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Check sound. Dai demo tape ai social, cronache dall'underground e riflessioni a cavallo di due ere
Check sound. Dai demo tape ai social, cronache dall'underground e riflessioni a cavallo di due ere
Check sound. Dai demo tape ai social, cronache dall'underground e riflessioni a cavallo di due ere
E-book233 pagine3 ore

Check sound. Dai demo tape ai social, cronache dall'underground e riflessioni a cavallo di due ere

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Info su questo ebook


Vent’anni nel mondo della musica underground raccontati da uno di quelli che ci hanno sbattuto le corna. Una lunga e tribolata cavalcata sbobinata con ironia irriverente che diventa il pretesto per parlare di CD che si smaterializzano in Mp3, fanzine che diventano portali web, scambi di lettere vergate a mano rimpiazzati da interazioni social. Il tormentato microcosmo di una delle tante band desiderose di uscire dall’anonimato è il punto di partenza per un’incursione a briglia sciolta tra aneddoti tragicomici, personaggi felliniani e riflessioni - talvolta impietose - su come la rivoluzione digitale abbia sconquassato l’industria discografica, sedotto e messo in crisi musicisti, alterato meccanismi, aggiornato annosi interrogativi.
Cosa ci ha consegnato questo ventennio di internet a banda sempre più larga? Chi ne ha tratto maggiori vantaggi e come? Che valore diamo oggi alla musica? Come siamo arrivati a un mondo dove si ottiene più attenzione con la foto di un tagliere di affettati che con musica inedita? Ma soprattutto: non era meglio correre dietro a una palla come fanno tutti?
 
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2020
ISBN9788897911807
Check sound. Dai demo tape ai social, cronache dall'underground e riflessioni a cavallo di due ere

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    Anteprima del libro

    Check sound. Dai demo tape ai social, cronache dall'underground e riflessioni a cavallo di due ere - Daniele Galassi

    Librinmente

    copyright

    © Copyright Librinmente

    © Copyright Prospettiva editrice

    Civitavecchia, settembre 2020

    1° edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171

    della legge 22 aprile 1941, n. 633).

    ISBN 9788897911807

    I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet:

    www.prospettivaeditrice.it

    Prefazione

    Una prefazione. Già. Proprio una prefazione. Attento, Marco, perché una prefazione non è una recensione. Leggi recensioni su riviste e siti specializzati in musica rock e metal da ormai circa trent'anni, scrivi recensioni negli stessi ambiti da quasi diciassette anni; ma di prefazioni... be', ne hai lette sicuramente, ma in quanto a scrittura siamo a zero al cubo.

    Da dove si parte, dunque? O meglio, da dove si può/potrebbe partire? Forse da quella metà dicembre 2004, quando, pur avendo già sentito parlare in giro benissimo degli Infernal Poetry, entrai per la prima volta in risonanza con la band di Ancona ricevendo dal mio caporedattore il promo - sì, ancora bello fisico, con i testi, l'artwork vero e la possibilità, anzi il dovere, di conservarlo, perché la casa discografica lo poteva richiedere indietro - di Beholding The Unpure, il secondo full della loro carriera. Che botta, ragazzi, e che mina di disco! Quel disegno di copertina, poi, colpiva subito per la stranezza e l'estraneità agli stilemi delle cover metal dell'epoca. E colpirebbe ancora oggi, pensate un po'. Allora diciamo che fu non dico amore a prima vista, ma di certo una bella sbandatona per un lavoro che per la scena italiana era un pregio assoluto.

    Ed ecco che un bel pomeriggio di dicembre di quindici anni dopo, lo stesso Daniele-degli-Infernal-Poetry mi chiede così, d'embleè, di scrivergli una prefazione per il suo nuovo libro. La cosa mi stimola, in quanto del tutto inaspettata. Perché con Daniele, in fin dei conti, non c'è mai stato un rapporto che si potesse definire di amicizia: ci sono conoscenze comuni tra gli addetti ai lavori e ormai vecchi scambi di email con i quali ci accordavamo su tempistiche per interviste, track-by-track o altre cosette che sono il pane quotidiano di chi si è dato all'hobby maledetto del giornalismo musicale. E poi, certamente ma indirettamente, ci accomunano pezzi di storie, brandelli di vissuti, aneddoti assurdi, personaggi noti, meno noti, casi clinici e tutto quel circo danzante ben noto a chi si è barcamenato per vent'anni nell’underground italiano a vario titolo.

    Quindi, Daniele-degli-Infernal-Poetry ha scritto un nuovo libro. Un libro che per molti aspetti rispecchia le dissonanze, le schizzate e folli derive, le esagerazioni stilistiche e concettuali che la sua band amava far diluviare sui fan durante i brucianti anni della propria esistenza. Non si sta fermi un attimo, perciò. Si passa con dinamica nonchalance da aneddoti esilaranti che Paolo Villaggio starebbe bello fermo e serafico nella tomba, senza minimamente scomporsi e abbozzando un compiaciuto sorriso postmortem, a realistiche e amarissime analisi che abbracciano gran parte del sistema musica, fino a giungere a riflessioni che molti di noi - musicisti, giornalisti o semplici appassionati - avranno avuto modo di abbozzare chissà quante volte.

    Ecco che però vado lentamente sciamando nella deriva da recensore, quando qui mi si chiedeva invece una solida e accattivante faccia da prefattore - colui che si prodiga in prefazioni, suppongo. E allora scriverò, in modo molto crudo e bislaccamente pubblicitario, che questo libro lo si divora, lo si beve in un paio di giorni, come una specie di shottino che va giù nel gargarozzo che è un piacere; ma state attenti, che il rigurgito di vomito è sempre in zona esofago, non appena il cardias accenna ad aprirsi quando non dovrebbe. Perché Check Sound a tratti fa male, malissimo, mette di fronte a una realtà cruda, tragi-comica e talvolta impietosa che torna su a mo' di succo gastrico cogliendoti di sorpresa, magari proprio mentre stavi sganasciandoti dalle risate.

    Check Sound ci presenta uno spaccato. Uno spaccato di vita in un contesto di nicchia, che diventa il pretesto per allargare lo sguardo oltre l’underground e raccontare di un mondo ben più vasto. Ed ecco come, a partire da esperienze personali spesso rocambolesche, si arriva a capire interazioni e meccanismi che riguardano tutti noi e che ci parlano, con un po’ di nostalgia ma senza troppi rimpianti o livori, del modo odierno di vivere la musica, ormai completamente mutato.

    Sì, ma in meglio o in peggio?

    Marco Gallarati

    15/01/2020

    dedica

    Al nostro amico Baccio

    INTRODUZIONE

    Ho iniziato a scrivere la prima riga di questo libro con la certezza che non l’avrei mai pubblicato e con la quasi certezza che mai l’avrei fatto leggere a qualcuno. Semplicemente, all’improvviso, mi era venuta voglia di mettere nero su bianco quello che avevo visto e vissuto negli ultimi venti e rotti anni mentre mi dimenavo nell’accidentato terreno della musica underground. Lo avrei scritto per me e basta, come se fosse poco più di un diario.

    Eppure, mentre infilavo una parola dopo l’altra, mi rendevo sempre più conto che stavo pennellando non solo il microcosmo di una delle tante band invischiate nelle arcinote e soffertissime dinamiche delle aspiranti ‘rockstar’, ma soprattutto uno spaccato di un mondo che, a cavallo del nuovo millennio, ha mutato pelle fino a rendersi una cosa del tutto nuova. È stato a quel punto che ho fatto pace con l’idea che queste pagine potessero avere un senso anche per le persone estranee agli eventi narrati.

    Potete leggere questo libro come la storia di un gruppo di adolescenti qualunque che all’improvviso non vogliono più essere adolescenti qualunque. La storia di una band underground che sgomita e sputa bile per guadagnarsi il suo spicchio di posto al sole tra esosi studi registrazione, case discografiche spesso di dubbio profilo, piccoli club sempre sull’orlo della bancarotta. Tra serate flop e tour sfibranti fatti di inestinguibili debiti di sonno, ignobile junk food, folli corse per raggiungere in tempo il palco successivo e tempi morti in asfissianti backstage in cui faresti harakiri (se solo ci fosse abbastanza spazio per muoverti). Una storia che ho deciso di raccontare quasi sempre con dissacrante ironia, farcita di aneddoti tragicomici che mortificano decoro, buonsenso e decenza. Costellata di personaggi felliniani, disfatte epocali, occasioni perse, delusioni, disavventure, ma anche di soddisfazioni e riconoscimenti, sebbene il più delle volte puramente simbolici. Se ho fatto bene il mio lavoro, forse riderete di noi e delle nostre sventure, affibbiandoci epiteti più o meno coloriti a seconda dell’occasione, esattamente come ho fatto io stesso per tutta la stesura.

    Potrete leggere queste pagine, però, anche come una storia che parla dei vinili, delle musicassette e dei CD che si smaterializzano in Mp3, tramortendo l'industria discografica e obbligandola a sviluppare nuovi anticorpi in risposta a una discontinuità epocale. O come una storia sulla rete analogica, fatta di fanzine, scambi di lettere vergate a mano e volantini ciclostilati, spazzata via da quella digitale che ci ha portato in dote e-mail, siti web, pagine social e video in Full HD da inviare con un link. Una storia su un nuovo, attraente mare dove tutti potevano finalmente tuffarsi, ma dove rimanere a galla si è rivelato essere meno facile del previsto.

    L’ultima parte di questo libro potrà infine essere letta non dico come un saggio, ma come un insieme di riflessioni che cercano di mettere a fuoco certi meccanismi, dinamiche, cortocircuiti del mercato discografico odierno e alcune declinazioni del rinnovato rapporto uomo-musica. Perché questo lungo flashback è stato anche una ghiottissima occasione per arrovellarmi su domande che, nelle mani di chi bazzica a vario titolo il sistema musica, hanno sempre scottato come il più rovente dei ferri. Cosa ci ha consegnato questo ventennio di internet a banda sempre più larga? Chi tra major, indie, grandi star, pesci piccoli ne ha tratto più vantaggio e come? Che valore diamo oggi alla musica? Perché ho migliaia di fan su Facebook ma sotto al palco non c'è mai un cane? Ma soprattutto: non era meglio correre dietro a una palla come fanno tutti?

    A prescindere da come la vogliate leggere, questa è una storia durata più di vent’anni e voglio cominciarla dall’inizio, partendo da quel lontano 1993 in cui venimmo folgorati da due capelloni che ci fecero capire con un paio di schitarrate che non esistevano solo campetti di basket, motorini e partite a biliardo.

    Non è stata una passeggiata di salute, ma non posso che ringraziarli.

    PARTE I

    Prologo, 1993. Quando il grunge aveva già ridotto a brandelli l’hard rock

    Ci si aspetterebbe che una folgorazione di questa portata avvenga in un locale fumoso, al cospetto di animali da palco che si straziano e si dimenano per un pubblico in delirio, sommersi da lanci di biancheria intima femminile in un’orgia sonora che sembra preludere a una carnale. Me ne rendo conto, e se fosse un racconto di fantasia lo ambienterei lì. Invece ci trovavamo in una camera da letto matrimoniale di una vecchia casa anni ’50 del rione del Pinocchio, periferia di Ancona. A un lato della stanza c’erano loro, quelli fighi. Oggi diremmo cool, ma verso la metà del 1993 si diceva ancora fighi, almeno dalle nostre parti. D’altronde i trailer si chiamavano ancora provini e gli action figure per noi erano pupazzetti. Con gli inglesismi ci si andava cauti. Fatto sta che loro, quelli fighi, con le lunghe criniere e gli strumenti al collo, se ne stavano uno di fronte all’altro ad abbozzare pezzi dei Guns n’ Roses, mentre dall’altro lato della stanza c’eravamo noi tre, timidi spettatori coi capelli a mezza lunghezza e i bomber colorati. Senz’arte né parte, eravamo lì a rivestire l’intollerabile ruolo di adolescenti qualunque. L’impietoso confronto che si consumò in quella improbabilissima location rimbombò nella mia testa vuota di diciassettenne come la più perentoria delle epifanie.

    Fanculo il basket, chi se ne frega della palestra, le partite a stecca sono roba da balordi.

    Fu quello il momento esatto in cui capii che era giunta anche per me l’ora di far parte di una band. Guardai in faccia Thristo e Struso, gli altri due adolescenti qualunque, e ci lessi che qualcosina dovevano aver intuito pure loro. E poco importava che nessuno di noi avesse idea di come si suonasse uno strumento. Perché adesso, all’improvviso, c’era solo una cosa da fare. Non dico bene, ma subito.

    Non abbiamo idea di come farlo, ma praticamente lo stiamo già facendo

    In quel fatidico 1993 le nostre giornate da teenager scivolavano una appresso all’altra tra allenamenti di pallacanestro, palestra, partite a biliardino e vergognose sfide a stecca in circoletti fumosi per i quali non facevamo mai la tessera. Sciamavamo coi nostri orrendi scooter di plastica per la città sfidando incoscientemente avversità climatiche di ogni tipo, ci affibbiavamo soprannomi pittoreschi storpiando i nostri nomi o cognomi e lottavamo strenuamente per accaparrarci i favori delle femmine più disponibili. Che poi tutto questo ‘disponibili’ manco lo erano, a parte rarissime, apprezzatissime, rinomatissime eccezioni del rione Adriatico. L’impellente quanto improvvisa necessità di formare una band fece scolorire in un attimo quell’universo che fino al giorno prima era stato l’unico che avessi mai considerato possibile. Non so fino a che punto possa porre la questione in questi termini anche per gli altri due, Thristo e Struso, ma se mi seguirono a testa bassa in questa rocambolesca e scriteriata incursione in un mondo totalmente ignoto, deduco che anche per loro qualche click doveva essere scattato.

    Non che la musica fosse assente dalle nostre vite, tutt’altro. Io consumavo da almeno un lustro cassettine duplicate di Bon Jovi, Michael Jackson, Europe, Guns n’ Roses, Scorpions, Skid Row, Litfiba, Queen, e da un paio d’anni era approdato nella mia camera anche il primo, desideratissimo sintolettore CD che prometteva miracoli. Ma siccome masterizzare un compact non era cosa né facile né economica (chi possedeva un masterizzatore era visto come depositario di un’inaccessibile tecnologia aliena), la formazione culturale progrediva a botte di pirateria e sporadici acquisti di originali, spesso usati.

    Nonostante le mie giornate avessero quindi già da un pezzo una colonna sonora fatta di chitarre distorte e assoli urlanti, l’idea che si potesse in qualche modo saltare dall’altra parte della barricata non l’avevo mai presa in considerazione. Eppure vedere quei due maledetti capelloni imbracciare le chitarre aveva ridotto la questione a una semplice domanda.

    Ma perché non ci abbiamo pensato prima?

    Ecco, adesso ci pensavamo, e ci pensavamo fitto. Una cosa era certa: toccava per lo meno mettere insieme una strumentazione o qualcosa che vi si avvicinasse il più possibile.

    Spremi che ti rispremi, realizzammo che ognuno di noi tre adolescenti qualunque in realtà aveva infognata da qualche parte in cantina o in garage una carcassa di chitarra da rimettere più o meno in sesto. Io riesumai coraggiosamente la vecchia classica di mio zio, un relitto col manico mezzo scollato e la cassa sfondata in più punti. Struso tirò fuori dal cilindro un’acustica insuonabile con corde alte cinque centimetri dalla tastiera che ti aprivano le stimmate sui polpastrelli solo a guardarle. Thristo rimediò per vie traverse una classica economica ma dignitosissima che in mezzo alle altre due pareva la chitarra da concerto del Maestro Segovia.

    Per onor di cronaca devo confessare che proprio con la chitarra di mio zio avevo tentato di prendere qualche lezione di gruppo a dodici anni da Savino, un mastodontico cumulo di muscoli di due metri con la testa coronata di riccioli angelici e la voce gentile. Ma all’epoca l’unico momento che sapesse accendere il mio genuino interesse durante la sessione didattica si riduceva a quando io e Frenk chiedevamo al gigante buono di girare la lavagna davanti alla classe, naturalmente dopo averci vergato col gessetto un enorme cazzo in eruzione. Com’era quella frase?

    ‘Date a un uomo un foglio e una matita e lui ci disegnerà un pene.’

    Figurarsi, una lavagna con un gessetto erano un’accoppiata irresistibile per me e Frenk, odiosissime canaglie interessate più che altro a fiondarsi nella vicinissima sala giochi del bar Veneto non appena si dichiarava conclusa la lezione.

    Mi ricordo che una volta chiedemmo a Savino di insegnarci Touch me di Samantha Fox, ma lui, dopo aver drizzato le orecchie su quei vocalizzi così smaccatamente lascivi anche per chi non capiva mezza parola di inglese, puntualizzò che quelle ‘non erano canzoni adatte a noi’. Peccato Savino, per una volta che la nostra attenzione si era focalizzata più sulla musica che sul disegno, arrivi tu e rovini tutto. Sarei potuto diventare il nuovo talento della classica italiana e invece niente, vado a spaccare la faccia a Frenk a Street Figther.

    Le ragioni principali del totale disinteresse verso quelle lezioni credo fossero da ricercare nel mio cupo passato da aspirante tastierista, un passato frustrato e sabotato da mia madre, che di comprarmi una vera tastiera non ne volle proprio sapere (psicanalisti fatevi un appunto).

    La mia infatuazione per quello strumento nasceva da una Bontempi giocattolo sulla quale verso gli otto anni cercavo disperatamente e fallimentarmente di imbastire qualcosa che avesse un senso. Nonostante fosse evidente pure ai muri l’attrazione viscerale per quella manciata di tasti bianchi e neri, l’assoluta mancanza di cultura musicale in casa Galassi fece sì che non venni mai incoraggiato né spinto a frequentare qualche corso. Venni semplicemente lasciato con quella inutile Bontempi giocattolo a pigiare roba a caso nella camera da letto di mia nonna Filomena. E infatti in chiesa o all’oratorio la prima cosa che cercavo di fare era mettere le mani sull’organo: suonare quel Do di straforo, in fretta, prima che arrivassero Don Sandro o Don Elio a darmi un cicchetto era l’unico motivo valido per perdere tempo con quella gente pagata dallo stato per propinarci storielle così sfacciatamente incongruenti.

    Ragionandoci ora, credo che le lezioni di chitarra da Savino fossero un maldestro tentativo dei miei genitori per deviare il mio interesse dalla tastiera, uno strumento che secondo mia madre occupava troppo spazio in casa. Ma non potevano sapere, poveri ingenui, che così facendo un giorno sarei approdato incattivito all’elettrica, arrivando a sfiorare vette di molestia domestica e condominiale che forse era meglio comprargli un organo a canne e piazzarlo in quel buco di salotto, avrebbe dato sicuramente meno fastidio.

    Comunque, in quel fine 1993 il bagaglio tecnico portato in dote dalle inutili sedute di gruppo con Savino si esauriva in un primordiale giro di Do che spesso e volentieri si incartava quando passavo dal La minore al Re minore. Ricordo che gli accordi di Fa e Si rimanevano ancora totalmente inaccessibili a causa del barrè, il primo vero spauracchio che incombe su chi approccia le sei corde. Thristo e Struso non andavano meglio. C’era poi da affrontare la delicata questione della spartizione dei ruoli, anche se per il momento si sarebbe trattato di una decisione puramente ideale visto che avevamo solo quei tre catorci per le mani.

    Non ricordo se ci furono discussioni o frizioni sul tema, ma una sera, sbragati sul divano di Struso, io e Thristo ci autoproclamammo chitarristi fregiando Struso del titolo di bassista. In effetti lui i tratti tipici del bassista ce li aveva tutti: pacato, comodo, misurato. Diversissimo da me che ero già all’epoca un iperattivo provocatore con la sferzata dissacratoria sempre in canna, diversissimo dal cugino Thristo, più l’uomo dell’ironia quasi sempre rotonda e bonaria che non disdegnava però qualche puntatina nel sarcasmo anche acido. Potrei aggiungere che se Thristo era solitamente pronto a mettere in discussione il suo punto di vista senza farne una questione personale, riuscire

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