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Masche: Tra Langhe e Monferrato Stefano Drago indaga
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E-book168 pagine

Masche: Tra Langhe e Monferrato Stefano Drago indaga

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Info su questo ebook

In un piccolo paese del Piemonte meridionale, tra Langhe e Monferrato, vengono ritrovati i corpi di due vecchie sorelle gemelle, brutalmente uccise.
Il caso presenta aspetti anomali e misteriosi. L’inchiesta viene affidata a un agente del Dipartimento Indagini Paranormali, Stefano Drago. Il lato oscuro di una realtà ancorata ai retaggi di una civiltà contadina che ha tramandato oralmente miti ancestrali e credenze popolari, invaderà la sua vita e quella dei funzionari che lo seguono nella complessa indagine, in un crescendo di paura e fatti poco spiegabili, che si conclude in modo terribile e ambiguo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2012
ISBN9788875637613
Masche: Tra Langhe e Monferrato Stefano Drago indaga

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    Anteprima del libro

    Masche - Borgio Fabrizio

    PROLOGO

    Solstizio d’Inverno.

    Il Mondo è un Teatro; vieni vedi e te ne vai.

    (Matt. Claudius)

    Si raccontava che la scoperta avvenne a naso, al pari dei segugi. Prima dell’orrore, dello sgomento, della sorpresa e delle urla di raccapriccio, ci fu l’odore.

    Non era puzzo di decomposizione, sebbene si potesse ricollegare alla morte. Non alla morte di un essere umano, però. Quando davanti alla cascina del misfatto era passato il macellaio del paese, Dino, quest’ultimo non ci aveva fatto caso: in parte perché la mattina del 23 dicembre faceva un freddo gelido che ghiacciava letteralmente la punta del naso e i padiglioni delle orecchie e quindi, con la sua vecchia bicicletta percorreva le strade imbiancate dalla brina alla massima velocità, ma soprattutto perché il macellaio a quell’odore non faceva più caso da anni e anni; ormai il suo olfatto era assuefatto al particolare effluvio.

    Ad essere attirato fu il secondo passante della mattinata, l’intirizzito proprietario del bar del paese. In sella al suo sferragliante sidecar, la testa incassata fra le spalle e la spessa sciarpa avvolta attorno al volto. L’avvertì quasi distrattamente: appena una zaffata proveniente da una delle finestre, fugace ma intensa. Lo stesso odore che si spargeva nell’aria quando sventravano una lepre. L’olezzo pesante e nauseabondo delle interiora, che afferrava le nari e scivolava giù, attraverso la gola, chiudendola, e poi nello stomaco, come una presenza malata e disturbante. Naturalmente curioso, il motociclista fermò il mezzo sul ciglio della strada e annusò ancora l’aria, voltandosi verso le mura grigiastre dell’isolata cascina. Il puzzo, ora era indiscutibilmente intenso, più di quanto avesse percepito al primo sentore. Inizialmente pensò che nel cortile stessero svuotando un coniglio per il cenone di Natale ma una sola bestia, per giunta di ridotte dimensioni, come poteva emanare tutta quella puzza? Il più delle volte, tra l’altro, quel che non si usava degli organi interni, era sotterrato, oppure aggiunto al pastone dei maiali. Il motociclista concluse che era troppo. Forse qualcosa era andato a male, forse qualcosa non andava come doveva e magari le gemelle Marchisio avevano bisogno di una mano. Concluse che i beoni della prima mattina potevano aspettare. Rimise il sidecar in moto e passò sotto le finestre serrate strombazzando un paio di volte e infilandosi infine sotto il voltone. Sbucò nel cortile interno e si fermò nel mezzo. Stretto fra le mura della cascina, il puzzo stagnava più opprimentemente e regnava, inoltre, il silenzio più assoluto: nessuno starnazzare di pollame, nessun abbaiare chiassoso. Soltanto il cielo pallido, plumbeo, con l’orizzonte nebbioso che nascondeva alla vista monti e colline e il freddo, che rendeva le guance rosse come ciliegie. Dopo essersi guardato intorno, il motociclista si schiarì la voce con un grugnito catarroso e ad alta voce provò a chiamare: Madame? Madame? il richiamo si spense nel silenzio imperante, rendendo lo scenario ancora più desolato. L’uomo si sentì improvvisamente sciocco come un ubriaco che parla a una lampada. Magari dormivano ancora ma a quell’ora, da quelle parti, erano tutti svegli, pronti per andare al lavoro. Le due gemelle che abitavano la cascina erano piuttosto vecchie anche se coriacee. L’età poteva aver loro giocato qualche brutto scherzo.

    Sono Piero, del bar disse ancora, rivolto ai rettangoli verdi delle serrande. Le parole furono fagocitate dall’aria silente e severa. Piero sospirò, proiettando una nuvoletta di fiato condensato di fronte a sé. Ormai il sospetto e una malsana curiosità stavano soppiantando la timida idea di lasciare stare e farsi gli affari propri. Scese dalla moto, incerto attraversò il cortile deserto, la brina scricchiolava sotto le suole. In un angolo sotto il porticato, c’era una cuccia, l’uscio era buio come l’ingresso di una cripta. Piero la tenne d’occhio aspettandosi da un instante all’altro lo sbucare d’un cane, ma non sapeva se la cosa lo avrebbe sollevato o spaventato a morte.

    Era di fronte alla porta d’ingresso, un uscio massiccio a due battenti, con un pomello d’ottone per parte. D’Estate, di solito era riparata da una tenda verde mentre d’inverno rimaneva a vista, solida e possente, pronta a chiudersi bruscamente fuori delle mura domestiche, il mondo esterno. Alcuni ingressi riuscivano ad apparire come bocche sorridenti, pronte all’invito e alla letizia, nel caso di quello, invece, pareva un monito verso chiunque volesse invadere l’esistenza delle due vecchie. Uno dei pomelli era verde per l’aggressione degli agenti esterni e l’altro sembrava rotto o comunque danneggiato, perché era innaturalmente inclinato verso il basso; di fianco non c’era campanello. Piero s’umetto le labbra e bussò un paio di volte, chiamando di nuovo ma la sua voce si perse nella solitudine del luogo e i colpi sembravano assorbiti dal legno stesso. Bussò nuovamente poi afferrò il pomello sinistrato e spinse. Udì un tintinnio provenire dall’interno, che debolmente rimbombò fra stanze e corridoi. I cardini cigolarono. Spinse un po’ di più. La porta si aprì con uno schiocco sonoro e dall’interno un’altra folata mefitica l’aggredì, rivoltandogli nello stomaco il caffellatte bevuto prima a colazione. La gola era stretta dalla paura improvvisa che lo stava afferrando. Non riusciva più a proferir parola. Sentiva che la voce si sarebbe strozzata sempre che prima non vomitasse sul pavimento. Esitante, una mano stretta alla sciarpa alzata sulla bocca per protezione, fece un primo passo oltre la soglia cercando, con lo sguardo, di penetrare il buio del corridoio. Dentro faceva caldo e per reazione sentì le orecchie bollire, il sangue circolare rumorosamente, il puzzo intensificarsi ancora. Mosse altri passi esitanti; in fondo, alla sua sinistra gli sembrava di scorgere dei barbagli arancioni: il fuoco di un camino. Avanzò, insicuro e con il piede destro colpì un oggetto duro che scivolò e rumoreggiò come una boccia. Si fece avanti e si chinò, per cercare tentoni. Il pavimento era appiccicaticcio e sentiva sotto le palme dei sassolini aguzzi. Incontrò qualcosa di freddo, l’afferrò e l’espose alla luce mattutina che filtrava dall’uscio aperto. Era il pomello interno e, come la mano che lo reggeva, era sporco di sangue. Rimase fermo, paralizzato a fissare confuso quel che teneva. Era annebbiato dall’incomprensione e dall’incredulità della sua stessa coscienza. In quel tremendo frangente, si sforzava disperatamente di vedere le cose differenti da come le stava osservando. Assieme al pomello aveva raccolto anche uno dei sassolini. Non era un sassolino bensì un dente giallo e spezzato. La bocca si spalancò respirando l’aria fetida. Si alzò di scatto, slittando sul pavimento viscido, con la schiena sbatté contro il muro. Piero lasciò cadere dente e pomello e allungò le braccia contro la parete per sostenersi e contemporaneamente cercare avidamente l’interruttore della luce. Era orrendo. La sua mente ormai galoppava verso le ipotesi più assurde, ma ormai doveva vedere tutto. Un vocina dentro, invece, non voleva e gli diceva che alla luce sarebbe stato tutto ancora più brutto e spaventoso, ma l’urlo che le faceva da contrappunto era più forte e prepotente e batteva insistentemente sull’interrogativo smanioso: che cos’è successo, in fondo, tra le coltri del buio?

    Le dita tremanti incontrarono il bottone dell’interruttore, la luce inondò il corridoio e vide. E tremò.

    Una chiazza di sangue colloso s’era allargata dal soggiorno fino a metà del corridoio, alcuni schizzi avevano imbrattato la tappezzeria del muro di fronte. A terra, poco oltre, prima dell’ingresso della cucina, la testa mozzata di una delle gemelle fissava l’uomo con un solo, vitreo occhio spento, i capelli impiastricciati a sparse ciocche grigie, le labbra tirate snudando i mozziconi dei denti e dietro faceva capolino una mano che solitaria artigliava le piastrelle del pavimento. Urlò.

    Schizzò fuori battendo una spallata contro il battente chiuso, girò su se stesso e cadde nel fango ghiacciato del cortile, si rialzò freneticamente, ansimante, i piedi che scivolavano nell’affanno della fuga. Andò a finire senza rendersene conto sotto il porticato e inciampò nella cuccia del cane. L’animale s’agitò all’interno, sbattendo come un cubetto di ghiaccio dentro un bicchiere e i suoi ringhi e il latrare furibondo precedettero la sua fuoriuscita. Il piccolo bastardino bianco e nocciola mostrava i denti, sbavava come un rabbioso e azzannava l’aria con la follia negli occhi. Il cuore di Piero decollò, tirò calci nel vuoto in direzione della bestia e si buttò in avanti verso il suo mezzo. Il sellino cigolò lamentoso quando balzò in sella e con isteria abbatté il piede sulla leva d’avviamento. Il motore singhiozzò, tossicchiò, tremò e si spense. Il cane stava cercando di addentare il pneumatico posteriore. Piero ritentò calandosi con tutto il suo peso sulla leva. Tre, quattro volte s’accanì con la mente che stava per essere invasa definitivamente dal panico e alla fine il motore cominciò a rombare rumorosamente nonostante gli attacchi ripetuti del bastardino. Il barista diede gas e rilasciò la frizione di scatto. Il sidecar scavò un solco nel terreno e ripartendo si lasciò alle spalle una fontanella di spruzzi di fango gelido.

    CAPITOLO PRIMO

    Per esempio lui ora sta suonando. Improvvisando.

    Potrebbe essere qualsiasi cosa finché non si sentono le parole.

    (James Joyce, Ulisse)

    Una storia d’orrore rurale. L’incubo che affonda i suoi artigli di tenebra nella rassicurante esistenza agreste. Ovunque il mistero si nasconde e vive, tocca, sfiora le coscienze e percorre parallelo la strada della vita fino a che, talvolta, le due linee divengono tangenti. Sento che sto per raggiungere di nuovo il punto. Potrebbe anche non essere. Lo spero e lo temo….

    Lo sferragliare regolare del treno aveva fatto sprofondare Stefano Drago in uno stato di torpore nel quale, al sonno, s’erano sostituiti i pensieri. Nel vagone il sistema di riscaldamento era guasto e quando ritornò alla realtà aveva la punta del naso ghiacciata. Sbadigliò, si tirò su dal ruvido sedile e sistemò le braccia conserte sul petto, lasciandosi percorrere da un brivido. Lanciando uno sguardo dal finestrino non riuscì a distinguere molto del paesaggio: il vetro si era appannato e l’orizzonte era cancellato dalla nebbia lattiginosa che ammantava le colline. Nel vagone era completamente solo. I posti erano vuoti fin dalla partenza, dalla stazione centrale di Asti e tali, n’era sicuro, sarebbero rimasti fino a destinazione. La sua meta era Ubertoso, una sperduta frazione di Nizza Monferrato, nel cuore profondo di un territorio collinare incuneato tra le province di Torino, Asti e Cuneo, a cavallo tra le Langhe e il Monferrato. Alcune case e cascine sparse per circa duecento abitanti chiusi e taciturni. Stefano Drago aveva fatto fatica a individuarlo anche sulle cartine più dettagliate. Aveva trovato uno studio semi dimenticato di un’antropologa inglese che aveva svolto delle ricerche sull’omogeneità genetica della piccola comunità, ma nient’altro a riguardo, prima del massacro.

    Allungò una mano e spannò il vetro del finestrino per osservare l’alternarsi delle colline. Alcune erano dolci e brulle di terra coltivata, altre più alte e ripide, tappezzate d’erba medica. Case e cascine s’avvicendavano irregolarmente, distribuite con ordine sparso tra i cocuzzoli e i tratti pianeggianti. Ogni tanto, tra un’ondulazione del terreno e l’altra, si svelava la striscia scura, madida d’umidità, di una strada statale; tradite dai fari accesi, automobili l’attraversavano con la velocità inibita dalla bassa visibilità di quel pomeriggio invernale. Il cielo s’era ulteriormente scurito, un grosso fronte nuvoloso avanzava con i suoi banchi massicci, proveniente da nord e la volta aveva assunto un colore blu scuro, annunciante il precoce imbrunire. Drago distolse lo sguardo e infilò la mano sotto il cappotto per estrarre dalla tasca dei calzoni il proprio orologio: erano le sedici e trentacinque. Tra meno di un’ora sarebbe stato buio pesto. Si alzò in piedi stirandosi e nello stesso tempo guardò da entrambi i lati del vagone nella speranza di scorgere il controllore. Il Commissario Ferrari gli aveva spiegato che la stazione d’Ubertoso era discostata dal paese vero e proprio e che era preferibile coprire quella distanza a bordo di un mezzo, perché il tempo, ultimamente, era particolarmente inclemente. Drago era inoltre sicuro che uno sconosciuto che giungesse di notte, avrebbe faticato a trovare passaggi, senza il lusso di un taxi. Tornò a sedersi e aprì il giornale che aveva posato a fianco. In prima pagina campeggiava il titolo: MASSACRO A UBERTOSO mentre il sottotitolo specificava: "ritrovati i corpi di due vecchie gemelle dilaniati e

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