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La mia storia del jazz
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E-book311 pagine3 ore

La mia storia del jazz

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Info su questo ebook

Una delle voci più autorevoli del jazz italiano e internazionale ripercorre l’evoluzione artistica e il percorso storico della musica afroamericana, dalle origini ai giorni nostri. Attraverso la sua esperienza di musicista e didatta, Liguori mostra le mille sfaccettature della musica che più di altre ha segnato il xx secolo. Una narrazione avvincente, esposta con ricchezza di particolari ma anche con aneddoti vissuti in prima persona. Come in un romanzo, il libro narra la storia del jazz dall’Africa, dove tutto nasce, a New Orleans, fino alle spinte radicali e rivoluzionarie degli anni Sessanta. Nello stesso tempo, segue l’evoluzione artistica di Liguori con la sua vicenda umana e musicale, che si sviluppa dai «formidabili anni Sessanta» in poi. La radicalità delle posizioni e l’assoluta sincerità nel sostenerle hanno reso Liguori non un semplice testimone ma un protagonista della scena culturale, didattica e musicale, come testimonia il premio della critica discografica ottenuto nel 1978 e l’«Ambrogino d’oro», massima benemerenza civica assegnatagli dal Comune di Milano. Con inarrestabile passione verso un linguaggio musicale che rimane la più importante novità sulle scena musicale dei nostri tempi, il libro narra due storie che si integrano: quella dell’evoluzione del jazz, dalle teorie ai generi, e quella delle esperienze personali dell’autore che nel corso della sua vita artistica ha incontrato i protagonisti italiani e internazionali di questa musica. Concludono il libro i «30 più uno», i dischi più belli della storia del jazz, e le copertine di tutti i dischi di Gaetano Liguori.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita21 ott 2021
ISBN9788816803084
La mia storia del jazz
Autore

Gaetano Liguori

Diplomato in pianoforte e Musica Elettronica ha insegnato pianoforte al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano dal 1978 al 2016. Fin dagli anni Settanta è protagonista sulla scena della musica italiana, con più di tremila concerti in Italia e all’estero: da Cuba alla Tailandia, dal Nicaragua all’India. Ha registrato, tra dischi e Cd, più di 40 titoli. Ha composto musiche per teatro (con il premio Nobel Dario Fo), balletti, reading, cinema. Ha insegnato all’Università Bocconi, all’Università della Terza Età e in molte Scuole di musica popolare. Ha collaborato, come direttore artistico, ad eventi culturali per il Comune di Milano, il Centro San Fedele e il Conservatorio di Milano e in vari Festival tra cui il Mantova Music Festival. Il suo impegno professionale e umano è attestato da un percorso che lo ha portato dai Centri Sociali ai Gesuiti, dai Festival dell’Unità alla Caritas, dalla Università Statale al Duomo di Milano, dal premio della Critica discografica nel 1978, all’Ambrogino d’Oro, massima benemerenza cittadina, nel 2013.

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    La mia storia del jazz - Gaetano Liguori

    IL RAGÙ DI MIA NONNA E IL PIANO DI MONK

    Due sono le cose della mia infanzia napoletana che non potrò mai dimenticare e che fanno parte del mio modo di stare a questo mondo: il profumo del ragù e il piano di Thelonoius Monk. Facciamo un passo indietro per raccontare la mia infanzia e le ragioni per cui mi sono appassionato a questa musica che è diventata la mia vita.

    Discendo da una famiglia napoletana e in casa come tutte le domeniche, nelle famiglie che si rispettano, c’era il rito del ragù, O’ rraù diventato poesia nei versi di Edoardo De Filippo. Il mattino del sabato mamma comprava il pezzo di carne che doveva essere rigorosamente l’annecchia, la carne della manzetta giovane; nel pomeriggio chi celebrava il rito era mia nonna materna che aveva quel tocco in più che la faceva diventare una grande cuoca. Cosa fosse quel tocco in più non si può tradurre a parole né tantomeno tramandare perché nonna faceva tutto con grande naturalezza e con altrettanto riserbo. Era una sorta di facoltà extrasensoriale, shining, luccicanza l’avrebbe chiamata Kubrick; per fare un paragone musicale quel tocco nel jazz è lo swing che o ce l’hai o non ce l’hai: puoi studiare una vita, prendere tutti diplomi con i più grandi maestri, ma o ce l’hai o non ce l’hai perché con lo swing ci nasci.

    La cottura della carne, con grande quantità di cipolle e passata di pomodori, era la vera carta vincente del ragù perché dalla messa in pentola alla parola pronto dovevano passare dalle cinque ore a…, a discrezione di nonna. Naturalmente questo intenso odore di sugo, che avrebbe condito i classici ziti, con il passare del tempo inondava la casa con il suo profumo celestiale e arrivava fino in salotto dove sul grammofono c’era un 33 giri. Visto che il disc jockey era mio padre, potete stare certi che il disco scelto non poteva che essere un disco jazz.

    Mio padre era un musicista, suonava la batteria e aveva una passione smisurata per un giovane batterista jazz, il grande Max Roach, che si era fatto conoscere nel giro dei bopper che frequentavano il leggendario club jazz Mintos: Parker, Miles, Monk. Allora non potevamo certo prevederlo ma molti anni dopo, al Festival Jazz di Alassio, Roach divise il palco con noi.

    Roach a parte, il disco che mi avrebbe definitivamente convinto che quella era la mia vocazione fu Blues for Dracula del grande batterista Philly Joe Jones. Il primo brano era un classico blues con un ritmo né lento né veloce ma carico di swing, quello di o ce l’hai o non ce l’hai, e lì ce n’era un sacco. Ritmo melodia armonia si fondevano con assoli mozzafiato, tromba, sax, tromboni erano presi per mano dal maestro e portati sempre più in alto dove sogno e realtà si fondono nel linguaggio universale della musica. Certo a farmi sognare poteva anche essere un disco di Duke o Count Basie ma poteva anche essere Gershwin o Stravinskij, in ogni caso sempre qualcosa capace di farmi volare sulle ali della fantasia. Fantasia, come il famosissimo capolavoro di Walt Disney visto al pomeriggio al cinema dell’oratorio insieme a una masnada scatenata di ragazzini non ancora intossicati dai cartoni dei super eroi giapponesi. Provate a immaginare la Sagra della primavera con la marcia dei dinosauri o topolino in Apprendista stregone sulle note di Paul Dukas tutto condito da urla di sorpresa e meraviglia da parte di quella turbolenta ciurma di ragazzini.

    Come Kane, il personaggio creato da Orson Welles in Quarto potere quando ricorda Rosebud, la sua povera slitta di bambino, quelle esperienze partenopee mi riportano alle cose più importanti della mia infanzia, a quei giorni, a quell’atmosfera carica di profumo di ragù, di musica e di tanto affetto e amore.

    CHIEDETE E VI SARÀ DETTO

    Se hai bisogno di chiedere cos’è il jazz, non lo saprai mai.

    Louis Armstrong

    Durante la mia lunga carriera di musicista e didatta mi è spesso capitato di tenere corsi di storia del jazz: al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove ho insegnato pianoforte per 40 anni, all’Università Bocconi per il dipartimento di musica del ’900, all’Università della Terza Età, e in centinaia di occasioni dove il mio compito non era solo quello di donare emozioni, ma cercare di convincere il mio pubblico ad amare il jazz che risulta essere, insieme alla dodecafonia di Schönberg, il genere musicale più originale del XX secolo. Un genere musicale a cui i mass-media non hanno mai dedicato più del 1% del loro spazio.

    Ho insegnato la nascita del jazz e la sua importanza nella storia della musica e soprattutto nella società – cosa che mi è sempre stata a cuore – in cooperative, club, biblioteche, teatri, bocciofile, scuole, fabbriche e anche in un carcere, quello di Opera, insomma in qualsiasi spazio dove potessi avere a disposizione un microfono, un mangianastri, un impianto stereo, un lettore Cd, una videocassetta, un Dvd o un computer. Dopo aver raccontato l’estetica, le forme e i contenuti, facevo seguire, quando mi era possibile, un concerto che rendeva esplicito quanto avevo detto. Ho avuto platee di studenti dai dieci agli ottant’anni, e in tutti, veramente in tutti, ho avuto la sorpresa di vedere nascere, dopo un primo momento di smarrimento, un grande interesse e in qualche caso anche un entusiasmo, per quello che avevano ascoltato.

    Quando negli anni Settanta attraverso il circuito alternativo facevo centinaia di concerti, alla fine dello spettacolo decine di persone venivano a chiedermi nel retropalco, che spesso era un prato sotto un cielo stellato o quando si era più fortunati un camerino, informazioni su quello che avevano appena ascoltato: che li aveva emozionati profondamente, che non conoscevano e che avevano avuto poche occasioni di sentire alla radio o alla televisione.

    Ricordo in particolare una manifestazione, Vacanze a Milano, che si svolgeva tutte le estati in agosto nella città deserta di Milano. Suonavamo al Parco Sempione con il Castello Sforzesco come sfondo o in Piazzetta Reale con lo sfondo di Palazzo Reale o addirittura in piazza del Duomo dove lo sfondo era costituito dalla cattedrale. Dopo il concerto era abitudine di noi musicisti proletari vendere i dischi a un prezzo politico e dialogare con il pubblico. Ebbene oltre alle vendite da capogiro – in rapporto a quelle del mercato discografico – assistevo al rituale dei milanesi che per lavoro o esigenze economiche erano costretti in città: in fondo Vacanze a Milano era un eufemismo un po’ triste. La tenuta classica era: sandaletti in pura plastica pescura, pantaloncino corto e canottiera bianca, quella che una decina di anni dopo passerà alla storia indossata da Bossi durante un summit dal Cavaliere. Ebbene quel pubblico così naïf in rapporto agli appassionati del jazz anni Sessanta, mi esternava, in meneghino stretto, la propria sorpresa nell’ascoltare quella musica così viva, vivace, immediata, una musica che li colpiva al piedino (in gergo: alzare e abbassare la punta del piede seguendo il ritmo dello swing) e al cuore che si apriva all’ascolto.

    Io, in trance musicale postconcerto, accennavo qualche parola su quello che avevano appena ascoltato, ma liquidare quella musica che era il risultato di 100 anni di storia era troppo riduttivo, li invitavo allora ad approfittare di qualche altra occasione per ascoltare un po’ di sano jazz. Non dimentichiamo che il settembre che seguiva era appannaggio dei popolari festival dell’Unità, delle feste di Democrazia Proletaria, del MLS, di Lotta Continua, del PDUP. Poi li invitavo a comprare qualche disco fondamentale della storia del jazz o a leggere la bibbia del jazz ancora oggi insuperata: la Storia del Jazz di Arrigo Polillo.

    Certo, io la storia del jazz la conoscevo dai libri e dai dischi che in casa mia con un padre musicista non erano mai mancati. Ma è diverso parlare di musica tra musicisti, che quella musica la praticano, e ascoltatori che invece devono interpretarla. Un minimo di conoscenza per sapere chi era Armstrong o l’importanza di Duke Ellington o la vita sfortunata della grande Billie Holliday o la rivoluzione armonico-ritmica di Ornette Coleman o il senso mistico che aveva il sax di Coltrane, avrebbe aiutato non poco quel pubblico eterogeneo. Queste conversazioni, spesso animate da una grigliata di salsicce e costine di maiale annaffiate con buon vino, mi diedero l’idea di proporre per alcuni anni, sempre nel parco sotto una surriscaldata tecnostruttura, degli incontri dove invitavo i maggiori critici di jazz delle più importanti testate giornalistiche che, essendo degli appassionati, partecipavano volentieri: Vittorio Franchini de «Il Corriere della Sera», Franco Fajenz de «Il Giornale», Pino Candini de «La Notte», Pip Barazzetta di «Avvenire», Gian Mario Maletto de «Il Sole 24 Ore», e tanti altri. Potevo verificare ancora più entusiasmo quando, dopo una dotta disquisizione sul blues, si poteva ascoltare l’armonica di Fabio Treves, il puma di Lambrate, o il sax di Gianni Basso, o la chitarra di Franco Cerri o la batteria di mio padre Pasquale. Il successo di quei pomeriggi lontani mi portarono anni dopo a proporre per biblioteche e circoli culturali una storia del jazz che avesse delle caratteristiche precise: il jazz spiegato da chi lo praticava per passione o per professione; e la competenza legata a una semplicità di linguaggio che facesse entrare il pubblico in sintonia con la musica, il senso etnico, storico, le leggi di mercato, la politica, l’etica. Mi inventai dei cicli di lezioni-conferenze-concerti dal titolo Le città del jazz: da New Orleans a Kansas City, da New York a Milano. Tutto questo per far vedere come l’evoluzione di questa musica seguisse anche lo sviluppo sociale ed economico nella nazione dove tutto aveva avuto origine.

    Per la mia passione per la filosofia, nel 1990, mi iscrissi all’Università della Terza Età, situata negli stupendi e massonici chiostri dell’Umanitaria di Milano. Volevo farmi in tutta tranquillità i miei corsi quando fui riconosciuto dal preside che mi chiese di occuparmi della musica del Novecento e in particolare del jazz. Era divertente partecipare nel ruolo alternato di studente e docente. Naturalmente i miei allievi erano tutti pensionati con un’istruzione media universitaria, desiderosi di approfondire la conoscenza della grande musica e della cultura afro-americana.

    Quegli anni furono divertenti e proficui: fecero sì che approfondissi le mie conoscenze sulla storia del jazz e grazie a quel lavoro scrissi delle dispense che poi, nel 1999, confluirono nel libro Una storia del Jazz, per Cristian Marinotti editore. Libro che scrissi a quattro mani con un originale e competente critico jazz del «Manifesto», Guido Michelone. Oltre che una sincera amicizia ci univa l’amore per il jazz e la convinzione che la sua evoluzione andasse di pari passo con la storia sociale del continente americano e di conseguenza del mondo intero.

    La pubblicazione mi diede anche titolo per proporre corsi di storia del jazz nella secolare istituzione del Conservatorio dove, dagli anni Ottanta era entrato, con mille difficoltà, l’insegnamento musicale del jazz. E dato che per la pratica strumentale occorrono memoria e narrazione, cioè origini e storia, mi occupai personalmente dei corsi di storia del jazz.

    Diverso fu l’approccio ai corsi dell’Università Bocconi dove mi occupai per anni della storia della grande musica del Novecento con particolare attenzione al jazz. Qui, a differenza del Conservatorio, avevo studenti che si approcciavano al jazz con una formazione in gestione organizzativa ed economica. Con il mio amico e docente, Severino Salvemini, una volta organizzammo uno stage dove mostravamo l’analogia tra la creazione di un’orchestra jazz e la gestione di un’azienda, con particolare attenzione ai rapporti umani tra leader e musicisti.

    Era passato poco più di un trentennio, e avevo visto cambiare atteggiamento da parte delle istituzioni verso questa musica e tra i ciclostilati dell’Arci – che ancora conservo come una reliquia – e le lavagne elettroniche e i tutor delle università telematiche ho visto crescere l’interesse verso il jazz e crescere la coscienza collettiva che attribuisce al jazz un posto nella storia della grande musica del Novecento.

    Giez, giaz, jazz

    Non pronuncio mai la parola jazz davanti a una signora.

    È un vocabolo molto sporco.

    Eubie Blake

    È possibile datare l’origine del jazz dalla fine dell’Ottocento, tenendo presente però che questa musica nasce dalla lenta evoluzione dei canti degli schiavi deportati dalle coste dell’Africa nel Sud degli Stati Uniti, fino ad arrivare alle prime forme compiute di sound afroamericano: lo spiritual, il blues, il ragtime, le marcette delle fanfare che all’inizio di questo secolo vivacizzano le strade di New Orleans. Da questa città i grandi pionieri del jazz vanno ad animare le notti di Chicago negli anni Venti: Oliver, Morton, Bechet, Hines, Armstrong, Beiderbecke, i New Orleans Rhythm Kings, l’Original Dixieland Jass Band, l’imperatrice dei blues Bessie Smith e tanti altri ancora, segnano il trapasso dal jazz primitivo a quello tradizionale e poi ancora a quello classico. Ma anche a New York, alla fine degli anni Venti, arriva il jazz e si fa subito classico: le orchestre di Henderson e di Ellington mietono successi, a Broadway furoreggiano riviste e musical, i pianisti stride si ascoltano dovunque, Whiteman e Gershwin inventano il jazz sinfonico, l’Austin High School Gang quello bianco, Venuti, Lang e Beiderbecke una sorta di jazz da camera. Alcuni cabaret di Harlem sono la meta favorita dei ricchi, ci vanno per respirare un po’ d’atmosfera esotica, per sentire il jazz stile jungle del grande Ellington. Poi, nel 1929, con il crollo di Wall Street, il jazz scompare praticamente di scena.

    Agli inizi degli anni Trenta prospera solo a Kansas City con Moten e Basie poi, dopo il 1935, grazie ai successi dell’orchestra di Goodman, la scena del jazz si rianima. Inizia la cosiddetta era dello swing: le big band si moltiplicano, ritornano alla ribalta i veterani e si affermano le nuove stelle. Tra i bianchi Dorsey, Shaw, Krupa, Barnet e tra i neri Waller, Tatum, Lunceford, Wilson, Hawkins, Young, la Holiday e la Fitzgerald sono fra i nomi più fulgidi del mondo dello swing, che ha il suo ombelico nella 52a strada di New York. Con la musica dell’ultimo king, Glenn Miller, scomparso nel 1944 su un aereo da guerra, si chiude simbolicamente lo swing, anche se il suo Moonligh Serenade accompagnerà l’esercito liberatore in tutta Europa.

    Intanto l’America festeggia la fine della guerra ballando al ritmo delle orchestre di Herman, di Hampton e di Kenton. Ma il jazz si trasforma: nasce il bebop, che ha i suoi eroi, spesso tragici, in Parker, Gillespie, Powell, Monk, Navarro, Clarke, Dameron. Tra il ’47 e il ’48 si afferma il cool jazz di Tristano, Davis, Mulligan, Konitz e di qualche altro. Poi la parola passa ai californiani, fra cui si distinguono Rogers, Giuffré, Baker o ancora alla third stream music di Schuller. A metà degli anni Cinquanta i negri di New York riprendono il sopravvento sui bianchi grazie all’infuocato hard bop di Blakey, Silver, Roach, Brown; solo il Modern Jazz Quartet va controcorrente, recuperando il classicismo. Con le musiche politicizzate dei gruppi di Mingus, di Rollins, di Roach si chiude un decennio polemico, che fa immaginare grandi svolte.

    E infatti, negli anni Sessanta, il jazz è influenzato anche dai fermenti di ribellione che sfociano nella Rivolta Nera iniziata dai pacifisti di King, e proseguita con i rivoluzionari alla Malcolm X. La musica afroamericana trasforma ancora una volta i propri caratteri, e in maniera radicale: il nuovo free jazz, ovvero l’avanguardia, l’informale, l’atonalismo è proposto da Ornette Coleman ed è ripreso da Taylor, Ayler, Shepp, Dolphy, Sun Ra. Il grande pubblico, che non l’apprezza, si rifugia nella Bossa Nova derivata dalla canzone brasiliana o nel mainstream o nel blues revival. Ma l’unica alternativa sperimentale al free è il modalismo proposto da Davis, Coltrane, i due Evans. Quanto ai giovani, prediligono il rock o il folk impegnato e per qualche anno dimenticano del tutto il jazz, che però alla fine del decennio si avvicina alle ultime generazioni con il jazzrock di Davis, dei Weather Report e di molti altri. In seguito negli anni Settanta le carte si mescolano: alcuni jazzisti, Cherry, Barbieri, Brand, si dedicano a ulteriori fusioni magari panfolkloriche, altri, come Braxton, a un radicalismo ancora più oltranzista del free, che si chiama creative o improvisated music. Molti cercano ispirazione in India o in Africa o in generale nel Terzo Mondo.

    E negli anni Ottanta e Novanta la situazione si ribalta ancora: avviene il recupero della bella forma e i giovani neri, che non sono ancora attratti dalle musiche di consumo – soul, funky, rap – guardano con rinnovato interesse alla storia del passato, facendo della cultura musicale un vero e proprio referente estetico. Trionfa il cosiddetto neobop capitanato da Marsalis, che lancia una sorta di manierismo jazzistico. D’altronde non c’è più un unico stile a far scuola o dettar legge. Il jazz vive all’insegna dell’eclettismo, come dimostra ad esempio la carriera di Jarrett, nettamente divisa fra i trii, il piano solo e la musica classica. Anche i più giovani, Zorn e Coleman, suonano all’insegna dell’eclettismo, sia pur di segno opposto: mettono infatti in circolo le contaminazioni fra la musica nera e i linguaggi popolari giovanili.

    Il jazz cresce vertiginosamente anche in Europa dove è ormai in grado di competere, alla pari con i colleghi d’Oltreoceano, proponendo una miscela originale che non rinnega la matrice afroamericana, ma la integra con le migliori risorse locali.

    Dal 2000 ad oggi si comincia quasi a non parlare di jazz se non tra gli addetti ai lavori, si parla di Word Music. C’è un’evidente globalizzazione non solo nella società ma di conseguenza anche nella musica che, per usare un termine caro a Bauman, non ha più solidi confini ma è di una liquidità impensabile solo vent’anni prima. E dunque musiche come l’Hip pop e il Rap interessano i musicisti jazz che così possono uscire dal ghetto dove il sistema obsoleto dei generi musicali avrebbe voluto rinchiuderli, e magari buttare via la chiave.

    Tuttavia narrata così, la storia del jazz mi sembra forse troppo sbrigativa. Necessita invece di maggiori riflessioni. Anche se la narrazione procederà per sintesi cronologiche, queste tuttavia non impediranno di fare una conoscenza sufficientemente esauriente dei principali artisti della vicenda afroamericana, degli stili e delle correnti che hanno dominato il Ventesimo secolo in quella che comunemente viene appunto definita come musica jazz.

    Cominciamo anzitutto da questa parola dal suono ancor oggi imprecisato, al punto che noi italiani riusciamo a pronunciarla indifferentemente giez o giaz.

    L’espressione jazz ha origini misteriose o ibride, che molti identificano soprattutto nella cultura francese sia creola sia cajun: potrebbe derivare da jasm, che è sinonimo di vitalità o in slang di prestazione sessuale; da chasse-beau, che è un passo di danza dell’epoca (il cake walk); da jazz-bells, soprannome delle prostitute di New Orleans in ricordo della Jesabel biblica; dal verbo jaser che significa chiacchierare; dal soprannome Jazbo, di un artista minstrel; dall’inglese gism/jasm, sinonimo di volta in volta di forza, esaltazione, sperma; dall’africano jasi, che significa vivere sotto pressione, in maniera frenetica. In ogni caso si tratta di un parola dai valori non certo edificanti.

    Alcuni musicisti, fin dagli inizi e ancora ai nostri giorni, vedono nel termine jazz un nomignolo commerciale peggiorativo, che presenta la musica con una connotazione riduttiva. Tuttavia la vendita di oltre un milione di copie del primo disco di jazz, Livery Stable Blues, inciso dall’O.D.J.B. nel lontano 1917, smentisce ogni critica negativa, permettendo alla parola e al genere di espandersi dappertutto.

    L’AFRICA

    Il nero come schiavo è una cosa, il nero come americano un’altra. Ed è il cammino del nero da schiavo a cittadino americano che intendo esaminare, e lo farò attraverso la musica di questo cittadino schiavo, quella a lui più strettamente legata.

    Amiri Baraka, Il popolo del blues

    Le radici del jazz dobbiamo cercarle nell’incontro fra l’Africa degli schiavi neri e la tradizione musicale bianca che sarà loro imposta. Questi schiavi, arrivati in Nord America già nel Seicento, riescono in parte a conservare il patrimonio musicale adattandolo a quello dei loro padroni e a poco a poco, nei campi o nelle chiese, verrà plasmata una nuova forma musicale che in seguito sarà recuperata dagli stessi bianchi.

    Nel 1619 poche decine di schiavi, perlopiù originari dell’Africa occidentale, sono venduti nelle piantagioni della Virginia. E un secolo dopo sono parecchie centinaia di migliaia, concentrati soprattutto nelle zone agricole meridionali degli attuali Stati Uniti, allora colonia inglese. Per questi uomini, arrivati nel Nuovo Mondo dopo un viaggio massacrante, in condizioni disumane, malnutriti e

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