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Il vigile Rollo
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E-book287 pagine

Il vigile Rollo

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Info su questo ebook

Il Vigile Rollo, tranquillo impiegato con problemi di forma fisica, senza grandi interessi al di fuori di una stravagante passione per i ponti ed afflitto da una zia possessiva, si trova suo malgrado coinvolto in una vicenda apparentemente banale, ma che finisce per rivelarsi un mistero inspiegabile. Inizia così (siamo nella primavera del 1972) un’indagine che lo porta a incontrarsi e a scontrarsi con molti dei suoi concittadini, in un piccolo paese forse di fantasia, ma che ha tutte le caratteristiche dei centri che si trovano sul confine geografico e culturale tra Liguria e Piemonte (diciamo, per fare un esempio, la Valle Scrivia). Spinto da un ostinato desiderio di verità e munito della vecchia bicicletta di servizio, Rollo non si arrende alle prime scoraggianti evidenze e continua a mettere insieme i tasselli di un fatto che ha antiche radici, muovendosi per le osterie e i vicoli del borgo tra vecchi amici reticenti, giovani extraparlamentari, arzilli comunisti centenari e squillo sentimentali. Una storia di paese, nella quale si respirano le atmosfere di un mondo, forse defilato ma vivo, e di un tempo per il quale si comincia a sentire un’irragionevole nostalgia.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2012
ISBN9788875637828
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    Anteprima del libro

    Il vigile Rollo - Balostro Claudio

    1

    Chiamasi ponte la struttura architettonica che consente ad una via di comunicazione di superare un corso d’acqua, una gola, una via preesistente.

    Una domenica del maggio del 1972, in una mattina di sole e di tranquillità, il vigile Rollo trovò una pistola nel tronco cavo del vecchio olmo, in piazza Nuova.

    Per un breve momento il paese fu come attraversato da un brivido. A una settimana dalle elezioni, con l’assassinio dell’orefice appena avvenuto a Novi Ligure, sembrava che la grande cronaca dovesse passare per quei luoghi anonimi. Si parlò persino di terroristi, e le misere elezioni amministrative del paese sembrarono improvvisamente dover assumere un’importanza straordinaria.

    Il giorno dopo si scoprì il cadavere di Sgroi, e la sua morte strana e forse scandalosa divenne immediatamente il centro dei pensieri e dei discorsi di tutti.

    Poi i Carabinieri esclusero qualunque legame con i gruppi armati, si accertò che la pistola non aveva sparato da tempo e che non era collegata con nessuno dei fatti di sangue recenti.

    Infine si conobbero i risultati delle elezioni. Le sinistre avevano ottenuto, dopo trent’anni, il maggior numero di voti. Ma in consiglio comunale, per il conteggio degli eletti, si era avuto tra i due schieramenti un pareggio perfetto, con lo stesso numero di seggi e nessuna prospettiva; un altro buon argomento per i capannelli nel viale dei Tigli. Tornava la paradossale normalità di sempre.

    Di quella pistola rimaneva un trafiletto di dieci righe sulla pagina locale de La Stampa (avevano scritto Gollo. Il vigile Gollo) e una serie di denunce, dichiarazioni e testimonianze che erano state correttamente e burocraticamente compilate, firmate, controfirmate ed archiviate.

    Rollo non era convinto. Non riusciva a credere che tutto fosse così semplice, così insignificante. Gliel’aveva detto, a Salsano, che qualcosa non quadrava. Ma per il maresciallo si trattava semplicemente di qualcuno che aveva voluto disfarsi di una vecchia arma che non serviva più. Certo, nessun tranquillo cittadino tiene in casa una pistola con la matricola limata, si trattava probabilmente di qualche balordo di passaggio, ma niente di più.

    Rollo odiava le armi, gli davano un’ impressione di freddo e di crudele, ma in questo caso si era informato. La Beretta 950 era uno degli ultimi modelli, una buona arma, e, a quanto pareva, in ottime condizioni. Rollo gli aveva detto Salsano, una pistola senza pallottole e che non ha sparato da almeno un anno non può essere servita a commettere alcun delitto. Capisco che potrai sentirti deluso per la minima importanza della tua scoperta, ma questa è la realtà. Scherzava? Rollo non ne era certo. E poi, e sia detto da amico, preoccupati di quello che sai fare. Fai il vigile.

    E questo aveva chiuso il loro dialogo. Ora, se c’era una cosa che Rollo non avrebbe mai voluto fare era proprio il poliziotto, o il carabiniere. Già indossare la divisa azzurrina da vigile gli faceva un certo effetto, e aveva faticato un po’ nei primi tempi ad abituarsi all’idea.

    Il vigile Rollo. Fare il vigile non era precisamente l’obbiettivo della sua vita. Aveva sempre sognato di fare l’ingegnere. Ma non quelli che costruiscono le case. Lui avrebbe progettato ponti. A navate, a colonne, sospesi, su torrenti o su grandi fiumi, quelli che poi si vedono nelle cartoline o sugli atlanti geografici. Ingegner Rollo, progettista di ponti. Fin da bambino era affascinato dal vecchio ponte del paese, un’antica costruzione medievale a quattro archi disuguali, eretto interamente con grandi pietre squadrate, eppure così aereo e leggero che pareva impossibile potesse sopportare i pesanti carri trainati dalle grosse coppie di buoi.

    Aveva passato interi pomeriggi a camminare su e giù per quel ponte, a stupirsi della sua leggerezza, della sua serena indifferenza al sole e al gelo, alla siccità come alle piene improvvise. Fin da allora pensava che nessuno avrebbe mai potuto fare un altro ponte come quello, essendo esso una specie di miracolo irripetibile. Tuttavia sentiva che quella doveva essere la sua strada: costruire altri ponti, riempire il mondo di ponti, cercando ogni volta di ricreare, se non nella materia almeno nell’idea, quel modello platonico.

    Per sopportare il presente si finisce spesso per considerare assurde le legittime passate aspirazioni. Rollo non aveva avuto la possibilità di continuare gli studi, e ora gli parevano sinceramente ridicoli e infantili quei sogni di ingegneria e di ponti.

    Ma una cosa era certa. Si era trovato a fare il vigile per caso, un lavoro come un altro. Salsano non aveva capito niente di lui. Niente, e si conoscevano da tanti anni. Avrebbe voluto non aver mai trovato quella pistola, o almeno che tutto fosse già chiarito e sepolto. Ma non sopportava quel dubbio, quell’inconclusione, quel non voler vedere i problemi. Tutte le convinzioni del maresciallo cedevano di fronte a un banale esame logico.

    Perché disfarsi improvvisamente di una pistola che non ha sparato? E anche volendo, perché non gettarla in una forra su nella collina, o nel torrente, nei punti dove l’acqua è più alta? O in un angolo solitario e sicuro della campagna? Perché proprio in paese?

    E poi quella storia del balordo di passaggio. Tutti i ragazzini del paese avevano giocato a nascondere oggetti nel tronco del vecchio olmo. Era una specie di segreto condiviso da tutti, ma pur sempre un segreto. Perché, caro Salsano, guardandolo esternamente il vecchio olmo non sembra affatto un albero cavo.

    No, qui non c’era nessun balordo di passaggio. Questa era una storia di paese.

    E poi la strana morte di Sgroi, a duecento metri dalla piazza, proprio la notte precedente. In questo paese non succede nulla per anni, e poi improvvisamente due fatti strani, apparentemente slegati tra di loro. È il caso aveva detto Salsano. È come fare una cinquina al lotto. Sai quante probabilità ci sono di fare una cinquina giocata su una sola ruota?. Rollo non lo sapeva. Una su mille? Una su diecimila? Hai esattamente una probabilità su quarantatremilioninovecentoquarantanovemiladuecentosessantotto. Rollo gli aveva chiesto se conosceva qualcuno che davvero giocasse una cinquina secca. Salsano aveva estratto uno scontrino dal portafoglio. Giocava la stessa cinquina sulla stessa ruota da trentacinque anni. Potrebbe non uscire mai, diceva; ma potrebbe anche uscire sabato. Questo è il caso.

    Rollo si rendeva conto che se tutti gli accadimenti fossero soggetti alle leggi della probabilità, il mondo universo sarebbe una costruzione banale e prevedibile. Ma non credeva ad un caso in questa occasione, non lo credeva affatto, nonostante le cinquine di Salsano.

    Inforcò la bicicletta di servizio, mezzo di locomozione messo a disposizione dal Comune per il corpo dei Vigili Urbani del paese (uno solo, lui, Rollo) e cigolando tranquillamente si avviò verso quello che nel cartello sulla statale veniva pomposamente chiamato centro città, dove doveva notificare qualcosa a qualcuno, con ritiro di firma autografa del titolare (qualcuno) o di chi legalmente autorizzato a ricevere la notifica, nel caso specifico la di lui moglie che Rollo sapeva, verso quell’ora, intenta a dare aria a lenzuola e coperte della camera da letto, prima di andare a far spesa nei negozi del sopraddetto centro città.

    Arrancò con un certo sforzo sulla salita; valutò se alzarsi sui pedali, come una certa propensione estetico-emotiva alla leggerezza del grimpeur gli suggeriva, o rimanere prudentemente seduto, come una pinguedine ormai dilagante (come condizione generale) ed un affanno crescente (come valutazione momentanea) gli raccomandavano. Negli ultimi dieci metri, dopo essersi guardato intorno, scese dal sellino con rassegnata umiliazione. Vent’anni prima, volava su quella rampa con una vecchia bici a pedale fisso.

    Oltrepassò Porta Ponente. Sotto l’arco, la strada spianava nuovamente e continuava piegando tra le case fino al versante opposto, dove Porta Levante si apriva sul paesaggio sfumato della pianura. Il paese aveva solo queste due porte, e per secoli era rimasto confinato tra questi due limiti, i cui nomi medioevali e un po’ aulici erano miracolosamente sopravvissuti alle storpiature e alle familiarizzazioni dei borgaioli.

    Le ruote della bicicletta sobbalzavano sull’acciottolato. Su queste pietre levigate dai secoli erano passati le calighe dei legionari, i piedi nudi degli schiavi galli o traci, gli zoccoli dei piccoli cavalli degli unni o dei visigoti, i sandali dei benedettini del monastero, le zampe ferrate dello stallone andaluso di Carlo V, i pesanti stivali della fanteria di Bonaparte. Ed anche le misere scarpe di generazioni di contadini e di popolani. A Rollo piaceva che il paese avesse una storia così lontana, nella quale si entrava senza sforzo, semplicemente pedalando in mezzo alle case e alle leggende.

    Sgroi era stato trovato morto, completamente nudo, nel salone della sua villa. Il corpo era stato rinvenuto dalla donna di servizio, il mattino del lunedì, ma secondo il parere del medico il decesso risaliva ad almeno 24-36 ore prima. Trentasei ore, faceva la notte che precedeva il ritrovamento di quella maledetta pistola.

    Nessuna ferita, tanto meno di arma da fuoco, nessuna ecchimosi. A prima vista una morte per cause naturali. In casa nessun segno di lotta, nessun furto, niente fuori posto.

    Eh, no. Non era affatto tutto in ordine. Su questo Salsano aveva dovuto dargli ragione. Quando era stato dato l’allarme, Rollo si trovava per caso vicino alla villa ed era stato uno dei primi ad entrare nel salone. Ricordava la scena nei minimi particolari, come fosse un film che poteva a piacere rimandare avanti o indietro nella sua mente, e del quale poteva fermare le immagini o ingrandire i particolari. Non era affatto tutto normale.

    Il corpo di Sgroi giaceva supino sul tappeto del salone, raggomitolato in una posizione innaturale, come una persona scossa da un tremito che tolga il fiato. I vestiti erano stati buttati alla rinfusa accanto al divano. Era evidente che l’uomo non si trovava nudo per un caso qualsiasi (una doccia, la necessità di cambiarsi d’abito) ma che si era spogliato, apparentemente in gran fretta, proprio nel salone. Era un particolare che aveva eccitato oltre ogni dire la fantasia del paese. Ne erano scaturite una lunga serie di ipotesi, alcune assai ragionevoli, molte improbabili, qualcuna così evidentemente impossibile che smascherava la stessa oscura perversione di chi l’aveva generata.

    Il caso più semplice, quello cui credevano i più, era che Sgroi avesse avuto quella sera, come avrebbe detto Salsano, un incontro galante, e che nel corso di quell’incontro si fosse sentito male. Dopotutto aveva una certa età, e non sarebbe stato il primo a finire così miseramente, o gloriosamente, a seconda dei punti di vista. Questo avrebbe spiegato facilmente anche il fatto dell’acqua e del bicchiere. Intorno al viso di Sgroi, Rollo lo ricordava assai bene, c’era sul tappeto una macchia chiara, come d’acqua lasciata lentamente asciugare. E sul tavolino un bicchiere che conteneva apparentemente un fondo di semplice acqua. La donna misteriosa, spaventata, avrebbe potuto usare l’acqua per bagnare il volto dell’uomo sofferente, non osando chiedere aiuto per paura di uno scandalo, o di essere comunque coinvolta in un fatto tanto grave.

    Salsano aveva indagato con cautela nel mondo delle professioniste, ma la faccenda era così delicata e così nota che non riuscì ad ottenere nessuna informazione. Era comunque possibile che Sgroi avesse deciso di passare una serata con una compagnia non troppo impegnativa.

    In conclusione, tutti davano per scontato che si trattasse di una morte per cause naturali avvenuta in circostanze un po’ speciali, e quello che si cercava era una povera disgraziata capitata, per dovere professionale o per una segreta passione, in un guaio più grosso di lei, e dal quale sarebbe uscita con l’accusa di omissione di soccorso, o qualcosa del genere. Tutto sembrava rispondere ad una certa logica, e il paese intero si era scatenato alle ricerca del nome dell’amante misteriosa.

    Rollo non era convinto. Non riusciva a persuadersi che Sgroi avesse incontrato una donna quella sera. E non per un problema di moralità o, diciamo così, di stile. E poi, non c’è come la moralità e lo stile che si dimenticano in certe situazioni private. No, era una questione di sensazioni.

    Non c’era, in quel salone, niente dell’atmosfera, della situazione di un incontro amoroso, per quanto particolare e magari mercenario.

    Pensava Rollo che qualsiasi incontro erotico, per quanto banale, rappresenti tuttavia un momento memorabile nella vita di un uomo, e venga pertanto vissuto con un coinvolgimento assai raro nelle comuni faccende dell’esistenza, tale da renderlo un avvenimento speciale in sé. Perciò in questa situazione ognuno cerca in qualche modo di rendere la realtà il più possibile simile alla fantasia; il casuale e l’ordinario il più possibile conformi ad una certa idea astratta di compiutezza e di perfezione dell’attimo. Per la poca ma significativa esperienza che Rollo poteva considerare di sé medesimo, era un atteggiamento inconscio e inevitabile, che poteva concretizzarsi in meticolosi, ansiosi e febbrili preparativi come in semplici piccoli gesti. Ma tuttavia quell’aria si doveva pur sentire.

    Tutto questo Salsano non aveva neppure provato a capirlo. Mancava qualcosa? C’era qualcosa di troppo? Sì e no, niente di fondamentale, niente che potesse dare una certezza. Era tutto troppo freddo, troppo in ordine e nello stesso tempo troppo lasciato al caso. Era come se Sgroi si fosse trovato lì per combinazione, per fare una qualunque altra cosa. Eppure era morto lì. Nudo come un verme.

    La moglie di qualcuno era in casa. Appoggiate al davanzale della finestra, lenzuola bianche ricamate svolazzavano alla brezza tiepida.

    Rollo aveva notificato quel che c’era da notificare ed era stato invitato a prendere un caffè. La signora aveva evidentemente l’abitudine di concedersi una piccola pausa tra i lavori domestici. Dalla cucina giungevano la musica della radio e un aroma inconfondibile. Rollo, con cortesia, rifiutò; si sentiva un po’ in imbarazzo, e gli pareva inoltre di intromettersi in un momento particolare, un piccolo rito di ristoro e di libertà. Gli sembrava di vederla, la moglie di qualcuno, che si sedeva al tavolo con un sospiro di stanchezza, di noia e di soddisfazione, e mescolava a lungo lo zucchero nella tazzina, allungando gli attimi dell’attesa e canticchiando col cucchiaino sulle labbra, mentre la testa da sola le andava su mille cose disparate, dalla carne per il pranzo alla camicia da stirare, dalle ultime vacanze a vecchi ricordi piacevoli e struggenti, fino a ritrovarsi davanti a qualche antica domanda senza risposta. Allora smetteva di rimescolare la tazzina, alzava il volume della radio, ascoltava la musica e lasciava che il caldo dolce del caffè gli scivolasse giù giù nella gola.

    Aveva rifiutato, Rollo, e aveva fatto bene. Ma gli era rimasta la voglia del caffè, di quell’aroma nero e bollente. Pedalò deciso verso il Bar dello Sport.

    In pianura aveva ancora una bella pedalata sciolta e potente; se solo in Comune avessero pensato di comprare una bicicletta con il cambio. Rollo si sentiva di spingere agevolmente un cinquantaduepertredici. In salita magari no, ma in pianura avrebbe potuto non sfigurare insieme a quei gregarioni nordici di Merckx. Bella storia, noi a portarlo in carrozza fino ai piedi della salita, centocinquanta chilometri a cinquanta all’ora, senza mai tirare il fiato. E poi tocca a lui. Però, quando parte, parte. Come direbbe Giannibrera, cappello.

    Con questi pensieri proiettati nella mente, Rollo aumentava progressivamente intensità e frequenza delle pedalate, tanto che si trovò in un attimo in piazza Nuova, stabilendo en passant il record locale del chilometro lanciato per vigili in uniforme e bici senza cambio, primato assolutamente teorico ma destinato comunque a durare per molti anni.

    Non sapeva neppure lui perché aveva guardato dentro il vecchio olmo, quella domenica mattina. Aveva detto a tutti che era stato un caso, ma la cosa in realtà era diversa. Era come se avesse saputo che c’era qualcosa lì dentro, qualcosa di importante e di triste, di cui aveva avvertito nitidamente la presenza.

    Aveva pensato che fosse una nostalgia dei suoi vecchi giochi d’infanzia, e si era arrampicato con una certa gioiosa riluttanza sui primi rami dell’olmo. Aveva guardato, inutilmente, nell’anfratto. Non c’era nulla da fare, sapeva bene che era necessario calarsi per intero nel vuoto dell’albero.

    Per quanto si ricordava, il tronco cavo era ampio, comodo, una vera caverna da favola dei fratelli Grimm, dove si poteva stare comodamente seduti. Era diventato inspiegabilmente, con il passare degli anni, un bugigattolo stretto e infernale. Rollo aveva visto chiaramente sul fondo quell’anonima busta di plastica bianca, e un qualcosa di scuro e sottile spuntare dai bordi. Ma quella trappola lignea rinchiudeva così millimetricamente il suo corpo tutt’altro che adolescenziale, che non gli restava neppure lo spazio per piegarsi nel recupero. Con un calcio era riuscito ad avvicinare l’oggetto, che aveva dato un rumore metallico, e uscendo per metà dall’involucro aveva preso nella penombra il vago aspetto d’una mezza pistola.

    Nonostante quella specie di iniziale premonizione, Rollo si era con pragmatico ottimismo convinto che non si trattasse che d’un giocattolo dimenticato, ma aveva voluto comunque, per puntiglio, recuperarlo. Aveva piegato le ginocchia, e rimanendo parallelo alle pareti del tronco, aveva allungato il più possibile le braccia, mentre sentiva il giro vita che forzava sempre di più tra gli arborei spuntoni nodosi. Quando, penosamente, le sue dita erano riuscite a raggiungere l’oggetto agognato, Rollo aveva avuto la netta, precisa sensazione, d’essersi incastrato perfettamente ed eternamente nell’interno del vecchio olmo. Non c’era più alcun movimento che gli fosse possibile fare, tranne un affannoso respiro. Era stato preso da un comprensibile panico claustrofobico, amplificato dal pensiero oltraggioso di dover proprio lui, il vigile, chiedere aiuto a squarciagola al primo passante. Una storia di cui il paese intero avrebbe riso fino all’età della sua pensione, e oltre. Questa terrificante ipotesi gli aveva ridato l’energia della disperazione. Dimentico dell’oggetto appena recuperato s’era slanciato brutalmente verso l’alto, sgretolando diversi centimetri della parete del tronco e strappando in più punti la divisa (quella buona, della domenica), mentre il giocattolo che teneva tra le dita veniva sbatacchiato di qua e di là con violenza. Solo quando si era trovato fuori, con i piedi saldi sull’asfalto della piazza e un bel po’ di spazio libero intorno, aveva osservato meglio il balocco.

    Le sue gambe erano diventate d’una immediata e incontrollabile lassità, quando s’era reso conto che si trattava d’una pistola vera e perfettamente conservata, e aveva ripensato a come l’aveva maneggiata durante il recupero. Non aveva avuto il coraggio di guardare se c’era il colpo in canna, ed era rimasto con l’idea inquietante di essere vivo per miracolo finché Salsano non gli aveva confermato e riconfermato che la Beretta era funzionante ma assolutamente scarica.

    La piazza era deserta, luminosa e assolata come quella mattina. Rollo girò lentamente tutt’intorno all’albero, per vedere se risentisse quella specie di richiamo, ma tutto rimase silenzioso e normale, l’olmo rimase un vecchio olmo, e l’aria tranquilla come sempre. Meglio così, pensò; per quanto mi riguarda, se anche ci fosse una mitragliatrice, adesso potrebbe pure rimanere lì.

    Meglio così, in fondo meglio così. Se non era niente, se era un ferrovecchio buttato via da un manovale della mala di passaggio in paese, se non significava niente, se non c’entrava col fatto di Sgroi. Eppure, non riusciva a immaginare un foresto gettare una cosa qualunque nel vecchio olmo. Era un gesto, un segreto che si imparava da piccoli e che non si dimenticava, qualcosa che poteva distinguere la gente di lì, quelli che avevano giocato coi pantaloni corti nei vicoli e nei prati attorno a piazza Nuova. Meglio così, se non era una storia del paese.

    Entrò nel viale deserto, dove i tigli fioriti formavano una galleria profumata e ombrosa. Rollo lasciò che la bici corresse da sé e respirò a pieni polmoni quell’aroma dolce d’inizio estate, mentre in tutto il suo essere si accalcavano come lampi di memoria, evocati con tutta la loro corporeità, i giochi dell’infanzia, le lunghe vuote serate dell’adolescenza, i baci e il desiderio delle notti della giovinezza, le passeggiate pensose della maturità; tutto nel tempo inerte tra una pedalata e l’altra, come una madeleinette odorosa di ricordi malinconici e gioiosi. Rollo trovava a fatica parole per dire cose difficili, ma pensava se non era questo l’essere veramente di un posto, quello di averci la vita riflessa in un solo profumo.

    Sulla destra, la cancellata dipinta di bianco chiudeva il parco antico di Villa Erica, la casa di Sgroi, la dimora della più ricca e forse più antica famiglia del paese. Il parco ben curato e sempre deserto, e la casa riservata solo a pochi amici sicuri.

    Nell’angolo, immobile, lo sguardo fisso come una vedetta, Rollo vide la figura straordinaria e famigliare di Lioneliofante.

    Lioneliofante era il matto del paese. Vagava per le strade del borgo e per le colline, riparandosi come poteva, mangiando di quel che trovava senza chiedere e senza elemosinare, con un suo personale principio di libertà e dignità. Tutti in paese lo consideravano un personaggio folcloristico ed innocuo, tutti lo conoscevano, lo salutavano, gli dicevano qualche parola, per quanto fosse assai difficile entrare nel suo universo mentale. Andava in giro gridando frasi bizzarre, nelle quali si mescolavano parole di senso compiuto, citazioni latine, termini del dialetto, nessi sintattici improbabili, frammenti di un linguaggio del tutto incomprensibile e barlumi di profonde verità, il tutto intercalato dal consueto refrain: Il lione… il liofante… il serpente a sonagli!.

    Lioneliofante, quando ancora viveva nel mondo di tutti e ancora lo chiamavano Sauro, era stato una delle più feroci camicie nere della zona. Era scampato al disa-stro della Repubblica di Salò e in qualche modo era tornato in paese. All’indomani del 25 aprile qualcuno aveva pensato di dover pareggiare dei conti. L’avevano preso, minacciato di fucilazione e poi pestato con violenza. Doveva essere una lezione, ma quel momento aveva segnato per sempre la sua mente.

    Il lione era Dante, comunista e condannato dal tribunale speciale, evaso e fuggito in montagna, comandante partigiano. Aveva avuto un braccio trapassato da una raffica di mitra, aveva rischiato l’assideramento nel rastrellamento dell’inverno del ’44. Il 25 aprile del 1945, con i capi delle divisioni impegnati a guidare la discesa verso le città, Dante aveva ricevuto la resa del presidio tedesco dell’intera valle. Si erano incontrati in una trattoria, sul labile confine del momento, e avevano siglato l’intesa su un foglio di quaderno a quadretti. Dante aveva firmato per l’esercito di liberazione con il solo nome di battaglia. Firmato: Ultimo. Neppure per un attimo gli era passato il pensiero che stava facendo un pezzo di storia.

    Nessuno poté mai più spiegarglielo, ma Lioneliofante doveva a lui quel barlume di vita che gli rimaneva. Dante era contrario alle rappresaglie, e solo per la sua autorità quella fucilazione era stata solo una finzione; e portò poi in sé una pena profonda per quella follia, fino a quando la morte aveva dissolto nel fiume dell’inesistenza il senno e la pazzia, il prima e il dopo, il torto e le ragioni.

    Il liofante era Gianni dei Rocchi, detto Ercole, un uomo grande e robusto, con una forza addosso come ce n’erano stati pochi nella valle. Rollo l’aveva visto ancora poco tempo prima, e non era più un ragazzino, alzare di peso l’ottoecinquanta per evitare la noia di una manovra. Ercole aveva avuto un fratello, un ragazzo di diciotto anni, ammazzato dai neri agli Abèghi. Aveva ascoltato i discorsi di Dante, quando questi gli ripeteva che uccidere altra gente non gli avrebbe restituito il fratello, aveva ascoltato ed era d’accordo; neppure era, come indole, un tipo violento o crudele, ma certo, se del caso, aveva le mani pesanti. Non parlò mai più di quella

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