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Ombre sul Rex: Un'indagine Sestrese
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Ombre sul Rex: Un'indagine Sestrese
E-book339 pagine

Ombre sul Rex: Un'indagine Sestrese

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Info su questo ebook

Genova, fine luglio 1931. Le indagini sulla morte apparentemente accidentale di un informatore portano Igino Menchini, vice commissario della squadra politica genovese, sulle piste di un misterioso personaggio rientrato clandestinamente in Italia dagli Stati Uniti. Sono le ore che precedono il varo del transatlantico Rex, uno dei fiori all'occhiello del regime fascista. L'evento avrà una risonanza mondiale, la stampa è mobilitata, la famiglia reale scortata da alcuni tra i gerarchi di maggior prestigio sarà presente ai cantieri Ansaldo di Sestri Ponente. Il rischio di un sabotaggio o di un attentato è alto, gli apparati di sicurezza sono allertati, ma il misterioso uomo col Borsalino bianco si muove sfuggente come un fantasma. Menchini inizia così una personale corsa contro il tempo per stanare la sua preda. La serrata indagine lo condurrà a scoprire un complicato intrigo, al quale non sono estranei personaggi insospettabili e molto potenti. Troppo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2012
ISBN9788875637767
Ombre sul Rex: Un'indagine Sestrese

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    Anteprima del libro

    Ombre sul Rex - Cambiaso Daniele

    1

    Roma, 4 agosto 1931

    Il vano dell’anticamera, dove era stato parcheggiato con gentile fermezza, era più ampio di quanto l’uomo, seduto in totale solitudine sulla comoda sedia dall’alto schienale, potesse immaginare. Nel silenzio assoluto dell’ora serale, poteva udire il sibilo del proprio respiro, reso lievemente affannoso dall’ansia che lo attanagliava e che cercava di placare tormentando il proprio cappello. Si soffermò a considerarlo. Era un modello estivo di Borsalino panama color crema, dalla tesa ampia e avvolgente, al quale aveva adeguato un leggero completo estivo di lino chiaro.

    Non era solo una questione di stile. Visto quanto era accaduto, considerava quel Borsalino un vero e proprio simbolo. Non se ne sarebbe separato mai.

    Non un suono violava la sacralità del luogo sul quale, in passato, maggiormente aveva amato fantasticare durante conversazioni oziose e rilassate con i colleghi, in ufficio oppure durante le impegnative trasferte del proprio lavoro. Vuote chiacchiere che ora gli apparivano lontane ed estranee, collocate alla distanza siderale di un’altra vita. Noi a faticare e chissà lui là dentro cosa combina, si dicevano, talvolta accompagnando la frase col ghigno complice e ammiccante di chi vuol dare a intendere di saperla esageratamente lunga.

    Si era sbottonato la giacca e avvertiva con disagio crescente l’aderire della camicia di cotone sulle spalle, dovuto non solo al caldo di quei primi giorni di agosto, che si era fatto più opprimente e umido. E poi c’era quel grumo di dolore, profondo e radicato, che faticava a tenere sotto controllo. Neppure un refolo d’aria proveniva dall’ampio finestrone spalancato, dal quale si poteva cogliere uno scorcio ammaliante dei tetti romani, baciati dalla luna. Uno sfondo perfetto per le parole appassionate degli innamorati e gli incontri furtivi degli amanti.

    Altre passioni tormentavano l’animo dello sconosciuto col Borsalino. Avrebbe voluto accostarsi al finestrone, lasciar vagare lo sguardo sulla porzione di Città Eterna, ma temeva di infrangere col rumore dei suoi passi il silenzio di quella sala dal soffitto altissimo, quasi smisurato nella sua ampiezza, ma, soprattutto, non voleva farsi sorprendere affacciato alla finestra come un qualunque turista in gita premio. Perché lui non era un turista.

    Si portò una mano al volto e la passò sulla pelle leggermente ispida delle guance, mentre un pensiero fulmineo accompagnava il gesto lento e ripetitivo. Lui, in realtà, che cosa sapeva? Varcata quella porta, cosa gli sarebbe stato chiesto? Poteva essere all’oscuro di tutto o di oscura, invece, c’era la sua accorta regia di una vicenda dai contorni indecifrabili? Era lui il deus ex machina della tragedia che l’aveva coinvolto?

    Vinse l’istinto di alzarsi e fuggire da quella situazione angosciante, emise un profondo sospiro mentre la massiccia porta di legno, finemente lavorata, si aprì, lasciando emergere la figura impettita di un usciere in divisa, che gli rivolse un cenno muto col capo. L’uomo seduto si alzò quasi di scatto e si diresse verso l’entrata. Il suo passo si fece per un attimo esitante nel momento in cui si rese conto di aver dimenticato il Borsalino sulla sedia, pensò di voltarsi per riprenderlo, poi scacciò il pensiero rimandandone il recupero a dopo l’incontro.

    Del resto, ormai sulla soglia, poteva già udire una voce inconfondibile, venata da un’inflessione romagnola, che, a dispetto del caldo, gli fece salire un brivido lungo la schiena.

    Era la voce di Benito Mussolini.

    Per vincere l’emozione, l’uomo provò a pensare che, in fondo, nessuno avrebbe avuto l’ardire di rubare il suo cappello proprio lì, a Palazzo Venezia.

    Entrò.

    Genova, notte tra il 29 e 30 luglio 1931

    Il vice commissario Igino Menchini si accese una Nazionale strofinando il fiammifero contro una pietra della massicciata che chiudeva la strada in direzione del mare. A quell’altezza, la via Aurelia piegava in direzione di Sestri Ponente, poco prima che le sagome tozze e allungate dei capannoni dello stabilimento metallurgico Fossati e di una serie anonima di concerie e di segherie introducessero al cuore operaio della delegazione, alle propaggini più occidentali dei cantieri navali e alla Regia Manifattura Tabacchi, sancendo la fine del coté mondano e affascinante del litorale di Pegli, amato e frequentato da molti turisti provenienti anche dall’Europa settentrionale e dall’America. Non era raro udire una babele di lingue sul celebre lungomare, gremito anche nelle ore serali da una folla vivace che si spingeva fino alle foci del torrente Varenna. Ma quasi mai fino a quella sorta di terra di nessuno. Poche persone, infatti, si aggiravano nei dintorni. Ed erano poliziotti.

    Il cadavere dell’uomo, che giaceva scomposto sul limitare della strada, sembrava essere stato risospinto ai margini della delegazione rivierasca come una deturpazione del paesaggio, una povera cosa che non doveva sporcare il piccolo Eden vacanziero immerso, a pochi chilometri da lì, nella placida quiete notturna.

    La nottata, peraltro, non era delle migliori; il cielo era sferzato da un insistente vento che soffiava da ponente, si sarebbe potuto udire in lontananza lo sciabordare delle onde che schiaffeggiavano con violenza la riva del mare. Era la zona del lido di Multedo. Un chilometro circa di sabbia morbida che ospitava alcuni bagni popolari come i Nettuno, i Passeggiata, i Tritone e i Diana, presso i quali, soprattutto a partire dagli anni Venti, erano soliti recarsi molti sampierdarenesi che, curiosamente, disdegnavano le più vicine spiagge del castello Raggio e di Cornigliano. Ma a quell’ora non v’era traccia dell’atmosfera vacanziera che animava quei luoghi a stretto contatto delle aree industriali della delegazione ponentina. Due mondi confinanti, eppure lontani.

    Menchini aveva altro per la testa, il suo sguardo era rivolto alla sagoma dell’individuo che giaceva disarticolato al suolo, aderendovi nel modo innaturale che solo i corpi senza vita possono avere. Era stato coperto frettolosamente con un lenzuolo trovato chissà dove, mentre i colleghi del reparto Mobile, il medico e il magistrato di turno esaminavano il luogo del ritrovamento. Dalla sua posizione, il commissario poteva vedere solo la parte inferiore del corpo, che una raffica di vento aveva parzialmente scoperto, offrendo alla vista il primo piano della suola di un mocassino vecchio e un po’ slabbrato. Soffiò il fumo della sigaretta, distogliendo lo sguardo dal dettaglio impietoso che rivelava la modesta condizione sociale del morto.

    Il resto del corpo era coperto dalla sagoma di una Lancia Astura nera, frettolosamente accostata al marciapiede. Una portiera era rimasta ancora aperta. Da lì erano scesi gli agenti che ora provvedevano a effettuare frettolosi rilievi e a regolare il modesto traffico di automezzi in transito a quell’ora. Menchini coglieva le loro occhiate perplesse, li conosceva, avevano lavorato con lui prima che passasse all’Ufficio Politico e ora lo guardavano con sospetto.

    Che cosa ci fa la Polizia Politica, qui? Per un incidente, poi.... Poteva indovinare le domande che si rivolgevano tra loro con un cenno al suo indirizzo. Sapevano bene di cosa si occupava ora e temevano risvolti imprevisti per quella che aveva tutta l’aria di essere un’indagine di comoda routine. Anzi, di comodo tran tran, come si suggeriva autorevolmente e autarchicamente di dire.

    Poco più avanti, giaceva la carcassa contorta della bicicletta sulla quale doveva essere stato il morto, prima di diventare tale nel momento in cui un veicolo, proveniente alle sue spalle, lo aveva centrato, uccidendolo sul colpo.

    Nessun segno di frenata. Un ubriaco? Un pazzo? Fatalità, disgrazia o, piuttosto, un assassinio?

    Menchini si riscosse quando si avvicinò il brigadiere Cruni, che conosceva bene e che sembrava volergli fornire un rapporto informale sui rilievi effettuati: Dottore, probabilmente è stato un incidente. Anche il magistrato la pensa così. L’investitore non si è fermato. Abbiamo trovato tracce di vernice blu scura sulla bicicletta. Forse un guidatore ubriaco che nemmeno si è accorto di averlo travolto, chissà... Stando ai documenti, la vittima si chiamava....

    Settimio Lucera. So benissimo come si chiamava... rispose Menchini, con un tono più secco del dovuto. Poi aggiunse, quasi a volersi scusare: Avevo un appuntamento con lui.

    Un appuntamento? A quest’ora della notte? disse Cruni, improvvisamente interessato, inarcando perplesso le bionde sopracciglia che incorniciavano un volto giovanile e abbronzato. A quest’ora della notte, già. Le due di notte, gli agenti di turno in commissariato che bestemmiano quando arriva la telefonata. Menchini, mentre osservava gli uomini al lavoro, poteva immaginare la scena per averla vissuta tante volte, quando era stato assegnato al commissariato di Portoria, dall’altra parte della città.

    No, non stanotte. Domani. Ci saremmo dovuti vedere domani per un semplice controllo sui clienti dell’albergo dove lavorava. Tutto lì mentì il vice commissario. Era stata la stanchezza a fargli dire più del necessario e ora sperava di avervi messo rimedio.

    Cruni non sembrava del tutto convinto, ma ritenne che ogni ulteriore insistenza nei confronti del funzionario si sarebbe potuta rivelare insidiosa, nascondendo trappole come l’intrusione in una questione riservata della Polizia politica, per cui scelse di passare oltre e formulò, a voce appena più bassa, la domanda successiva:

    E l’avete trovato voi?.

    No, no. L’ha trovato una guardia notturna che stava passando, anche lui in bicicletta e indicò un uomo che sostava discosto rispetto al gruppo, rigirandosi nervosamente un berretto con la visiera. Era alto, con gli occhiali, nella luce incerta del lampione sembrava avere un colorito malsano, ma poteva essere l’effetto della luce artificiale o dello spavento. In fondo, non a tutti piace incontrare cadaveri sulla propria strada. Menchini osservò come la giacca dell’uniforme scendesse abbondante, a occhio di quasi una taglia, sulle spalle smagrite del metronotte. Forse era il caldo dell’estate, si disse. A qualcuno gioca brutti scherzi e toglie l’appetito, ma poteva anche essere un uomo malato. La guardia notturna deglutiva in continuazione, il pronunciato pomo d’Adamo andava frequentemente su e giù. Le lenti degli occhiali si incendiavano di lampi improvvisi, quando incontravano le luci delle lampade degli agenti. Teneva una mano posata sul sellino della bicicletta appoggiata al muro, mentre con l’altra rimestava nella tasca dei pantaloni. Probabilmente giocherellava con delle monetine, per vincere la tensione.

    Sono arrivato con la macchina aveva proseguito Menchini, indicando con un cenno della testa la Lambda accostata al marciapiede, alle sue spalle, e l’ho visto accucciato che cercava di rianimarlo. Lì per lì mi era sembrato che la guardia avesse investito un cane, poi, quando mi sono avvicinato, ho capito che le cose stavano in maniera diversa. Quella specie di fagotto era un uomo e non l’aveva certo steso lui. L’ho spedito a telefonarvi dai capannoni che sono là davanti, dove, tra l’altro, a quanto ho capito da quel che ha farfugliato, stava andando a prendere servizio. Guardando meglio la vittima, mi sono reso conto di conoscerne l’identità. Tutto lì.

    Cruni si rilassò; ora, insieme alla dichiarazione della guardia giurata Nicola Robbiano, che coincideva in tutto e per tutto col racconto del vice commissario, aveva elementi sufficienti per stendere un rapporto. Ancora imbarazzato per la domanda di poco prima, decise di mostrarsi collaborativo e amichevole con Menchini, buttando lì qualche informazione: Ha battuto la testa, il medico non esclude ci siano state fratture o lesioni agli organi interni. Insomma, una bella botta. Che dite, lo rimuoviamo?.

    L’ultima domanda era scaturita naturale all’avvicinarsi del magistrato, che Menchini conosceva soltanto di vista.

    E voi che ne dite, vice commissario? Chiudiamo qui la questione? chiese il giudice Marchianò, soffocando uno sbadiglio poco riguardoso per il morto.

    Menchini sorrise stancamente e fece un cenno affermativo, mentre inalava l’ultima boccata di Nazionale.

    Un’ultima cosa, Cruni. Avete trovato appunti, fotografie, cose strane nei vestiti?.

    Nulla, il portafogli con poche lire e i documenti. E le chiavi di casa.

    Le chiavi, eh?.. Un pensiero improvviso. Quelle lasciamele, Cruni. Se non avete nulla in contrario, dottor Marchianò

    Veramente non... Dovrò metterlo a verbale, vice commissario rispose Cruni, mentre il magistrato, allontanandosi, gli fece un cenno che voleva essere un’autorizzazione.

    Avete qualche dubbio, Menchini? Fate pure. Comunque, se salta fuori qualcosa di strano, mi fate sapere immediatamente, eh?.

    Certo, certo. Non vi preoccupate lo rassicurò Menchini.

    Ma quanti scrupoli per un poveraccio, vittima di un pirata della strada brontolò il magistrato risalendo sulla propria automobile.

    Dimenticavo, dottor Menchini. È arrivato, poi... la voce di Cruni si era fatta un bisbiglio.

    Arrivato... Chi, Cruni?.

    Non chi, che cosa. Il mio trasferimento, dottore. Ricordate? Avevo chiesto tante volte di potermi avvicinare a Milano, dove vive mia sorella.

    Il ricordo nitido, improvviso. Ma certo, Cruni! Il trasferimento. Così, ce l’hai fatta. Bene, sono felice per te, davvero.

    È andata anche meglio di quanto sperassi. Andrò proprio a Milano, commissariato San Fedele.

    Ottimo, allora. Sarai contento, no?.

    Pare che passerò alle dirette dipendenze di un certo commissario De Vincenzi. Voi, per caso, lo conoscete?.

    No, non ho avuto occasione. Ma vedrai che ti troverai bene, a Milano ci sono degli ottimi poliziotti. Questo De Vincenzi non farà eccezione. Congratulazioni, allora....

    Aveva osservato la schiena di Cruni allontanarsi verso gli altri uomini. Ora stavano aiutando a caricare il corpo di Lucera su un’autolettiga giunta dall’Ospedale di Sestri Ponente a sirene spente. Il magistrato, con la solita indolenza, stava già risalendo sulla propria autovettura. Per lui, caso chiuso. Menchini tornò a fissare l’ambulanza. Ultimo viaggio per il confidente e i suoi segreti. Destinazione obitorio.

    Si era sentito improvvisamente prostrato, quando aveva avvistato al buio il corpo di Lucera, e ora avvertiva solo il desiderio di andarsene a dormire, per poi fare ordine con calma nei ricordi. Ma le parole con cui si era separato dal suo informatore continuavano a echeggiargli nella mente e non gli lasciavano dubbi. Richiamò il brigadiere, alzando leggermente la voce.

    Cruni, se non c’è altro io sono stanco e me andrei a casa. Passo domani, anzi... più tardi da voi per la firma del verbale, siamo d’accordo?.

    Va benissimo. A dopo, vice commissario aveva replicato Cruni, con una punta di sollievo nella voce, spiandolo mentre intascava le chiavi della vittima e rimuginando tra sé che questo Menchini sarà stato anche un tipo scorbutico e della Politica, ma talvolta sembrava davvero un buon diavolo.

    Mentre risaliva sulla propria auto, Menchini non poté fare a meno di pensare che, a dispetto delle apparenze, delle certezze del magistrato e del rapporto che avrebbe stilato il brigadiere Cruni, quello non era stato un incidente. Non aveva dubbi. Doveva informare il settore Ovra di competenza, ma prima erano necessari alcuni controlli, servivano solide prove per far scattare un allarme in una città già in fibrillazione per l’imminente varo del Rex. Se davvero c’era quello che temeva, ci sarebbe voluto altro che un pigro magistrato di provincia come Marchianò per affrontare un fatto del genere, rimuginò. Già era stato un evento che si fosse scomodato per un incidente. Evidentemente stava cercando di dare lustro alla sua immagine più che appannata. Al diavolo Marchianò.

    Menchini tornò a pensare all’uomo ucciso dall’auto. Settimio Lucera non aveva famiglia, viveva da solo, non c’era nessuno da avvertire se non i colleghi dell’albergo, dove non poteva certo precipitarsi nel cuore della notte. Avrebbe lasciato che gli uomini del reparto Mobile comunicassero la disgrazia, l’incidente, con le consuete parole di circostanza.

    Si accese un’altra Nazionale.

    Forse l’assassino si sarebbe convinto di averla fatta franca.

    Aveva poche ore per recuperare lucidità e programmare le prossime mosse per stanarlo.

    Perché il vice commissario Igino Menchini della Polizia Politica di Genova, su questo, non aveva dubbi. Settimio Lucera, confidente, era stato ucciso.

    2

    Ora, alle tre di notte, steso nel letto senza riuscire a dormire, mentre fuori folate tiepide di vento facevano vibrare le persiane, tornava con la mente a quell’incontro.

    Il fumo della sigaretta saliva con ampie volute verso il soffitto e mentre lo osservava, con un braccio piegato sotto la nuca, Menchini riviveva ogni dettaglio di quei momenti.

    Si erano visti il pomeriggio precedente, al bar ristorante Stella, in piazza Acquaverde, nei pressi della stazione Principe.

    Che cos’è questa storia? aveva esordito il poliziotto di malagrazia, mentre si accomodava a uno dei tavolini del bar vicino alla stazione. Il cameriere si era materializzato accanto a loro e aveva raccolto la distratta ordinazione del vice commissario, mentre Lucera, stravaccato su una sedia, stava già sorseggiando una granita al limone. Aveva ordinato un arzente, con ghiaccio.

    Calmatevi, commissario. Sedete con me e aspettate. Vedrete che la mia storia vi interesserà.

    Lucera, i corti capelli neri ormai spruzzati di grigio, il volto squadrato dominato da due occhi scuri talmente grandi che sembravano voler esplodere dalle orbite, la figura pingue racchiusa entro abiti stazzonati di mediocre qualità, ostentava un sorriso tra l’astuto e l’allusivo, ma il modo con cui lanciava ogni tanto sguardi furtivi tutto attorno tradiva un’ansia per lui insolita.

    E non potevi mandarmi un rapporto scritto come tutte le altre volte? Sono indaffaratissimo, tra poco ci sarà il re qui a Genova. Non ho tempo per i tuoi pettegolezzi.

    Lucera fece l’offeso: Pettegolezzi sui quali avete costruito una carriera, commissa’. Ma vi perdono l’ingratitudine perché vi vedo nu’ poco affaticato. Questa è una storia grossa, credetemi. E mi sa che il tempo stringe.

    A Menchini venne voglia di ricordare al suo confidente che la gratitudine già si era ampiamente manifestata sotto forma di un discreto silenzio su alcuni traffici poco puliti che avevano a che fare col contrabbando di sigarette proveniente dal confine francese, ma soprattutto con l’amnesia sui suoi giovanili furori sovversivi, che aveva permesso al cinquantenne napoletano ex marinaio, ex buttafuori di locali notturni un po’ equivoci, ex contrabbandiere di sigarette, ex chissà che altro di essere assunto senza troppi problemi come tuttofare in uno dei più eleganti alberghi pegliesi. Per non parlare delle entrate extra che le segnalazioni più interessanti gli avevano fruttato. Di questo passo, sarebbero finiti a discutere, così il vice commissario scelse di usare il guinzaglio lungo per vedere dove sarebbero andati a parare.

    Sentiamo replicò asciutto.

    Due giorni fa, da me in albergo, ho visto un fantasma.

    Mi prendi per il culo, Lucera?.

    No, giuro, commissa’.

    Vice commissario.

    Vabbuò, commissa’... Tanto tra poco, ve lo garantisco io, il vice ve lo levate di davanti. All’inizio neanche l’avevo riconosciuto, era uno dei tempi miei, capite, delle stupidaggini di gioventù....

    Un anarchico precisò Menchini accendendosi una sigaretta.

    E vabbuò commissa’, un anarchico. Ma un anarchico che non piaceva nemmeno ai compagni suoi, ai tempi vecchi.

    Non sarà piaciuto a te, magari. Lo dici tu, che è un brutto tipo, e diventa dicono, vero Lucera? Cosa faceva? Ti scopava la donna?.

    Commissa’, voi mò vedete che mi state offendendo e forse era meglio che andavo dai cuggini vostri....

    Aveva detto proprio così, cuggini con due g, e gli era partito pure uno sputazzo che era planato graziosamente sulla tovaglia a un centimetro dalla mano di Menchini, il quale, dal canto suo, aveva capito che il nervosismo lo stava rendendo sgradevole. Un confidente non amava essere trattato sbrigativamente da infame o da spione; esigeva, a modo suo, rispetto, riconoscenza. Alcuni confidenti si ritenevano artisti, altri benemeriti della patria, anche se nascondevano, spesso, sordide ambizioni e pruriti inconfessabili. Bisognava trovare un terreno sul quale comunicare, creare insomma un rapporto di fiducia.

    Invece, lì, irritabile lui e nervoso Lucera, rischiavano di non approdare a nulla: Scherzavo Lucera. Lascia perdere i carabinieri, i cugini, siamo amici noi due, no? Ci siamo sempre capiti. È solo una giornataccia, sto impicciato e divento nervoso. Piuttosto, dai... Dimmi di questo fantasma.

    Si chiama Libero Bellini, ma forse dovrei dire chiamava, perché il nome con cui si è presentato all’albergo era straniero, americano. Quanto tempo, commissa’... E difatti, mi sembrava di averlo già visto, ma forse nemmeno l’avrei riconosciuto se non avesse conservato una vecchia passione. Anzi, direi una fissazione....

    Che fissazione?.

    Quella dell’eleganza, della moda. Soprattutto per i cappelli. Va matto per il Borsalino.

    Non mi dire. Un anarchico elegantone... Guarda quante se ne imparano....

    Ma, sapete, lui se lo è sempre potuto permettere, si vede che stava bene di famiglia o aveva chi lo pagava, non l’aggio capito mai... Già ai vecchi tempi teneva la fissa. Quello lì, estate o inverno, lo potevate vedere sempre col suo bel Borsalino in testa, ne aveva una collezione, credo. Forse gli servivano per far colpo sulle donne... Così, quando mi vedo quella faccia, cambiata ma non sconosciuta, con sopra il Borsalino, mi si è accesa la lampadina, commissa’!.

    Igino Menchini detestava i cappelli, li giudicava un inutile impiccio e pensava che, alla lunga, se li avesse indossati regolarmente, avrebbero finito con l’indebolire i suoi già radi capelli castani, che portava tagliati corti e pettinati all’indietro. Ma era indubbio che a quei tempi, e anche in precedenza, il Borsalino, nei suoi diversi modelli, si era affermato come un simbolo di buon gusto e di qualità. Qualità italiana. Ne aveva notato l’ampia diffusione, estesa persino ai personaggi di alcune pellicole che si era gustato al cinematografo, uno dei pochi luoghi di svago nei quali riusciva, almeno per qualche momento, a dimenticare davvero il lavoro che faceva e lo sporco che vedeva in giro.

    Era tornato a Lucera, il quale aveva proseguito nel racconto: Come vi dicevo prima, commissa’....

    Vice....

    Vabbuò, vi dicevo prima che era un tipo che già ai tempi vecchi mi piaceva poco. E piaceva poco pure agli altri compagni. Posso dire compagni, sì?.

    Menchini aveva fatto cenno con fastidio di darci un taglio.

    E non per il Borsalino come potreste pensare voi, commissa’ aveva insistito lui. In effetti, Menchini lo aveva pensato. Ma perché voleva fare cose strane, cose pericolose, cercava il sangue. E voi lo sapete, commissa’, il sangue chiama sangue. Anche da dove veniva lui, dalla zona delle Apuane, lo guardavano con sospetto, qualche compagno lo sapeva. Laggiù sono tutti anarchici, lo sapete.

    Guarda che anch’io vengo da là lo aveva gelato Menchini.

    Tutti per modo di dire! si era corretto in fretta Lucera. Ma non era vero che il poliziotto proveniva da là; in realtà era originario di Stiava, una frazione nei dintorni di Viareggio, e, comunque, il padre era stato di simpatie socialiste. Guglielmo Menchini era un medico condotto che, furbo o fortunato, era riuscito a non inguaiarsi mai, però quel suo figlio, che era entrato in polizia subito dopo la laurea e dopo traversie di altro genere, gli causava non pochi rimescolii nel sangue. Un rivoluzionario a tempo pieno in casa non lo avrebbe forse voluto, ma certo non si sarebbe mai aspettato un uomo della legge. Così, quando Igino lo andava a trovare, lo accoglieva invariabilmente con un: Sei venuto per arrestarmi?.

    Menchini tornò a concentrarsi sulle parole di Lucera.

    Comunque, dove sta lui stanno i casini e se è venuto in Italia dopo che da anni se n’era scappato in America, vuol dire che gatta ci cova. O non deve venire il Re a battezzare il Rex? Non si parla d’altro sui giornali, sarà un evento a livello nazionale, no?.

    Non lo battezza, presenzia al varo aveva risposto pensieroso Menchini. Era vero, se questo Bellini era tornato in Italia per compiere qualcosa di grave, il fatto che fosse a Genova proprio alla vigilia del varo del Rex non poteva essere una coincidenza.

    Dove sta? Alloggia da voi? Con che nome?.

    È diventato uno della radio, a quanto pare. Il nome è di quelli americani... L’aggio scritto, aspettate mo’... Ecco... John Surratt.

    Uno della radio, eh?.

    Sì, pare che abbia a che fare con le trasmissioni radiofoniche. Insomma, magari si è trovato un lavoro, in America. Ma allora perché non tiene il suo nome, commissa’? Comunque quello al Rex è interessato assai. Infatti, mi ha chiesto se è vero che il varo è rimandato per il maltempo e ha bloccato la stanza per altri tre giorni. Se è della radio, perché queste cose le chiede a me? E come mai è da solo e non c’è nessun altro della radio americana come lui? Che so, un collega, un aiutante, un tecnico....

    "Già, perché? Va bene, vedrò di scoprire qualcosa di più. Io, però, questo come lo

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