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Happy new ear

a latitudine e longitudine, orientiamoci su ulteriori coordinate seguendo le suggestioni delle “many dimensions” che Mr Abbott Abbott invitava a prendere e comprendere. Potremmo naturalmente prendere in considerazione l’altitudine, per esempio: miscela ossigeno e adrenalina, ambiti e ambizioni. O la quota dell’elevazione, una misura spesso più utile (soprattutto quando il mare è lontano) ma un po’ meno in voga. Rimarremmo tuttavia sui battuti crinali tra geometrie e geografia, alternando luoghi comuni, letteralmente. E perdendoci comunque lo spaesamento di altri fusi, confini e tropici: quelli sonori. Dalla trigonometria agli hertz e ai logaritmi dei decibel, passando per le sirene di ogni esotico in divenire, il passo èdi Brian Eno, per ragionevole e ragionata convenzione il ti con zero della musica ambient. E a proposito di radici, di loop (e dunque di ricorsi e di rincorse), ambiente deriva da amb-ire: un invito ad andare intorno: around suona meglio, my apologies (di rito) ai puristi dell’autarchia linguistica del prima l’italiano. L’altra rivelazione l’ho vissuta una decina d’anni fa in Minnesota, un tour segnato dal tema del doppio e dunque in qualche modo stereofonico. Intrinsecamente Stati Uniti ma col Canada alle porte, l’immigrazione più antica dalla Scandinavia e poi dalla Mongolia, due capitali – Minneapolis e la gemella diversa Saint Paul – e il ticket folletto + menestrello Prince-Dylan. M’ero ritagliato una giornata per conoscere Steve Orfield, un appassionato esperto di sound design e architettura, e provare l’esperienza di sound deprivation nella sua camera anecoica, il posto “più silenzioso” del pianeta. Com’è andata? Più o meno, durata complessiva inclusa, come dopo una raffica di dieci esecuzioni identiche del brano di John Cage: un concerto per un solo spettatore, in una stanza tutta foderata di pannelli acustici ad annichilire riverberi, una rete al posto del pavimento (sospesa su un’altra superficie fonoassorbente). A separarmi dal mondo soltanto una porta che starebbe bene anche in un caveau. Cos’altro in mezzo, tra Tevere e Mississippi? Un esercito di trombe a Guča, i muezzin a Seiyun, il guscio asciutto della Gewandhaus di Lipsia insieme a Riccardo Chailly, all’epoca Kapellmeister. E poi tre accordi con la chitarra di Giuseppe Mazzini a Genova, il campanello dei panettieri in bici a Suchitoto e il richiamo, qualche tempo dopo, che annuncia lo sfincione a Palermo: Pavlov e Proust a braccetto. Sfogliando la partitura a ritroso ognuno può costruirsi un intimissimo podcast centripeto oppure una playlist da condividere. Nella mia trovo anche l’agghiacciante scricchiolio sotto alla superficie ghiacciata di Songsvann, un lago nella foresta intorno a Oslo in cui ho vissuto per un po’: l’ho sentito probabilmente solo io e probabilmente (bis) non c’è mai stato. Idem, forse, con lo starnuto delle vuvuzela, sono ancora persuaso di averle udite contribuire al baccano dagli spalti dello stadio di Bamako, ben prima dei Mondiali di calcio in Sudafrica. Il bello è che certi miraggi acustici rimangono tali, non è come con le foto: zero selfie a smentirli. E pensare che sono proprio le immagini ad essere più manipolabili, non da oggi e su scala sempre più ampia. Uno scatto venuto male si recupera, idem per una sequenza di fotogrammi di un breve video. Con l’audio è più difficile, ogni “take” va preso – appunto – com’è. E allora riprendiamocelo, facciamoci caso, imponiamoci ogni tanto una sorta di “look right” in surround come sulle strade di Londra. È un suggerimento e un monito che, a pensarci bene, potrebbe significare altro: right come avverbio, modalità. Avete mai provato TikTok in mute (con buona pace del povero gabbiano)? O a godervi un documentario naturalistico degli anni Ottanta senza il corredo di effetti e ambientazioni sonore? Come coltivare l’originalità del muoversi con nuova consapevolezza acustica? Leggere a voce alta insegne, cartelli e targhe. Immergersi in mercati e stazioni come ogni viaggiatore in modalità antropologo in divenire. Ma anche in altre coralità, come quelle degli stadi in giro per il mondo: s’impara un po’ di slang (poco utilizzabile, va detto) e si assaggia del buon street food. La vera rivoluzione va tuttavia cercata fuori dai contesti urbani, per non rischiare di avvitarsi in una contemplazione enciclopedica alla Lisbon Story. Puntate alle foreste, iniziando magari dagli abeti di Paneveggio, in Trentino: ad ognuno la propria risonanza. Imparate ad ascoltare l’acqua che sgorga tra le rocce o che distilla prudente su una corteccia, la gamma armonica dei passi, il suono fermo di un animale in movimento, il brusio di chissà cosa/chi. Vi servirà anche in altre giungle, meno verdi. Una volta consegnate queste righe m’incammino al Belvedere di Anita e Giuseppe: due personaggi che ambivano, in tutti i sensi.

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