Cibo libero.
QUANDO ENTRAI in un carcere la prima volta, qualche anno fa, la cosa che mi colpì di più fu il silenzio. Sebbene fosse immerso in una città trafficata e rumorosa, oltre le mura alte con il filo spinato sembrava che ogni suono fosse annullato, sospeso. Capii che era il primo strano segnale di un ingresso in una dimensione parallela, altra, a tratti surreale e davvero difficile.
Il luogo che banalmente avevo associato da sempre alla sofferenza, alle grida e alla punizione, adesso mi accoglieva invece con il silenzio quasi sacrale di un monastero avvolto dal nulla.
Quel primo giorno a Rebibbia, i bracci del blocco femminile mi parvero addirittura belli, quasi pacifici, vista la calma. Coinvolta da Adelaide, una cara amica di famiglia, volontaria dentro la Casa circondariale da oltre 60 anni, ero approdata dentro uno dei penitenziari più grandi d’Italia,
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