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E-book251 pagine3 ore

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Edizione integrale

Il romanzo che ha ispirato 1984 di Orwell

Pubblicato per la prima volta nel 1924, ma bandito dalla censura sovietica fin dal 1921, questo potente romanzo è diventato il manifesto della letteratura distopica e a lui si sono liberamente ispirati autori come Aldous Huxley e George Orwell. Il protagonista è un ingegnere che si chiama D-503 (tutti gli individui hanno nomi composti da sole sigle), impegnato nella costruzione dell’Integrale, una colossale navicella spaziale destinata a esportare nel cosmo la gloria dello Stato Unico. Noi immagina un futuro in cui il libero arbitrio sia stato abolito e la società rigidamente controllata. Nello Stato Unico, inoltre, gli edifici sono interamente in vetro, in modo che la vita quotidiana dei cittadini possa essere costantemente controllata: la somiglianza con i temi di 1984 di George Orwell non è casuale, perché Orwell conosceva bene il libro di Zamjatin e si deve a lui la sua prima traduzione in inglese.
Evgenij Ivanovič Zamjatin
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2021
ISBN9788822759955
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    Anteprima del libro

    Noi - Evgenij Ivanovič Zamjatin

    Annotazione 1

    Sommario: Un annuncio. La più saggia delle linee. Una poesia

    Mi limito a trascrivere, parola per parola, quanto pubblicato questa mattina sul quotidiano di Stato:

    Di qui a centoventi giorni sarà completata la costruzione dell’Integrale. Si approssima il grande momento storico in cui il primo Integrale si librerà nello spazio sconfinato dell’universo. Mille anni fa i vostri eroici antenati sottomisero l’intero globo terrestre alla potenza dello Stato Unico. Oggi un’impresa ancor più gloriosa vi attende: l’integrazione dell’equazione indefinita del Cosmo tramite l’Integrale di vetro, elettrico, ignivomo. La vostra missione è di sottomettere al nobile giogo della ragione le sconosciute creature che vivono su altri pianeti, e che forse ancora si trovano nel primitivo stato di libertà. Se non capiranno che gli stiamo offrendo una felicità matematicamente impeccabile, il nostro dovere sarà di costringerli a essere felici. Ma prima di imbracciare le armi, proveremo con la forza delle parole.

    A nome del Benefattore, a tutte le Unità dello Stato Unico viene annunciato quanto segue:

    Chiunque se ne senta capace è tenuto a scrivere trattati, poesie, manifesti, odi e altre composizioni sulla grandezza e la bellezza dello Stato Unico.

    Questo sarà il primo carico trasportato dall’Integrale.

    Lunga vita allo Stato Unico! Lunga vita alle Unità!! Lunga vita al Benefattore!!!

    Mi sento avvampare le guance mentre scrivo. Integrare la mastodontica equazione dell’universo! Rettificare la curva selvaggia, raddrizzarla lungo la tangente, la retta! Poiché la linea dello Stato Unico è una retta, una grande linea divina, precisa, saggia, la più saggia delle linee!

    Io, D-503, costruttore dell’Integrale, sono solo uno dei tanti matematici dello Stato Unico. La mia penna, avvezza alle cifre, non è in grado di esprimere la scansione e il ritmo della consonanza, quindi mi limiterò ad annotare ciò che vedo, ciò che penso, o, volendo essere precisi, ciò che noi pensiamo. Sì, noi; è esattamente quello che intendevo, e Noi sarà, dunque, il titolo delle mie annotazioni. Ma ciò non potrà essere che una derivata della nostra vita, la vita matematicamente perfetta dello Stato Unico; e se così fosse, questa derivata non sarà essa stessa una poesia, nonostante le mie limitazioni? Lo sarà. Lo credo, lo so.

    Mi sento avvampare le guance mentre scrivo. Una sensazione simile a quella che deve provare una donna quando sente dentro di sé per la prima volta il battito di un piccolo, cieco, essere umano. Sono io, e allo stesso tempo non lo sono. E per molti lunghi mesi dovrò nutrirlo con la mia vita, con il mio sangue, e poi con un dolore al cuore, strapparmelo di dosso e deporlo ai piedi dello Stato Unico.

    Eppure sono pronto, come tutti, o quasi, sono pronto.

    Annotazione 2

    Sommario: Un balletto. Armonia quadrata. X

    Primavera. Da dietro la Barriera Verde, dalle pianure sconosciute, il vento trasporta il giallo polline melato dei fiori. Questa dolce polvere secca le labbra. Ci si passa sopra la lingua in continuazione. Probabilmente tutte le donne che incrocio per strada oggi (e certamente anche gli uomini) hanno le labbra dolci. Questo in un certo senso è d’ostacolo al pensiero logico.

    Ma che cielo! Azzurro. La sua limpidezza non è guastata da una sola nuvola. (Quanto doveva essere primitivo il gusto degli antichi se i loro poeti si lasciavano ispirare da questi cumuli di vapore insensati, informi, in stolida accozzaglia!) Io amo, sono sicuro non sia un errore affermare che amiamo, solo un cielo come questo: asettico e privo di difetti. In simili giornate l’intero universo sembra plasmato dello stesso vetro eterno, così come la Barriera Verde e tutti i nostri edifici. In simili giornate si riesce a vedere fino alla profondità più azzurra e remota delle cose. Si vedono le loro magnifiche equazioni, finora ignote. Le si vede in tutto, perfino nelle cose più ordinarie e quotidiane.

    Vi faccio un esempio: stamattina sono andato al cantiere dove stanno costruendo l’Integrale, e ho visto le apparecchiature: cieche, dimentiche di sé, le sfere dei regolatori giravano, le manovelle ondeggiavano da una parte all’altra luccicanti; il bilanciere dondolava fiero le spalle, al ritmo di una musica inudibile, si abbassava il mandrino della mortasatrice. Improvvisamente ho percepito tutta la musica, tutta la bellezza, di questo mastodontico balletto meccanico, illuminato appena da azzurri raggi di sole.

    Poi mi è sovvenuto un pensiero: perché è bello? Perché una danza è bella? Risposta: perché è un movimento in cui la libertà è assente. Perché il senso profondo della danza è racchiuso nella sua assoluta, estatica sottomissione, all’ideale di assenza di libertà. Se è vero che i nostri antenati si abbandonavano alla danza nei momenti più ispirati della loro vita (misteri religiosi, parate militari) allora può significare solo una cosa: l’istinto per l’assenza di libertà è stato caratteristico della natura umana fin dai tempi remoti e noi, nella nostra vita attuale, ci limitiamo consapevolmente a…

    Sono stato interrotto. La centralina ha scattato. Ho alzato gli occhi, O-90, naturalmente! Tra mezzo minuto lei sarà qui e andremo insieme a fare una passeggiata.

    Cara O! Mi sembra sempre che assomigli al suo nome, O… È circa dieci centimetri più bassa di quanto previsto dalla Norma Materna. Di qui la sua rotonda tornitezza; la O rosea delle sue labbra è schiusa per incontrare ogni mia parola. Ha una fossetta rotonda e morbida sul polso. Come quelle dei bambini. Quando è entrata il volano della logica continuava a ronzarmi in testa e, per inerzia, ho iniziato a raccontarle della mia nuova formula che abbracciava le macchine e i ballerini e tutti noi.

    «Meraviglioso, non è vero?», ho chiesto.

    «Sì, meravigliosa… È la primavera!», ha risposto, con un sorriso roseo.

    Vi pare possibile? Primavera! Lei parla della primavera! Donne!… Mi sono azzittito.

    Eravamo in strada. Il viale era affollato. Nei giorni in cui il tempo è così bello di solito sfruttiamo l’ora personale pomeridiana per una passeggiata supplementare. Come sempre la grande Torre Musicale suonava con tutte le sue zampogne la Marcia dello Stato Unico. In file regolari, a gruppi di quattro, mantenendo il passo con entusiasmo sfilavano le Unità, centinaia, migliaia di Unità in unif celeste* con stemmi dorati sul petto, il contrassegno numerico di ognuno e ognuna di noi. Io, siamo in quattro, sono solo una delle innumerevoli onde di un potente flusso. A sinistra, O-90 (se fosse uno dei miei villosi antenati di mille anni fa a scrivere, probabilmente la chiamerebbe con quella buffa parola: mia), a destra, due Unità sconosciute, un’Unità femminile e una maschile.

    Cielo azzurro, minuscoli piccoli soli in ognuno dei nostri distintivi, i nostri volti non sono offuscati dalla follia dei pensieri. Raggi… capite? Tutto sembra fatto di una materia raggiante, una specie di sorriso. E l’ottone scandisce il ritmo: «Tra-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-tam», calpestando i gradini di ottone che brillano al sole; a ogni passo ti innalzi sempre di più nelle vertiginose altezze azzurre…

    Poi come stamattina al cantiere, come per la prima volta in vita mia, ho rivisto le strade impeccabilmente diritte, il selciato di vetro luccicante, i divini parallelepipedi delle dimore trasparenti, l’armonia quadrata delle file grigio-azzurre delle Unità. Già: come se non fossero state le generazioni passate, ma proprio io a riportare una vittoria sul vecchio Dio e sulla vecchia vita, come se io stesso avessi creato tutto questo. Mi sentivo una torre: avevo paura di muovere il gomito per paura che i muri, la cupola e le macchine cadessero a pezzi.

    Poi, senza preavviso, un salto attraverso i secoli, un passaggio da + a –. Mi sono ricordato (un’associazione per contrasto, evidentemente) un quadro in un museo, un quadro di un viale del Novecento con una tonante confusione variopinta di uomini, ruote, animali, manifesti, alberi, colori e uccelli… Dicono che una volta tutto questo esisteva davvero! Mi è sembrato così inverosimile, così assurdo, che ho perso il contegno e sono scoppiato a ridere.

    Una risata, come un’eco di rimando, mi è giunta all’orecchio da destra. Mi sono voltato. Ho visto denti bianchi, bianchissimi, affilati, e un volto femminile sconosciuto.

    «Domando scusa», ha detto, «ma parevi così ispirato, un dio mitologico il settimo giorno della creazione. Ho come l’impressione che tu sia sicuro che anche io sia stata creata da te e te soltanto… È molto lusinghiero».

    Tutto questo senza neanche un sorriso, quasi con una punta di deferenza addirittura… (forse sa che sono il costruttore dell’Integrale). Negli occhi però, nelle sue sopracciglia, c’era una strana X irritante, che non riuscivo a risolvere, a racchiudere in un’espressione aritmetica.

    Per qualche motivo ero turbato; con la mente un po’ annebbiata, e ho cercato di addurre motivazioni logiche alla mia risata. Era assolutamente chiaro che questo contrasto, questo abisso invalicabile che separa lo ieri dall’oggi…

    «Ma perché invalicabile» (Che denti bianchi e affilati!). «Si potrebbe tendere un ponte su quell’abisso. Ti prego, prova a immaginare un battaglione di tamburi, ranghi… tutto questo esisteva prima di conseguenza…».

    «Oh, sì, è chiaro», ho esclamato. (Un notevole intersecarsi di pensieri. Ha detto quasi con le stesse identiche parole le cose che ho scritto prima della passeggiata! Capisci? Perfino i pensieri! E del fatto che nessuno è uno, ma uno dei. Siamo tutti così simili…).

    E lei:

    «Ne sei sicuro?».

    Ho notato le sue sopracciglia che si alzavano verso le tempie in un angolo acuto, come le aste appuntite di una X. Ero di nuovo confuso, e mi guardavo a destra, poi a sinistra. A destra lei, I-330 (ho appena visto il suo contrassegno), snella, irruenta e caparbiamente elastica come una frusta. Alla mia sinistra O-90, totalmente diversa, rotonda, con una fossetta infantile sul polso; e proprio alla fine della nostra fila, un’Unità maschile che non conosco, che ha un fisico a doppia curva come la lettera S. Eravamo tutti così diversi…

    Quella a destra, I-330, a quanto pare aveva intercettato il mio sguardo spaesato, perché ha detto con un sospiro: «Sì, ahimè!».

    In sostanza quell’esclamazione era del tutto fuori luogo, ma di nuovo c’era qualcosa nel suo viso o nella sua voce che…

    Con inusuale irruenza, ho detto: «Perché ahimè? La scienza sta progredendo e se non è questo il momento, allora nel giro di cinquanta o cento anni…».

    «Anche i nasi…».

    «Sì, nasi!». Questa volta ho quasi gridato: «Un pretesto per l’invidia si trova sempre… Dal momento che il mio naso è a bottoncino e quello di un altro invece è…».

    «Be’, lasciami dire che il tuo naso può addirittura essere definito greco, come si diceva una volta. Le mani invece… Su, dai, mostrami le mani!».

    Detesto che mi guardino le mani, sono ricoperte di lunghi peli – un insensato atavismo. Ne ho allungata una e ho detto con il tono più indifferente possibile:

    «Scimmiesche».

    Ha osservato la mia mano, poi il mio viso.

    «No, un’armonia molto curiosa».

    Mi scrutava, soppesandomi con gli occhi come fosse una bilancia, e di nuovo sono apparse quelle piccole asticelle agli angoli delle sopracciglia.

    «L’ho prenotato io», ha esclamato O-90 con un sorriso roseo.

    Ho fatto una smorfia. A voler essere precisi, era fuori servizio. La cara O… come posso dire… La velocità della sua lingua non è impostata correttamente; la velocità al secondo della lingua dovrebbe essere leggermente inferiore alla velocità al secondo dei pensieri, non al contrario, come nel suo caso.

    In fondo al viale la grande campana della Torre di Accumulazione risuona le diciassette. L’ora personale è volta al termine. I-330 se ne va insieme a quell’Unità maschile che pare una S. Ha un volto così rispettabile, un volto così familiare, me ne accorgo solo adesso. Devo averlo incontrato da qualche parte, ma non riesco a ricordare dove.

    Congedandosi I-330 ha detto, con la stessa smorfia a forma di X: «Dopodomani fai un salto all’auditorium 112».

    Ho scrollato le spalle: «Se mi assegneranno all’auditorium appena menzionato…».

    E lei ha ribattuto, con una certezza incomprensibile: «Lo sarai».

    Quella donna ha avuto su di me un effetto sgradevole, come un membro irrazionale di un’equazione che non si può eliminare. Sono stato contento di rimanere da solo con la cara O, anche se per poco. Abbiamo superato quattro file di viali mano nella mano; all’incrocio successivo lei è andata a destra, io a sinistra. O ha sollevato timidamente i rotondi occhi azzurro cristallino: «Oggi vorrei tanto venire da te e tirare giù le tende, soprattutto oggi, proprio adesso…».

    Sciocchina. Ma cosa potevo risponderle? È stata a casa mia giusto ieri e sa bene quanto me che il prossimo giorno del sesso che ci hanno assegnato è dopodomani. Un altro esempio dei suoi pensieri che corrono troppo. A volte capita che la scintilla arrivi troppo presto al motore.

    Quando è arrivato il momento di separarci l’ho baciata due volte, no, sarò preciso, tre, sui suoi meravigliosi occhi azzurri, così chiari e tersi.

    ____________________________________________

    * Probabilmente un derivato dell’antica uniforme.

    Annotazione 3

    Sommario: Un cappotto. Un muro. Le Tavole

    Ho riletto ciò che ho scritto ieri e ho notato che le mie descrizioni non sono sufficientemente chiare. O meglio, sarebbe tutto perfettamente chiaro per uno di noi, ma chissà a chi l’Integrale porterà un giorno le mie annotazioni. Forse avete letto il grande libro della civilizzazione solo fino alla pagina dove erano giunti i nostri antenati, novecento anni fa.

    Forse non conoscete nemmeno cose basilari come le Tavole Orarie, le Ore Personali, la Norma Materna, la Barriera Verde e il Benefattore. Mi risulta divertente e allo stesso tempo molto difficile spiegare queste cose. È come se, diciamo, uno scrittore del ventesimo secolo dovesse cominciare a spiegare nel suo romanzo parole come cappotto, appartamento, moglie. Eppure, se il suo romanzo fosse stato tradotto per delle razze primitive, come avrebbe potuto evitare di spiegare il significato della parola cappotto?

    Sono sicuro che l’uomo primitivo guarderebbe un cappotto e penserebbe: «A cosa serve questo? È solo un impiccio, un impiccio inutile». Sono sicuro che provereste la stessa sensazione se vi dicessi che nessuno di noi ha mai oltrepassato la Barriera Verde dalla Guerra dei Duecento Anni.

    Ma, cari lettori, dovete rifletterci. Aiuta. È chiaro che la storia dell’umanità, per quanto ne sappiamo, è una storia di transizione dallo stile di vita nomade a quello via via sempre più stanziale. Non ne consegue che la forma di vita più stanziale (la nostra) è allo stesso tempo quella più perfetta? C’è stato un tempo in cui le persone si affrettavano da un capo all’altro della terra, ma questa è la preistoria, un’epoca in cui esistevano ancora nazioni, guerre, commercio, scoperte diverse di diverse Americhe. Chi ha bisogno di queste cose adesso?

    Ammetto che l’umanità ha acquisito questa abitudine a uno stile di vita stanziale non senza difficoltà e non subito. Dopo la Guerra dei Duecento Anni, quando tutte le strade erano impraticabili e invase dall’erba, all’inizio deve essere stato un disagio vivere in città separate da detriti verdi. E con ciò? Subito dopo aver perso la coda l’uomo probabilmente non ha imparato subito come scacciare le mosche. Sono quasi certo che all’inizio ne sentisse addirittura un po’ la mancanza, ma ora, voi riuscireste a immaginarvi con la coda? Oppure a camminare per strada nudi, senza vestiti? (Ma non lo so, magari ve ne andate ancora in giro senza vestiti.) Qui vale un po’ la stessa logica. Non riesco a immaginarmi una città che non sia avvolta dalla Barriera Verde; non riesco a immaginarmi una vita che non sia avvolta dalle cifre delle Tavole.

    Le Tavole… Proprio in questo momento le cifre viola mi fissano austere dalla parete, si stagliano dal loro sfondo dorato, austere ma allo stesso tempo con gentilezza. Involontariamente inizio a riflettere su ciò che gli antichi chiamavano icona, e sento il desiderio di comporre versi, o preghiere che in fondo sono la stessa cosa. Oh, perché non posso essere un poeta, per poter tessere degnamente le lodi delle Tavole, cuore pulsante dello Stato Unico!

    Tutti noi – e forse anche tutti voi – da piccoli abbiamo letto a scuola il più grande monumento alla letteratura antica, la Guida Ufficiale delle Ferrovie. Ma se lo si confronta con le Tavole, non è nient’altro che grafite accostata a un diamante. Sono la stessa cosa in fondo: carbonio. Ma com’è eterno, trasparente, come riluce il diamante! Chi non trattiene il fiato scorrendo le pagine della Guida? A dire il vero le Tavole hanno trasformato ognuno di noi nell’eroe d’acciaio a sei ruote di una grande poesia. Ogni mattina, con precisione a sei ruote, alla stessa ora, allo stesso minuto, ci svegliamo, milioni di noi contemporaneamente. Alla stessa ora milioni di noi iniziano il loro lavoro come se fossero un uomo solo e allo stesso modo in milioni di noi lo portano a termine. E come un solo corpo con un milione di mani, portiamo alla bocca i cucchiai nell’istante designato dalle Tavole; e nello stesso istante usciamo tutti a passeggio, andiamo all’auditorium, nella palestra per gli esercizi Taylor e poi a letto.

    Sarò molto franco: nemmeno noi abbiamo raggiunto la soluzione esatta e assoluta al problema della felicità. Due volte al giorno, dalle 16 alle 17 e dalle 21 alle 22, il nostro potente organismo unitario si dissolve in cellule separate; queste sono le Ore Personali stabilite dalle Tavole. Durante queste ore capita di vedere le tende tirate discretamente nelle stanze di alcuni, altri che marciano lentamente sul selciato del viale principale o si siedono alle loro scrivanie come vi sto seduto io adesso. Ma credo fermamente, chiamatemi idealista e sognatore, che prima o poi troveremo un modo per incasellare anche queste ore nella formula generale e tutti gli 86.400 secondi confluiranno nelle Tavole Orarie.

    Ho avuto l’occasione di leggere e sentire molte storie improbabili sui tempi in cui gli esseri umani vivevano ancora in uno stato di libertà, uno stato primitivo disorganizzato. Una è la cosa che mi è sempre sembrata più improbabile: come potrebbe un governo, perfino uno primitivo, permettere alla gente di vivere senza un equivalente delle nostre Tavole, senza passeggiate obbligatorie, senza una precisa regolamentazione del tempo in cui

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