batuffolo indifeso alla sua ancor più capricciosa figliola. Costei, dopo un iniziale idillio, probabilmente non condiviso dalla creatura boreale, orgogliosa e schiva, s’era presto stufata, specialmente dopo che l’animale, in seguito ad una dieta errata, aveva rischiato di tirare le cuoia. Una volta rimessosi dalla malattia, il giocattolo aveva dimostrato di non essere duttile a tutti i ghiribizzi della bambina ed in più d’una occasione le aveva affettato le rapaci manine. Insomma, una vera e propria bestiaccia, anche se era costata una fortuna. Così, durante le vacanze estive che i signori torinesi trascorrevano, come molti loro concittadini, ad Albenga, l’esotico felino aveva cambiato proprietaria: era stata rifilato all’anziana signora che affittava loro l’appartamento. La vita della micia era migliorata considerevolmente non soltanto per il vitto, ma soprattutto per la gestione del riposo e del tempo libero, che sono due importantissime occupazioni del vero gatto, oltre alla caccia che, si sa, in un appartamento è difficile da praticare, bisogna sapersi accontentare di ragni e prede immaginarie. Svetlana era ornata di pelliccia da lince, proprio come la sua parente più grande aveva graziosi ciuffi dorati sulle orecchie, vibrisse lunghe e mobilissime, un manto che l’avrebbe resa invisibile nella taiga, zampotte e ventre candidi. Gli occhi erano obliqui, d’un verde venato di grigio, e sembravano guardare sempre qualcosa d’irraggiungibile, qualcosa d’invisibile agli umani.

    L’anziana padrona di casa e la gatta s’ignoravano con molta signorilità, dedicandosi a vicenda pochi momenti, mai troppo intimi, talvolta alla sera davanti alla tv, soprattutto se c’erano documentari sugli animali, specie volatili, verso i quali la piccola felina dimostrava vivo interesse.

    Poi era arrivata Svitlana Myhailivna Lysenko, e la vecchia signora che non conosceva confini e tradizioni delle lingue slave, dal principio l’aveva chiamata Svetlana, alla russa, senza farsi tanti problemi e così le cose erano rimaste. Quando l’aveva assunta, nel sentire quel nome, le era scappato un sorriso quasi riso.

    Non è la prima Svetlana che entra in questa casa, sa mia cara?.

    Lei già avuto compagnia di persona che si chiama come me?, chiese con il suo accento dolcissimo la neo assunta, abituata alla storpiatura del suo nome.

    No, è la prima volta che mi ritrovo in questa necessità…, sospirò l’anziana che rispondeva al nome altisonante di Ildebranda Matilde Peluffo, d’antico e nobile lignaggio ingauno. D’altronde venendo vecchi, qualche acciacco arriva… Se si muore giovani non succede, quindi meglio non lamentarsi… E con la mia schiena da sola non ce la faccio più.

    Svitlana aspettava ancora la spiegazione di quella risata al principio del loro incontro, le mani intrecciate sul manico della borsetta consunta. Ildebranda ricordò all’improvviso e riprese:

    Ah sì, il mio riso di prima, la prego di non offendersi, non volevo essere oltraggiosa. Aspetti che le chiamo la sua omonima, sì, insomma, quella che si chiama come lei, e voltandosi verso il lungo corridoio tenebroso cominciò a far pss pss e versi di baci con la bocca. Lei arrivò, dimenando la coda piumosa e socchiudendo gli occhi. Si sedette, appoggiò la coda sulle zampe anteriori, che sembravano due pon pon bianchi, e rimase in attesa.

    Lei si chiama Svetlana?, domandò Svitlana con un tono stupito.

    Sì, me l’hanno affidata che già si chiamava così. Padroni cattivi che non la volevano più. E io l’ho accolta volentieri. Non ti accorgi nemmeno della sua presenza. Viene dalla Siberia.

    Questa volta gli occhi di Svitlana si fecero grandi come due pozze blu.

    Siberia?.

    Già mia cara, Siberia!.

    E non c’erano gatti più vicini?.

    Oh per quello ce ne saranno anche stati, ma questa è speciale, non fa starnutire e la sua padroncina di prima era allergica ai gatti.

    E perché l’ha data a lei?.

    Semplice, s’era stufata.

    Ah.

    Eh sì: ah! Così è quasi un anno che viviamo insieme. A lei piacciono i gatti?.

    Oh davvero tanto, soprattutto quelli che vengono di Siberia, così mi sento ancora un po’ a casa!. risero insieme, il loro primo riso, di tanti che sarebbero seguiti, perché il rapporto di lavoro tra Svitlana e Ildebranda, che durò tre anni, si trasformò presto in una garbata amicizia, fondata sul rispetto e la stima. L’anziana signora non fu mai gelosa del fatto che Svetlana gatta avesse scelto la sua badante come centro di gravità universale e la seguisse come un’ombra, ‘si vede che tra loro si capiscono meglio’, aveva concluso.

    In principio non fu facile, in genere niente all’inizio risulta facile, anzi, è saggio diffidare di quelle situazioni che si rivelano subito piane e lisce, in genere i guai arrivano dopo.

    Il primo periodo di convivenza tra le tre signore, le due Svetlane e Ildebranda potremmo definirlo un raffinato lavoro d’intelligence: tutti, o meglio tutte spiavano tutte. Svitlana Myhailivna studiava la sua datrice di lavoro per decifrarne il carattere e gli umori, i bisogni ed i capricci, le sue solitudini di vecchia, le sue paure, in modo di farla contenta e tenersi caro il lavoro. Ildebranda Peluffo studiava la nuova venuta con mutevoli stati d’animo. C’era un po’ di diffidenza verso la dipendente, dovuta alla sua condizione di straniera e a tutto quello che sentiva dire ai telegiornali sulla gente che arrivava dall’est, ma anche molta curiosità, perché la badante si dimostrava solerte e gentile, ma molto schiva, quasi sfuggente. C’era anche una gran voglia di fare amicizia, d’imparare cose nuove, di raccontare e di ascoltare. Ildebranda, solitaria rampolla nubile di una famiglia di possidenti albenganesi semi-nobili, era stata una pessima signorina aristocratica e, malgrado i severi insegnamenti ricevuti nei collegi, non aveva mai saputo mantenere le distanze con la servitù, nemmeno quando, nel grande palazzo signorile, di domestici ne giravano parecchi. Scherzava con le serve come se fossero state compagne di giochi e quelle se ne approfittavano subito, lavorando di meno, diceva sua madre, donna Armanda dal baffo vigoroso. Anche adesso, che aveva quasi ottantadue anni, non aveva voglia di fare la vecchia madama che comanda a bacchetta, e guarda sfaccendata qualcuno che ubbidisce senza fiatare, non ci riusciva proprio. Condiva i suoi ordini con una sfilza di ‘se non disturbo’, oppure ‘quando le è possibile’, o ‘sarebbe così gentile da…’, che Svitlana non capiva, ma non commentava nemmeno tra sé, avendo imparato da molto tempo a non stupirsi di nulla. Quanto a studiarla però, Ildebranda dietro la sua cortesia un po’ impacciata, la studiava eccome, più con la curiosità dei poeti che non con l’occhio mercantile del vero ligure.

    Infine Svetlana la gatta studiava tutte e due. Sebbene la figura della vecchia le fosse familiare, non l’aveva mai vista compiere strani gesti, tipo percorrere il corridoio con passo felpato per spiare la nuova venuta in cucina, oppure far finta di essersi appisolata davanti alla televisione ed intanto seguirne ogni gesto, attraverso la fessura invisibile di un solo occhio socchiuso. La giovane spiava l’anziana con la delicatezza di chi ha sulle spalle una lunga esperienza, un’arte da poliziotto vecchio stampo, e la vecchia, convinta di essere l’unica a cimentarsi in attività spionistiche, non se ne accorgeva, ma la gatta naturalmente sì, perché i gatti sanno le cose. A Svetlana pelosa piacevano quelle novità, c’era più vita nello sconfinato appartamento dai soffitti a vela troppo alti, affrescati da qualche rustico pittore del seicento che aveva cercato, a modo suo, d’imitare Caravaggio. Con la vecchia avevano convissuto per un anno trattandosi da compassate signore, Ildebranda di tanto in tanto le faceva una carezza e lei la ricambiava con un grazioso prrrruit, soprattutto quando c’erano le scatolette con i bocconcini di granchio, ma non avevano mai avuto veri e propri slanci amorosi. Certo, le era grata di averla sottratta a quella piccola cannibale oligofrenica con la quale la vita stava diventando impossibile, ma a parte la gratitudine, loro due non eran femmine da grandi smancerie. Con quella nuova invece era diverso, sentiva una specie di corrente elettrica che le passava dai baffi e le arrivava in fondo alla coda piumosa, una strana sensazione. Quindi era prudente continuare l’attività spionistica per comprendere meglio.

    E per un bel pezzo andarono avanti così. Le cose non cambiarono di colpo, semmai si trasformarono pian piano in qualcos’altro, senza mutamenti avvertibili. Ildebranda cominciò a pensare che la straniera non le avrebbe tagliato la gola per portarle via i gioielli e poi, anche se fosse successo, di qualcosa bisogna pur morire e lei aveva già ottantadue anni e le era sempre piaciuto vivere pericolosamente. Svitlana poteva dire di conoscere la vecchia molto meglio di quanto la vecchia non sarebbe stata disposta ad ammettere e non aveva ottenuto questo risultato per biechi fini, ma semplicemente allo scopo di far bene il suo lavoro e di non essere cacciata. Il suo punto debole era la cucina, ma sembrava che la vecchia deglutisse qualsiasi cosa appena commestibile senza lamentele. Infine anche Svetlana pelosa si accorse che il famoso brivido, il tremore elettrico che dai baffi arrivava alla coda percorrendo tutte le sue piccole candide vertebre, si stava trasformando in una sensazione confortevole, per quanto inedita: si può essere amici di un essere umano, anzi, possono esistere esseri umani assolutamente straordinari che capiscono i gatti. Le cose si stavano mettendo bene e andarono bene per tre anni.

    Dopo questo tornare con la memoria ai tre anni appena trascorsi, Svitlana si alzò dalla sua seggiola, s’inginocchiò davanti alla stufa, aprì lo sportello e mise un pezzo di legna più grosso. La micia sbadigliò, si inarcò con grande voluttà e la fissò con i suoi occhi color delle selve. Fece un miao muto che, però, bastò alla donna per ricordare che non le aveva ancora dato colazione. Andò in dispensa, aprì una bustina di ‘succulenti bocconcini di anatra, riso e carote’, ne rovesciò metà nella ciotola e ripose l’avanzo in frigo. Il suono delle fusa sembrava prodotto da un motorino nascosto nell’animale ed il corpo amplificava il rumore della sua felicità. Doveva aver avuto proprio tanta fame, perché in un attimo s’era spazzolata tutto ed ora si leccava baffi e zampe con grande soddisfazione. Con un balzo silenzioso volò sul davanzale, s’insinuò tra tenda e vetro e si mise a sbirciare i voli degli uccelli sopra i tetti antichi e le torri comunali.

    Svitlana Myhailivna si sedette al tavolo, non aveva voglia di fare colazione. Appoggiò i pugni sovrapposti, ci mise sopra la fronte e stette così, per una parentesi senza tempo. Era la cosa più simile al pianto che le riuscisse di fare. Da tanti anni aveva disimparato il sapore delle lacrime. Da tanti anni non ricordava che singhiozzare allevia il peso del dolore, non risolve, ma un poco scioglie, e dopo sembra di avere un po’ più di coraggio. Stava lì, con la testa appoggiata sui pugni, uno sull’altro, sul ripiano del tavolo, senza sentire il freddo del marmo, conscia che quel momento si sarebbe chiuso per sempre, che fuori dalla porta si sarebbero sentiti dei passi, sarebbe suonato il campanello, tutto sarebbe finito e tutto sarebbe cominciato.

    Oltre il lungo corridoio scuro, tra arazzi e drappeggi, tra mensole e specchiere, il silenzio. In fondo c’era una porta aperta, era da lì che usciva il silenzio, un silenzio denso e freddo come certe matasse di nebbia che rotolano nell’alba. Oltre c’era una stanza e nella stanza un letto ed in quel letto giaceva composta Ildebranda Peluffo, con le mani di vecchia ornate dai pizzetti della camicia da notte, posate sul risvolto del lenzuolo, aveva gli occhi aperti ed era morta.

    Chissà perché a Svitlana Myhailivna vennero in mente le tante volte che erano andate in piazza delle Erbe a comprare le verdure e tra un banchetto e l’altro la vecchia raccontava. Che arte aveva! Eran soprattutto ricordi di un’Albenga che non esiste più o, forse, esiste ancora ma non si vede più, erano storie di contadini, di rivalità e miserie, di vendette o di successi, in cui Ildebranda mesceva comicità e tragedia con una ricetta così fina da farle sembrare pagine di un grande scrittore. Aveva un forte accento ligure ed intercalava spesso il dialetto di Albenga, poi quando si accorgeva che gli occhi della sua accompagnatrice diventavano sempre più smarriti, rispiegava tutto in perfetto italiano. Le parlava della sua città di un tempo, e cosa c’era qui e cosa c’era là, e qui è tutto cambiato, ma forse è meglio adesso, qui invece no, qui era molto meglio una volta, e le raccontava saghe famigliari legate a palazzi e carruggi e ascoltandola sembrava che il tempo si fosse fermato. Facevano passeggiate, fino al mare, pian pianino, fermandosi di tanto in tanto a guardare una vetrina o uno scorcio di giardino in viale Martiri, ‘viale del Re si chiamava quand’ero giovane e adesso belle ville non ce n’è quasi più, son tutti palazzi’, diceva la vecchia, ma senza grandi malinconie. Un pomeriggio, mentre guardavano la mareggiata dal Caffé Noir, bevendo un tè, Ildebranda aveva voluto sapere se il Mar Nero si chiamava così perché era davvero nero. Dopo quella volta aveva cominciato a far domande, dimostrando di non essere soltanto una buona narratrice, ma anche un’ottima ascoltatrice. A quel tempo si poteva già dire che la loro fosse un’amicizia, il rapporto di lavoro era importante, ma lo era anche l’amicizia.

    Svitlana faceva proprio tanta fatica a rispondere, non per mancanza di fiducia verso la signora, ma per un’eredità di ricordi che non si sarebbero mai estinti. Un po’ era il suo carattere, lei non aveva mai amato confidarsi, e un po’ era un timore indistinto, atavico, come se avesse potuto ascoltarla, per caso, la persona sbagliata, qualcuno che in qualche modo non avrebbe capito, e che forse, chissà, avrebbe potuto farle del male, magari in seguito, usando i suoi stessi ricordi, i suoi stessi racconti. E non le bastava guardarsi intorno e parlare sottovoce, cosa peraltro impossibile perché Ildebranda era sorda e quindi pretendeva un bel tono di voce chiaro e forte, perché comunque, anche se fosse riuscita ad esprimersi attraverso bisbigli e sussurri, quella ‘persona sbagliata’ che passava per caso, avrebbe sentito lo stesso.

    Le capitava di sospettare di essere matta con questa fissazione che qualcuno potesse o volesse farle del male, ed in quei momenti il pessimismo impregnava le sue giornate e si sentiva triste. Poi, per lunghi periodi il senso di allarme così com’era arrivato se ne andava, e lei si dimenticava di aver pensato di essere matta, però parlare di sé continuava a costarle fatica. Restava comunque impossibile dissuadere Ildebranda dal fermo proposito di conoscere la vita della straniera. Così aveva fatto una cernita delle cose che poteva o voleva raccontare e quelle che preferiva tacere: silenzio sul ricordo doloroso di suo padre, quello ancora più cupo di Dido, nonno Konstantin, niente della storia di Andrej, troppo male. Venivano meglio le cose belle, come il suo grande amore per Evgenij e per Irina, la sua ‘bambina’, lei la chiamava ancora così, anche se aveva vent’anni e studiava economia a Kiev. Ormai si poteva dire che con suo marito Evgenij fossero semplicemente due amici, o forse sarebbe stato più corretto definirli due compagni di navigazione: insieme, anche se lontani, avevano remato e faticato per tenere a galla la barchetta che portava il carico delle loro esistenze. Ci erano riusciti? In un momento come quello era davvero difficile affermarlo.

    Un pregio della vecchia Ildebranda era che, anche quando poneva delle domande, riusciva a farlo con il tocco indolore di uno psicoterapeuta, sempre con un sorriso senza giudizi, quasi come a dire: ‘Figliola, non è la curiosità che mi spinge, alla fin fine i tuoi segreti non saranno poi tanto diversi dai miei o da quelli di mille altre donne a questo mondo: è solo il mio bisogno di sentirti un po’ più vicina, anche se io sono vecchia e tu giovane, e magari, almeno tra noi un po’ meno straniere’. Non lo aveva mai detto in modo diretto, però lo si capiva e così Svieta aveva cominciato a raccontare, sempre con la sua naturale timidezza, ma fidandosi un po’ di più, e l’isola dei segreti s’era ristretta, come con l’alta marea. S’era anche accorta che la paura dell’ascoltatore misterioso lentamente era sfumata e le rare volte che tornava, era roba che passava presto.

    La prima risposta era stata: No, il mar Nero non è nero, certo è diverso di questo e forse un po’ più nero lo è veramente….

    Le venne voglia di alzarsi, non sapeva nemmeno lei perché. Percorse tutto il corridoio con passi stentati, come se mani invisibili le avessero stretto gli avambracci per tirarla dove non voleva e lei non voleva, ma anche voleva, guardare ancora una volta quel viso buono, quella vecchia che non rompeva mai le scatole, che le andava sempre tutto bene, che da giovane doveva essere stata una gran bagascia, come dicono i liguri e da vecchia la grande intelligenza le aveva impedito di diventare una gran beghina, come sempre accade. Ma proprio quando arrivò accanto al letto e le fece una carezza lieve sulla mano che aveva la pelle fredda e molle come quella del pollo, suonarono al citofono.

    Capitolo due: in cui appare evidente che in tutte le storie c’è il giorno prima

    Non prendeva mai il carrello, preferiva lo scomodissimo cestino di plastica rosso in cui, in genere, non ci stava mai tutto. Allora rimpiangeva di non aver preso il carrello, ma era tardi. Quella mattina, quando ancora stava posteggiando, s’era ripromesso di comprare quattro sciocchezzuole. Aveva percorso pochi metri e già gli erano venute in mente un sacco di cose indispensabili a cui prima non aveva pensato. Così aveva trovato la soluzione al suo problema afferrando un secondo cesto, e adesso, in attesa al banco del pesce, con tutti e due i contenitori ancora vuoti, uno per braccio, si sentiva scemo. Ma pensandoci bene era una condizione transitoria, quindi poteva piantarla lì di martellarsi i coglioni con quelle idiozie da insicuro cronico, che poi lui non lo era per niente. Teneva d’occhio lo scorrere dei numeri man mano che i clienti venivano serviti ed intanto osservava con uno sguardo che non aveva smesso di essere critico, quel grande banco pieno di ghiaccio cosparso di creature aliene. Lo scorfano, che a detta di Ardelia doveva essere l’apoteosi della delizia nella zuppa, era un mostro ostile e minaccioso, anche da morto. La ‘rana pescatrice’, che poi perché ‘rana’ visto che era un pesce, nella coda ricordava vagamente lo squalo e davanti un pesce gatto del giurassico. Sembrava il giusto soggetto per un quadro di Hyeronimus Bosch. Ma ce n’erano altri, dei quali ignorava i nomi, che somigliavano a tutto fuorché a roba da mangiare. E allora cosa ci stava facendo il vicequestore Bartolomeo Rebaudengo davanti al banco del pesce del supermercato Coop? Ci faceva che gli avevano trovato il colesterolo alto, ecco cosa ci faceva, porca paletta! Perché altrimenti col cavolo che lo avrebbero beccato lì! Si sarebbe limitato a mangiare pesce durante le cene a casa di Ardelia, che certamente lo cucinava meglio di lui, e non avrebbe dovuto incrementarne il consumo. Il problema s’era posto quando il suo medico, sollecitato segretamente dalla perfida dottoressa Spinola, gli aveva detto che un colesterolo totale a 237 non andava mica tanto bene, forse si poteva rimandare ancora di un po’ il trattamento farmacologico, d’altronde quello buono, l’HDL, era a 65, i trigliceridi sotto i cento purché… purché mangiasse pesce almeno quattro volte a settimana e si dimenticasse salumi e formaggi, soprattutto formaggi e ci andasse anche piano con le uova. Una tragedia! Naturalmente niente fumo, raccomandazione che gli aveva ispirato un’espressione virginale: ‘Il fumo è quella cosa che esce dai camini d’inverno?’ e poco alcol, entrambi fattori di rischio di accidente cardiovascolare. Insomma per tenerti sano il cuore con tutti i suoi tubi annessi e connessi, dovevi fare una vita da monaco tibetano.

    Dopo estenuanti ragionamenti in cerca di alternative, aveva individuato tre vie: una verso la follia, una verso l’infarto e una da povero cristo. Decise per la terza, che si potrebbe riassumere all’incirca così: niente astinenza e niente lussuria. Che ci sia un effimero incontro con il formaggio, un’esile fetta di bollito, scarsi ravioli, un moderato gotto di vino buono, un’evanescente, quasi invisibile sigarettina da fumarsi in segreto, con lo stesso spirito che si aveva da ragazzi, quando ci si faceva le pippe chiusi in bagno con dei giornaletti prestati da qualche amico più grande e audace; il tutto alternato con pesce azzurro, insalate, stoccafisso un po’ scondito, orrendi tentacoli di polpo lesso, lecitina di soia e omega tre. Sarebbe bastato? Bastato a cosa? Magari a novantadue anni non sarebbe arrivato, ma forse a ottanta sì, che poteva essere considerato un buon successo, non trascurando il fatto che nel frattempo se la sarebbe goduta un po’ di più!

    Il casino ora era attenersi a ’sta maledizione del pesce, perché non poteva mica mangiare in continuazione merluzzo bollito! Gli venne in soccorso un nume tutelare di cui egli ignorava l’esistenza, ma che da anni lo accompagnava nella sua vita complicata, e per l’occasione aveva assunto le spoglie di un addetto al banco del pesce. Questa brava persona lo aveva visto smarrito, le prime volte, con il suo numeretto tra le dita e lo sguardo vacuo, incapace di comprendere fino in fondo cosa stessero fissando i suoi occhi piemontesi. Così il nume tutelare gli aveva rivolto poche domande, con cautela, giusto per capire quale fosse il motivo che spingeva un essere riluttante a contemplare del pesce morto. Lo sconosciuto guardava come se lì davanti non ci fossero state vere prelibatezze ma scarafaggi, e nonostante ciò un giorno sì e un giorno no era lì, con il suo numeretto e l’aria afflitta. L’addetto al pesce, che si chiamava Massimo ed era un po’ più giovane del cliente in difficoltà, capì che il signore aveva due problemi: doveva cucinare da solo, era un single, probabilmente di ritorno, come si suol dire, e di sicuro era terrorizzato dalle spine. Di problemi forse ne aveva anche tre, e l’ultimo, non meno grave, era l’accento: con un accento così la sua esperienza ittica non doveva andare oltre la bagna cauda. Insomma, si doveva partire da zero, ma Massimo amava le sfide, gli piacevano le figure strampalate, quelle persone che percorrevano il mondo fuori binario, seguendo itinerari personali. Tale predilezione s’era acuita nel tempo, forse a causa del contatto forzoso imposto dal suo lavoro, con una folla scialba

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