Èuna storia davvero bizzarra quella dell’Impero Romano d’Oriente, durato mille anni eppure avvolto da un velo di pregiudizio, impalpabile e tenace quanto una tela di ragno. Identificato con la capitale Bisanzio, città greca chiamata poi Costantinopoli e oggi Istanbul, nel periodo di massimo splendore estese il suo dominio su gran parte dei paesi affacciati sul Mar Nero e sul Mediterraneo, dall’Egitto alle Colonne d’Ercole, con solide radici in Italia e una sfarzosa vice-capitale a Ravenna.
Nel libro Lo Stato bizantino del 2002, la saggista Silvia Ronchey lo definisce una «superpotenza del Medioevo mediterraneo, un tentativo di stato laico, se pure dominato da un’ideologia ultraterrena, amministrato secondo il diritto romano classico da un’élite colta, cosmopolita e plurilingue». Eppure, il termine “bizantinismo” è sempre usato in senso negativo: evoca cavilli giuridici, tortuosità dilatorie, congiure di palazzo, decadenza. Persino i Bizantini si sarebbero sorpresi, a sentirsi chiamare così, visto che quel nome fu adottato solo nel Rinascimento e poi ripreso dagli Illuministi. Ma, come ricorda lo storico Alessandro Barbero, in un commento al libro di Ronchey: «Già prima dell’anno Mille il vescovo Liutprando di Cremona in missione diplomatica a Costantinopoli decise che quel mondo era un groviglio di putridume e di tradimento, dove oltretutto si mangiava malissimo. In epoca più vicina alla nostra, Hegel definì la storia bizantina tutt’intera «un disgustoso panorama di imbecillità».
Eppure, proprio a Bisanzio affondano le radici dell’identità slavo-ortodossa, con la sua conversione al Cristianesimo, le sue liturgie, l’uso dell’alfabeto cirillico. Un’eredità forse ingombrante per l’Occidente latino e cattolico, infatti Barbero ricorda che «la lunga ombra di Bisanzio continua a stendersi sulle vicende