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La danza delle cellule immortali
La danza delle cellule immortali
La danza delle cellule immortali
E-book180 pagine

La danza delle cellule immortali

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Info su questo ebook

In una Venezia invernale, ricca di suggestioni e misteri, Marta Manin, medico e ricercatrice presso un immaginario Centro di Tecnologie di Genova, è alla ricerca di sé stessa. Trova invece inquietanti maschere, ombre che sembrano osservarla e turbano la sua coscienza, mettendo in dubbio il suo operato professionale. Ritrova anche il primo amore, l'affascinante e misterioso Marco, professore di medicina all'università di Padova, e ne è irresistibilmente attratta.
Al centro del noir si collocano le colture di cellule staminali dei tumori, di cui Marta si occupa con le sue ricerche. Come elementi viventi che si propagano indefinitamente, queste cellule prelevate dai pazienti restano immortali depositarie dei segreti del loro cancro.
Misteriosi personaggi mascherati, ombre nel carnevale, cercano di dissuaderla dal coltivare le cellule staminali.
Giallo, ossessione e amore si intrecciano e Marta non sa più cos'è vero e cos'è illusione. Tra suggestioni, oscure minacce, passione e intrighi, l'enigma legato alle cellule immortali costringerà Marta a un precipitoso ritorno presso il Centro di Tecnologie ligure, dove la scienziata si troverà di fronte a una drammatica scelta.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2012
ISBN9788875637989
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    Anteprima del libro

    La danza delle cellule immortali - Albini Adriana

    Prologo

    IL CORPO TRASPARENTE

    Mi trovavo, giorni fa, nei padiglioni delle Biotecnologie Avanzate da pochi anni costruiti in cima allo smisurato parco dov’è disseminato l’ospedale di San Martino di Genova, a parlare di cancro con Adriana Albini, figlia del grande ellenista Umberto, oggi direttrice del laboratorio di Oncologia Molecolare: stava preparando l’importante giornata genovese del 20 novembre, data di questo breve scritto (molto di più l’argomento richiederebbe) su Il corpo trasparente titolo un po’ alla Wells che annuncia un’ incredibile novità nella ricerca che mi aveva attirato e mi dispiace non poter essere presente all’incontro in Palazzo Ducale, dove sotto la presidenza di Veronesi è protagonista Ehud Shapiro, matematico presso il famoso Istituto Weizmann di Rehovot in Israele.

    È molto probabile però che, tolto il linguaggio di qualche diapositiva, di questo Corpo Trasparente capirei pochissimo. La scienza non pensa, sentenzia Heidegger, e la ricerca sul cancro è la branca che ha meno tempo e volontà per accompagnarsi con il pensare. È impegnata in una lotta senza respiro che non consente la riflessione. Ma il mio lavoro umilmente filosofico è di pensare il cancro nella sua relazione col principio d’individuazione e in generale col destino umano, con la patologia del nostro essere al mondo – il cancro come capitale evento epidemico della stessa civiltà che sta facendo enormi sforzi per eliminarlo (direi manu militari, come un nemico assoluto) e nello stesso tempo è infinitamente responsabile della sua crescita, della sua diffusione, della sua incurabilità ambientale e spirituale: una tragedia dell’uomo e della sua fatica di sottrarsi alla morte mangiando vita a costo di distruggerla. Pensare il cancro è oggi pensare l’uomo, e pensare l’uomo è un mestiere duro.

    L’uomo si sa è mortale: la cellula cancerosa no. È una immortalità relativa eppure spettacolare, spiega Adriana Albini, in quanto le cellule originarie possono riprodursi senza fine e nel dividersi raggiungono densità elevatissime. Ah eccole là: sugli schermi del laboratorio vedo passare strane visioni di deserti popolati da insetti e di planimetrie di città moderna da alta quota, visioni di città del terzo scomparto dei trittici di Bosch, visioni di paesi dove l’aggressione è continua e il delitto cacciato da un luogo ricompare infallibilmente da un altro. E Questo-Sei Tu ripete l’Upanishad. Quelle povere cellule colorate di lutto dai ricercatori, ingrandite sul video come grani di caffè arabico, le immagino afflitte per la loro immortalità, se non gli arriva a tempo il veleno giusto o la radiazione. La ricerca asimoviana di Shapiro mira a questo: a fare irrorare di una goccia infinitesima di veleno la cellula che ha appena cominciato a dividersi parossisticamente, adoperando l’invisibile pungiglione di un robot biochimico iniettato nel sangue dove l’aggressione è ancora inavvertita e impossibile da stanare, e questo strumento matematico di segnalazione e di contrattacco è chiamato, in gergo, nanocomputer, il cui uso pratico in clinica medica per ora non è che ipotetico. Nel frattempo l’ambiente inquinato in cui siamo tutti quanti immersi seguiterà a generare tumori all’impazzata e il corpo, nonostante tutto, a essere pochissimo trasparente, opporre il suo silenzio di remota stella tribolata alla sterminata folla di occhi che lo spiano.

    Guido Ceronetti, Lanterna Rossa, La Stampa

    Parte prima

    DA GENOVA A VENEZIA

    Dovevo farlo. Quelli che non seppelliamo

    errano eternamente senza mai trovar riposo.

    Se mio fratello, quello ancor vivo,

    fosse rientrato stanco da una lunga caccia,

    gli avrei tolto i calzari, gli avrei dato da mangiare,

    gli avrei apprestato il letto...

    Polinice oggi ha concluso la sua caccia.

    Rientra a casa dove mio padre, mia madre ed

    Eteocle stesso l’aspettano.

    Ha diritto al riposo.

    Jean Anouilh, Antigone

    L’inverno genovese non era freddo, ma assai ventoso. In quel giovedì di febbraio mi spingeva verso la stazione come fossi una vela spiegata. La strada che portava ai binari era in discesa, una viuzza di mattoni rossi, alcuni consunti, altri sporgenti; da farsi di corsa, ogni volta, e rigorosamente con i tacchi bassi. La valigia non pesava molto, quello che pesavano erano i pensieri, da settimane ormai non riuscivo a scrollarmi di dosso un senso d’incertezza e d’insofferenza.

    Quasi quarant’anni, ufficialmente single, non un vero marito ma un compagno di lunga data, niente figli, mi avvicinavo solo a quelli delle amiche, per accarezzarli, con tenerezza e, forse, invidia. Niente carriera, da dieci anni sempre lo stesso incarico. Ero patologa presso l’Istituto dove il Dottor Daniele Grandi, il mio fidanzato, svolgeva la professione di chirurgo. Era sembrato un brillante inizio, invece forse era già la fine. La scienza, la medicina, la convivenza: tutto perfetto. Eppure l’angoscia più che la speranza abitava le mie stanze. C’era qualcosa, dentro, che mi tormentava.

    Il tempo delle riflessioni non c’era mai stato, con gli impegni che incombevano da mattina a sera, i giorni passavano ed io non trovavo le risposte.

    Alla vigilia dei miei quarant’anni, sentivo che era arrivato il momento di pensare, di concedermi qualche giornata in compagnia della mia anima, nello scenario che da sempre mi aveva fatta sentire me stessa, la laguna. Sarei fuggita per un’intera settimana – la settimana di carnevale – una gioia turbata solo dalla sensazione che l’andarmene in ferie fosse quasi un crimine. Era da tempo che ci pensavo, in laboratorio e in corsia, avrei passato il carnevale a Venezia, nell’antica casa della nonna paterna, tra nebbie invernali e suggestioni. Non era stato facile convincere me stessa a questa fuga. Non me ne andavo mai, se non a ferragosto, e anche allora solo perché l’intera area delle colture cellulari, di cui mi occupavo personalmente, veniva chiusa. Ma l’esigenza di ritrovare me stessa aveva avuto il sopravvento. Quel giovedì avevo finito tardi al lavoro ed ero particolarmente stanca. Lasciai un breve messaggio di spiegazioni a Daniele, che era fuori Genova fino al mattino dopo. Preferivo non telefonargli, per paura che mi potesse dissuadere.

    Acquistai il biglietto e salii sul treno che si era fermato al binario col prevedibile ritardo di dieci minuti. Mi ero concessa la prima classe: ancora una trasgressione, da aggiungere alla fuga. Non volevo udire alcuna conversazione, ma solo la voce di me stessa, quel borbottio interno che era iniziato mesi, forse anni prima, e che non mi ero mai presa la briga di ascoltare. A quell’ora i pendolari del lavoro e dello studio erano già rientrati a casa: la popolazione che frequenta i treni dopo le nove di sera è assai più varia e colorata. Gettai il giornale sul posto vicino al mio, rimasto fortunatamente vuoto. Avevo avuto il sospetto, mentre acquistavo quel fascio di carta, che per gran parte del viaggio non avrei provato il desiderio di aprirlo. Appoggiai il capo allo schienale e socchiusi le palpebre. Stavamo attraversando la periferia semi-industriale di Genova, un panorama di luci e vapori che non tenevo affatto a contemplare. Un refolo gelido di tanto in tanto mi colpiva il viso. Altri passeggeri aprivano e chiudevano la porta d’accesso allo scompartimento. I finestrini del corridoio erano abbassati, qualcuno strillava qualcosa a un cellulare. In altre occasioni mi sarei lamentata del freddo, invece in quel momento lo gradivo.

    Dopo il cambio di treno a Milano lasciai vagare il pensiero alla mia vita, fino ad arrivare al capolinea. Venezia era un’isola che sprofondava, ma il processo era molto più lento che per i miei pensieri. Durava già da un millennio e mi auguravo che almeno un altro millennio fosse necessario alla totale scomparsa della Serenissima. Desideravo che i figli dei figli dei miei figli potessero trovare nelle sue calli e nei suoi campielli le risposte che io continuavo a cercare. Sempre che io avessi mai avuto figli: l’orologio biologico spostava rapidamente le sue lancette verso una situazione di improbabilità.

    A locomotiva ferma, saltata giù dal predellino, corsi attraverso l’atrio lucido e scesi i gradini di fronte alla stazione a due a due. La valigia era quasi vuota. Avrei provveduto a riempirla girando alcune delle mie boutiques e calzolerie preferite; qualcosa che a Genova non avevo mai la voglia o il tempo di fare. Mi fermai a pochi passi dalla riva. Ascoltai il tranquillo sciaguattio del pontile sull’acqua. Nella tarda nottata non vi erano molti altri rumori. Nessun motore acceso, nessuna folla di turisti, ciarlatani e pendolari. Ero sola con Venezia, almeno per qualche minuto. Guardai l’orario del vaporetto, poi quello del motoscafo. Dovevo aspettare parecchio. Prima delle cinque di mattina il traffico lagunare era piuttosto rado. L’aria era particolarmente umida. Entrai nel pontile con un paio di altri passeggeri. Mi parve che vi fosse troppa luce all’interno, turbava la quiete dell’ora. Afferrai la valigia e uscii; sedetti con le gambe penzoloni sulla pietra della riva del canale. I miei occhi fissavano l’acqua. Non vi è nulla di più nero della nera laguna quando nulla vi si specchia. Non vi è nulla di più nero di quell’acqua appena increspata; tranne, quella sera, la mia disposizione d’animo.

    Udii il vaporetto arrivare prima ancora di vederlo. Accostò lentamente all’approdo: potevo muovermi con calma senza rischiare di perderlo. Tutto era a rallentatore e volevo adeguarmi a quel ritmo. Respirai profondamente l’umido salmastro e marcio che esalava dal canale: l’odore della biologia e della storia mescolati insieme come un’essenza d’autore, un vero balsamo per i polmoni e per il cuore.

    Avrei compiuto quarant’anni nel giro di pochi giorni e, forse, prima di allora avrei capito chi ero.

    I pazienti di Daniele arrivavano alla comprensione della loro essenza proprio all’avvicinarsi dell’intervento. Al loro ingresso in ospedale si trovavano costretti a pensare: una cosa che qualunque adulto del mondo occidentale sa che è meglio evitare.

    Si rendevano conto che la loro vita era in gioco. Molti malati, analizzando la propria esistenza scoprono che, giorno dopo giorno, ogni cosa si è svolta loro malgrado.

    Salita sul vaporetto mi sedetti fuori nonostante il freddo invernale. Il viaggio lungo il tortuoso canal grande era assai lento, la casa di mia nonna si trovava all’ultima fermata prima del Lido, l’isola di Sant’Elena, nota soprattutto perché ospita lo stadio di calcio e il diporto velico. Risparmiata dai turisti se non per i pochi che alloggiano all’albergo che si è insediato nel vecchio collegio delle suore.

    Sbarcai assonnata e con l’anima già in parte sganciata dalle catene del mio mestiere e di me stessa. L’appartamento era lungo la riva, appena incorniciato dagli alti alberi del viale.

    Varcai il portone di ingresso di casa Manin, nel sestriere di Castello, che erano quasi le sei del mattino. Ero sola, più sola che mai. Mi aspettavano tre piani di scale senza ascensore. Feci le prime due rampe velocemente, poi rallentai, neanche io ero più una ragazzina. Certo, il problema era proprio tutto lì.

    La nonna mi aveva lasciato le chiavi sotto lo stoino. Sicura com’era che nessun malintenzionato le avrebbe trovate, forse neppure cercate. Era andata via per qualche giorno con le amiche, al carnevale di Viareggio.

    Aprii con lentezza ed entrai nell’atrio dell’appartamento con la consueta emozione. Tutto profumava di antico. Non tutto, per fortuna: sul tavolo di cucina trovai una scatola con dei biscotti fatti in casa e un biglietto: Trattati bene e abbi cura di te. La Nonna. Ecco, come sempre, mi sentivo a casa.

    Appoggiai la borsa e feci il solito giro per le stanze, a cercare le memorie di un’infanzia lontanissima e di un’adolescenza sepolta nella mancanza di tempo per i ricordi.

    A spezzare la magia del trip suonò il telefono. Risposi, anche se non ero a casa mia; me lo sentivo che era per me. Ed infatti la voce seccata di Daniele mi apostrofò: Sono appena rientrato e ho letto il tuo biglietto pausa d’effetto non avrei mai creduto che te ne saresti andata davvero!.

    Tu non hai mai bisogno di una vacanza? risposi ribellandomi al rimprovero.

    Certo, è un po’ che ne accenni, ma non ricordi che oggi avevamo appuntamento con la divisione di dermatologia, il gruppo di Giacomo Forti, per le nostre collaborazioni con le colture cellulari, e tu invece... parti senza telefonarmi, tieni il cellulare spento e mi lasci solo due righe su un foglietto che vai a casa di tua nonna: sei la solita stravagante!. A questo punto il tono burbero si fece bonario: Va bene, mi arrangerò da solo, tu goditi la vacanza, però ti prego, cerca di essere qui mercoledì, abbiamo un intervento importante.

    Neppure una settimana mi era concessa. Sospirai: Farò il possibile ma tu... volevo dire: ‘Cerca di rimandarlo, l’intervento’, ma preferii non proseguire. Non ero così egoista, dopo tutto. Niente, solo ciao e scusa. Abbassai il ricevitore, senza aggiungere altro.

    Lavoro, lavoro, sempre lavoro. Daniele non pensava ad altro e non voleva che io pensassi ad altro. Ero sicura che si fosse dimenticato che quel mercoledì, in cui mi voleva indietro a tutti costi, sarebbe stato, oltre a mercoledì delle ceneri, proprio il giorno del mio compleanno.

    La ventata d’energia che m’aveva portata fino alla grande casa

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