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I fuochi di Sant'Elmo
I fuochi di Sant'Elmo
I fuochi di Sant'Elmo
E-book148 pagine1 ora

I fuochi di Sant'Elmo

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Info su questo ebook


Emanuele è cresciuto a Perugia, realtà provinciale in cui l'eco del Sessantotto è riuscito a varcare le mura cittadine, dilagando tra i più giovani. L'impeto dei nuovi ideali si confronta quotidianamente con uno scenario che, però, appare difficile da cambiare. Tuttavia la sua vita viene scossa da un episodio drammatico, che sconvolge quell'ordine famigliare da lui sempre sopportato con insofferenza. Decide di lasciarsi tutto alle spalle e di darsi alcune regole per essere sicuro di poter chiudere col passato. Impara a conoscere il mare, a vivere cavalcando l'onda delle proprie sensazioni e quelle degli altri, intraprendendo un lungo viaggio che ha come prima meta l'Inghilterra. L'incontro con persone fuori dal comune sarà l'unica bussola in un percorso che lo porta a crescere come uomo; la risposta ai suoi perché, in ogni tappa del suo cammino in giro per il mondo, si materializza in forme inattese e allo stesso tempo impossibili da ignorare.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2022
ISBN9788832815733
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    Anteprima del libro

    I fuochi di Sant'Elmo - caredda claudia

    Parte prima

    Intro

    La sentinella sul barbacane intravedeva le colline, nere e gelide, stendersi. La città era disegnata solo dalle poche fiaccole appese per i viottoli, qualche metro giù dalla sua postazione. Ammucchiati l’uno sull’altro, case e destini. E lei sopra, muta e impotente. Un dio inutile. Che strana questa città, pensò. Si fa scrutare, ma se la sfiori, è un corpo nervoso che ti chiede ‘chi sei tu, per toccarmi?’. Non sono proprio nessuno.

    Memorie di viaggio

    "D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie,

    ma la risposta che dà a una tua domanda".

    (Italo Calvino, Le città invisibili)

    I

    Il mio viaggio è iniziato dieci anni fa da una domanda caduta nel vuoto. Un silenzio avvinghiato a quella domanda è rotolato tra i viottoli scoscesi della mia città e li ha corrosi. Il senso di quel mondo racchiuso nella rocca della mia vita, monotona e regolare, è scomparso. Non ero certo che della mia desolazione interiore. Ero spogliato di qualsiasi pulsione all’attaccamento alla mia terra.

    Proprio in quella distesa arida dove un tempo sorgeva il colle con sopra la mia città e la mia normale quotidianità, ho dovuto piantare regole nuove, assurde, forse stupide:

    Regola 1: non avrei mai più domandato nulla. Domandato per sentire una risposta. Mettere in piedi frasi il cui tono terminasse con la richiesta di alcunché. Le domande sono mani tese a cogliere, sono aspettative già pronte a ricevere il contraccolpo.

    Regola 2: non sarei mai più tornato nello stesso posto dopo essere andato via. Tornare è decretare la vittoria della famiglia, è cercare una madre, è ripresentarsi al recinto del padre.

    Regola 3: avrei abitato in luoghi non arroccati, vicino al mare o comunque a uno spazio immenso dentro il quale poter respirare la lontananza. D’altronde Perugia era morta, corrosa dal silenzio rotolato sui suoi ciottoli.

    Ho iniziato un viaggio con i vestiti piegati nella borsa e queste tre regole stupide nella mia mente. Rispettarle mi avrebbe consentito di non piegarmi sotto i colpi delle ossessioni che mi lasciavo alle spalle. Partivo come un cavaliere inesistente, con un’armatura di fortuna appiccicata addosso solo dalla mia volontà di equilibrio. Mi sentivo splendido dentro questo mio nuovo, e per me necessario, compito. Non conoscevo nulla al di fuori della mia famiglia annientata, eppure, proprio per questo, già desideravo e assaporavo tutto il mondo che da lì in poi mi sarebbe venuto incontro.

    1972-74, Inghilterra (blu navy)

    I

    La prima meta del mio viaggio fu l’Inghilterra. Quella scelta era in parte dettata dal sogno recondito di un quasi-hippie italiano innamorato della cultura musicale british di quegli anni. Un’ispirazione banale, dovuta anche alla mia scarsa conoscenza del resto dell’universo fuori dalla mia piccola Italia. In realtà sarei voluto fuggire più lontano. Ma i soldi a disposizione non mi permettevano mete tanto esotiche e, soprattutto, dovevo imparare l’inglese. Se volevo davvero andare ovunque, dovevo imparare una lingua utile. Con lo spagnolo me la cavavo abbastanza. L’inglese riuscivo a capirlo solo se contestualizzato dentro gli spartiti. Per il resto, non me n’era mai importato un granché.

    Presi la corriera da Perugia a Roma, e da lì l’aereo – il mio primo aereo – che mi avrebbe portato a Londra.

    II

    Non restai a Londra per molto tempo: giusto un mese. Alloggiavo in un lurido ostello in King’s Cross, a un passo dalla metropolitana. La mattina mi svegliavo presto, tiravo fuori la mappa della città e depennavo la parte che avevo visitato il giorno prima. Sembravo un perfetto turista, con lo zaino in spalla e la cartina in mano, ma in realtà ero una sorta di parassita dell’indifferenza. Giungevo nei posti non per visitarli, ma solo per attraversare quei fitti banchi di gente che percorrevano la città, appiccicata a caso nel collage metropolitano. Non c’era cosa più purificatrice della luce fredda della metro, la mattina presto o la sera, quando i volti assonnati e stanchi dei pendolari rivelavano tutte le brutture dei visi umani. Si spiavano tra di loro senza reale interesse, consapevoli della sola finalità di quel viaggio, per niente avidi di parole, storie, calore. Assuefatti a quel carname difforme e variegato, restavano impassibili come di fronte a una propaganda poco convincente: erano totalmente indifferenti agli altri.

    Io spiavo e assorbivo con voluttà tutto quel vuoto.

    Catapultato dalla provincia più provincia d’Europa a quello che era considerato allora il centro dell’universo occidentale, desideravo solo l’opposto di ciò che avevo avuto fino a quell’istante. Desideravo che nessuno mi seguisse, che nessuno si preoccupasse, che nessuno pesasse la mia esistenza e calcolasse relazioni, fatti, cause, conseguenze.

    Potevo sbattere addosso alla gente e congedarla con un sorry, potevo farlo migliaia di volte al giorno e non restava traccia della mia colpa, della mia sbadataggine, del mio disequilibrio.

    Quell’inciampare sugli altri fu l’unico contatto umano che ebbi durante quel mese. Iniziai a farlo apposta, quasi come dessi dei pugni, per testare la reale indifferenza di quella coltre di gente. Ed essa mi rispondeva come mi aspettavo: senza risposta, o con un cenno della mano che era quasi una benedizione: Sì, vai, continua pure a sfogarti.

    L’ultimo giorno attraversai Oxford Street di corsa, sbattendo contro chiunque. Non chiedevo nemmeno più scusa e sulle mie guance scendeva una calda liberazione. Arrivato all’incrocio con Regent Street avevo il fiatone, sul volto un sorriso leggero. Il giorno dopo partii: percepivo che un giorno in più in quel vuoto metropolitano si sarebbe trasformato in desolazione.

    Mi recai alla Victoria Coach Station e presi la corriera per Southampton. Da lì avrei preso un traghetto per l’Isola di Wight.

    III

    Ancora più banale di scegliere l’Inghilterra come prima tappa del mio viaggio, fu scegliere l’Isola di Wight come meta successiva. Solo due anni prima, sulla scia dell’ultimo grande concerto rock nell’isola, era uscito in Italia il famoso singolo dei Dik Dik. Nonostante avessi sempre odiato quella canzone, il fascino che suscitava in me quel luogo in cui era passata la storia del rock, era innegabile. Inoltre, per quanto fosse una meta turistica, l’isola aveva una popolazione residente ridotta e grandi spazi verdi. In qualche modo avevo nostalgia e ricercavo il respiro della dimensione paesana che avevo lasciato un mese prima. E poi c’era il mare. Ed era verso il mare che la terza regola del mio personale codice mi imponeva di andare.

    Perugia è quella grande pietra iniziale poggiata sul fondo della mia prima vita. È una pietra chiusa in sé, preziosa e barricata. Tutto accade dentro. Non ha un via di fuga. Non ha – per così dire e perché così è – un mare. Se avesse il mare non sarebbe, paradossalmente, così infinita. E invece ci si passeggia per ore dentro, intorno, in cerchio, in un infinito fasullo che è solo perpetuare un gesto. È imperfetta, la mia città: non ha il mare. Non che a un ragazzo di collina manchi… io non ne avevo mai sentito la mancanza sino alla notte in cui avrebbe dovuto essere lì a salvarmi. Questione di mancata completezza sintattica del destino.

    IV

    Vissi sull’isola per due anni.

    Ripensandoci adesso, aver trascorso due anni dentro il perimetro di Wight, dal quale uscivo giusto per prendere un traghetto per andare a fare compere a Portsmouth, mi sembra un’eternità.

    Eppure, in quell’isola non molto più grande dell’Elba e popolata da inglesi pacati e distesi, trovai una dimensione consona al mio stato di necessità.

    Mi sistemai a Cowes, la cittadina che sorge nell’estremo nord dell’isola e che accoglie proprio i traghetti da Southampton. Era una piccola città portuale dai toni turistici. Viveva di mare, di regate e del mito rock. La sua High Street era un susseguirsi di negozietti che vendevano abbigliamento da vela, dischi, cartoline del memorabile concerto…

    Trovai lavoro in una caffetteria proprio nei pressi del porto, a un passo dall’attracco dei traghetti. Era una sorta di franchising di colazioni, con un nome italiano: Fra’ Puccino. In realtà di italiano faceva giusto l’espresso, ed era imbevibile: una sorta di brodaglia nera e bollente molto simile a quella distribuita dall’Alitalia sui suoi voli. Fortunatamente i muffin e i cookies erano buoni. Il proprietario, un omuncolo piuttosto basso per l’altezza media inglese e con la tirchieria stampata in faccia, aveva appeso un buffo cartello per la ricerca del personale: "Cercasi giovane banconiere per colazioni. Non donna perché è già la terza che resta incinta e mi molla". Quando mi vide entrare, con la barba poco curata e l’aria trasandata, e biascicando un inglese maccheronico di livello meno che base, alzò gli occhi al cielo. Nonostante ciò, il mio essere uomo e la mia italianità bastarono per convincerlo a concedermi un’opportunità.

    La prima cosa che mi chiese fu:

    «Com’è questo espresso?» mentre mi porgeva una tazzina fumante.

    Sogghignai e gli dissi:

    «Imbevibile».

    Mi guardò tra l’indignato e il rassegnato e replicò:

    «Questa cazzo di macchina è italiana, è come quelle che avete voi nei bar!».

    «Sì, ma la marca del caffè? Qual è?».

    «Ahh! Non rompere le palle, il caffè torrefatto in Italia è troppo costoso. Fai il possibile con quello che hai, entro domani, o sei fuori di qui!» tagliò corto congedandomi.

    L’indomani mattina arrivai al bar un’ora prima dell’apertura e mi misi a frugare quel grosso marchingegno per il caffè. Trovai il regolatore di temperatura e decisi di abbassarlo di qualche

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