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Storie segrete della storia di Padova
Storie segrete della storia di Padova
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E-book325 pagine4 ore

Storie segrete della storia di Padova

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Info su questo ebook

Personaggi, misteri, intrighi e leggende tra le vie e i luoghi della città

Nel corso dei secoli Padova si è rivelata una città centrale per la cultura e la storia italiana. Questo libro cerca di svelarne nuovi aspetti raccontando tante piccole storie nascoste dietro quella più ufficiale. Dalla Padova prima che fosse Padova dei Veneti antichi, ai condottieri che l'hanno attraversata, come il principe spartano Cleonimo e in seguito Attila. In queste pagine si potrà rileggere il destino di tiranni sanguinari come Ezzelino, guerrieri impavidi come Stefano di Transilvania, si scopriranno i segreti che celano tele di capolavori che il mondo c'invidia, opere d'arte trafugate, ritrovate, recuperate. Ma troveranno spazio anche Ruzante, Palladio, Foscolo, in aspetti inediti. Nel Lazzaretto patavino prenderanno forma storie di stregoneria, sarà possibile immedesimarsi in uno studente forestiero del Cinquecento; verranno a galla le condizioni dei reclusi nella Casa di Forza di un tempo, e delle cosiddette donne di malaffare. Uno spaccato sociale utile per raccontare la città attraverso il suo ventre molle. È una Padova multiforme, dai mille volti, quella che Silvia Gorgi ci presenta, che miscela arte e umanesimo, scienza e magia, povertà e ricchezza, politica e potere, e in cui Joyce analizza il Rinascimento, Boccioni definisce la sua poetica, innamorandosi, e la morte di Berlinguer apre un giallo. Una Padova che, nella storia passata, trova le radici per costruire il suo futuro.

Padova protagonista tra simboli, leggende, volti e ricordi del passato

Alcune delle storie presenti nel libro:

• il sangue scorre a fiumi sotto il dominio di Ezzelino
• doppia fuga di Palladio dalla città
• cosa e chi si cela fra i volti e le allegorie di Giotto nella cappella degli Scrovegni
• il delitto del brillante anatomista Johann Georg Wirsung
• il tentato suicidio del letterato Gaspare Gozzi
• Gualberta Alaide Beccari e il suo magazine “La Donna”
• i segreti tormenti del giovane Umberto Boccioni
• il massacro delle Padovanelle riemerge in cronache recenti
• il giallo della morte di Berlinguer
• le nuove frontiere della ricerca sulla fusione nucleare
Silvia Gorgi
padovana DOC, giornalista, scrive di cinema, arte e nuove tendenze per le pagine di cultura e spettacolo dei quotidiani del gruppo editoriale L’Espresso. Alcuni suoi servizi di viaggio sono stati pubblicati da «Elle Italia» e «il Venerdì di Repubblica». Laureata in Scienze Politiche, dopo una specializzazione in Giornalismo all’università di Padova, è diventata responsabile di uffici stampa per associazioni, registi, attori, produzioni cinematografiche. Speaker radiofonica, ha ideato Nordest Boulevard, dapprima programma radio, oggi sito d’informazione. Ha curato mostre di artisti in Veneto e a Berlino. Dal 2010 vive fra Padova e Berlino.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2017
ISBN9788822715142
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    Anteprima del libro

    Storie segrete della storia di Padova - Silvia Gorgi

    Introduzione

    Giotto, Pietro d’Abano, Petrarca, Giusto de’ Menabuoi, Guariento, Donatello, Mantegna, Palladio, Romanino, Galileo, Copernico, Veronese, Vesalio, Harvey, Ruzante, Casanova, Foscolo, Morgagni, Beppe Colombo, Boccioni, Joyce…

    Nel corso dei secoli Padova si è rivelata una città centrale per la cultura e la storia italiana. Questo libro cerca di svelarne nuovi aspetti raccontando tante piccole storie nascoste dietro quella più ufficiale. Dalla Padova prima che fosse Padova dei Veneti antichi, in cui già allora fondamentale era l’allevamento dei cavalli da corsa, ai condottieri che l’hanno attraversata, alimentando la loro leggenda, come il principe spartano Cleonimo e in seguito Attila, fino alle personalità così caratteristiche delle donne padovane in epoca romana. In queste pagine si potrà rileggere il destino di tiranni sanguinari come Ezzelino, guerrieri impavidi come Stefano di Transilvania, si scopriranno i segreti che celano tele di capolavori che il mondo c’invidia, e le avventure che hanno subito, loro malgrado, opere d’arte trafugate, ritrovate, recuperate. Ma troveranno spazio anche Ruzante, Palladio, Foscolo, in aspetti inediti. Si indagherà circa l’omicidio del brillante anatomista, Wirsung, perpetrato da uno studente collega invidioso, si verrà a conoscenza del suicidio tentato da parte di letterati come Gozzi, si scopriranno figure femminili che, in epoche storiche differenti, hanno compiuto grandi passi verso l’emancipazione, come Bigolina in pieno Rinascimento o Gualberta Alaide Beccari con la fondazione della sua rivista «La donna». Nel lazzaretto patavino prenderanno forma storie di stregoneria, sarà possibile immedesimarsi in uno studente forestiero del Cinquecento; verranno a galla le condizioni dei reclusi nella casa di forza di un tempo, e delle cosiddette donne di malaffare in particolari momenti storici. Uno spaccato sociale utile per raccontare la città attraverso il suo ventre molle.

    È, dunque, una Padova multiforme, dai mille volti, che miscela arte e umanesimo, scienza e magia, povertà e ricchezza, politica e potere, e in cui Joyce analizza il Rinascimento, Boccioni definisce la sua poetica innamorandosi, e la morte di Berlinguer apre un giallo. Una Padova che, nella storia passata, trova le radici per costruire il suo futuro.

    padova prima di essere padova, il suo periodo romano, i suoi tiranni e guerrieri

    1. x-xii secolo a.C. Padova prima di essere Padova fra mito, scoperte archeologiche e allevamenti di cavalli

    Nel segno del mito e della tradizione è il 1185 a.C., l’anno in cui la figura leggendaria di Antenore risale il fiume Brenta per scappare da Troia e trovare nuova casa, e dopo aver scacciato gli Euganei, relegandoli a vivere a sud delle colline che ancora oggi portano il loro nome, fonda la città di Padova. Del resto Omero, come primo testimone, ci riporta i Veneti, traduzione latina di Enetoi , il nome che il poeta greco aveva dato a questa popolazione, nella tradizione letteraria conosciuti come popolo della lontana Paflagonia, regione nell’Anatolia, affacciata sul Mar Nero. Prima guidati da Pilemene, perito nel conflitto, poi da Antenore, caduta Troia, intrapresero la via del mare per cercare una nuova sede dove ricominciare la propria vita. Il fiume, il mare, l’acqua, sia nel mito che nella realtà, hanno sempre segnato il destino della città di Padova, quando ancora non era l’insediamento urbano che conosciamo.

    Se, nella prospettiva degli antichi, i Veneti approdarono sulle coste dell’alto Adriatico, fondando con Antenore Padova, non vi è riscontro puntuale da parte dell’archeologia che confermi tali vicissitudini, ma recenti ricerche datano il conflitto ellenico alla fine dell’età del Bronzo, tra il xiii e il xii secolo a.C., analizzandone le ragioni e ritrovandole nella volontà di controllo dell’Ellesponto, lo stretto di mare, dominato da Troia. Le testimonianze archeologiche, intorno al xii secolo a.C., confermano, d’altra parte, l’esistenza di un insediamento in una zona fortemente acquitrinosa, vista la presenza del fiume Brenta, per i Latini Medoacus. Del resto Patavium, il nome romano della città, si riferirebbe a Padus, fiume acquitrino, o antico nome del Po, che arrivava fino a qui, a testimonianza del profondo legame della città con le acque fluviali.

    È in questo periodo che, nell’Italia settentrionale, vengono abbandonati gli insediamenti basati sulle palafitte e, nell’età del Bronzo finale, l’intera penisola subisce un importante cambiamento con lo sviluppo del protovillanoviano, ossia nella pratica funeraria della cremazione della salma. Ma la nuova realtà culturale che si afferma coinvolge in maniera organica molteplici settori: dalle modalità insediative agli aspetti economici, ai rituali legati alla morte, nonché alle espressioni artistiche e tecnologiche.

    Nella zona nordorientale si afferma in via particolare il protovillanoviano padano, in una fascia di territorio piuttosto ampia e per buona misura riconducibile a quella che in tempi moderni è stata individuata come il Triveneto: zona compresa oltre il lago di Garda a ovest, a nord fino al Trentino Alto Adige, a est fino al Tagliamento, a sud fino al confine naturale del Po. Lungo questo territorio vengono abbandonati i grandi insediamenti arginati, nella parte bassa della pianura padana, e quelli che si reggono su palafitte, che avevano avuto particolare successo nell’area del Garda, e a nord si abbandonano gli insediamenti collinari sui monti Lessini e nell’area euganeo-berica. Fenomeno non del tutto compreso a oggi, tale spostamento favorisce una sorta di polarizzazione delle popolazioni verso una serie di punti strategici, in particolare per la loro posizione sul territorio, per la loro prossimità al sistema viario o fluviale.

    A partire dall’xi secolo a.C. questo assetto territoriale produce anche l’affinarsi della tecnica di lavorazione dei metalli, in particolare del bronzo, con manufatti che si diversificano e la cui utilizzazione si estende a più ambiti, da quello domestico all’agricoltura, da quello artigianale a quello ornamentale. Una fase storica che è di crescita economica, e che è insieme trasformazione sociale, culturale e soprattutto politica, poiché il ceto sociale che detiene il controllo della produzione e degli scambi diviene dominante.

    Nell’area di pianura, centro propulsore della civiltà degli antichi Veneti, emergono, come centri egemoni nell’estensione di territorio che va dall’Adige al Brenta, Este (Atheste) e Padova, a partire dall’viii secolo a.C. L’antica Padova, centro della cultura paleoveneta, sorge, dunque, sulle sponde del Brenta, il Medoacus Maior, che allora, e con buona probabilità fino al 589, scorre nell’alveo del Bacchiglione odierno, allora denominato Medoacus Minor. Se Este nasce come aggregazione di piccole comunità, a ridosso dei Colli Euganei, lungo un ramo dell’Adige oggi scomparso, Padova, lungo l’antico Brenta e non lontano dal Bacchiglione, si delinea in relazione alla sua posizione estremamente favorevole, in contatto con l’entroterra pedemontano e alpino, e vicina all’area lagunare. In piazza Castello recenti scavi archeologici hanno evidenziato proprio gli antichi insediamenti. Grazie alla sua collocazione la città diviene presto un grosso centro produttivo e commerciale, famoso per l’allevamento dei cavalli e la lavorazione della lana.

    La vita di Padova, prima di essere Patavium, è fortemente intrecciata a quella dell’ansa del Brenta e alla sua contro-ansa, e così sarà fino agli anni Sessanta del Novecento quando la politica decide di cancellare il passato e l’identità della città tombinando per sempre il fiume che ne attraversava il centro storico. Come lo aveva definito Tito Livio, lo storico padovano che dà il nome a un famoso liceo della città, «flumen oppidi medium», è il fiume che andrà a connotare gli insediamenti. Del resto era presente nella parte meridionale, a segnarne il confine, anche un canale di modesta portata; il tutto contribuì alla definizione di Padova come città-isole. Sulle collinette sabbiose, create nel corso dei millenni dalle esondazioni del fiume, sorgono le prime unità abitative, collocate in maniera sopraelevata per via dei possibili straripamenti. Il fiume, se da una parte è garanzia di vita e difesa, dall’altra è molto pericoloso per le piene. Da un punto di vista archeologico vi sono testimonianze dei primi insediamenti così sorti lungo le attuali vie viii febbraio, San Fermo, Santa Sofia, e delle opere contenitive del fiume in largo Europa; poi la creazione di fossati per il deflusso delle acque contribuisce a tenere sotto controllo le possibili inondazioni.

    Dal vi secolo a.C. si configura in città una specializzazione artigianale, materiali per l’edilizia e ceramiche, che porta al proliferare di case, officine, magazzini. E con l’inizio dell’urbanizzazione vengono destinate due aree specifiche per i defunti, sempre legate alla presenza dell’acqua, fondamentale sia per i riti che per l’elemento di simbologia, ossia lo scorrere della vita. La necropoli orientale, estesa per circa 500 metri, viene collocata su terrazze parallele al fiume, nelle attuali vie Belzoni, Tiepolo, San Massimo. Nella zona di via Umberto i, invece, si trova la seconda grande necropoli, di circa 600 metri. Al di là delle necropoli e delle aree abitate si estendono le coltivazioni, nei terreni più lontani la caccia, il pascolo e l’allevamento di cavalli, risorsa fra le più importanti per l’economia del Veneto antico.

    Gli stessi Greci percepiscono i Veneti principalmente connessi all’allevamento dei cavalli da corsa, al culto di tali animali, e ancora di più a proiezioni astrali soprannaturali legate ai destrieri. Basti pensare per esempio, in piena età classica, all’opera di Euripide, l’Ippolito, in cui il protagonista del dramma, figlio di Teseo re di Atene e della regina delle Amazzoni, dedito alla caccia e al culto di Artemide e per nulla interessato all’amore, è solito guidare una coppia di puledri veneti. Quando viene punito da Afrodite – che fa nascere nella seconda moglie di Teseo un’insana passione per lui che la porterà a impiccarsi, offesa dal suo mancato interesse, e a far ricadere la colpa su di lui – Ippolito fuggirà dalla città su un carro e i due cavalli veneti, per maledizione di Poseidone, s’imbizzarriranno grazie a un toro mostruoso che comparirà uscendo dall’acqua. E ancora, come ricorda il geografo e storico greco antico Strabone, Dionigi il Grande, signore di Siracusa, fa venire da questa zona il suo allevamento di cavalli da corsa; del resto lui, che aveva su entrambe le sponde dell’Adriatico delle colonie, ne possiede in particolare in prossimità di Padova, poiché vi si trovano la maggior parte degli allevatori. I cavalli veneti, allevati nella Padova prima di essere Padova, sono stati dunque fondamentali non solo per l’economia della città ma pure per gli elementi sacri e immaginifici di cui erano portatori.

    Da un punto di vista archeologico molti bronzetti raffiguranti cavalli sono stati ritrovati in un luogo di culto, il bacino lacustre che esisteva a Montegrotto, sorgente naturale di acqua calda. Sul finire dell’Ottocento è stato scoperto il sito, in particolare in relazione ad alcuni interventi edilizi realizzanti nel 1872 alle falde del monte Castello, in una zona oggi corrispondente a quella dell’Hotel Terme Preistoriche. Nel corso degli scavi sono emersi centottanta vasetti di ceramica e diciotto bronzetti, poi divenuti una trentina, oggetti dalla funzione votiva. In seguito a ulteriori indagini, fra il 1892 e il 1911, si è riuscito a stabilire la presenza in quel terreno di un bacino lacustre, un’area sacra, visto che sono venuti alla luce più di dodicimila vasi di terracotta, probabili offerte alla divinità, e resti di ossa, per pratiche rituali di sacrificio di animali. Non si conosce il nome originario di questa divinità veneta che gli antichi pagani credevano proteggesse le acque termali della zona, certamente maschile e naturalmente legata all’acqua salutifera, mentre è nota la sua denominazione latina Aponus, da cui deriva il nome moderno di Abano. L’etimologia riporterebbe un evidente riferimento all’acqua: deriva dal greco a-ponos, che significa appunto senza dolore. Tale etimologia, che richiama chiaramente un’intensa valenza religiosa e mistica, ricorre fino agli studiosi del secolo scorso come l’unica valida spiegazione dell’effetto benefico delle fonti termali euganee.

    I bronzetti ritrovati nel territorio riconducono al ceto sociale dei cavalieri, che vengono rappresentati sui destrieri con tratti somatici stilizzati, o come guerrieri all’assalto. Ma è interessante notare il ritrovamento cospicuo di cavallini privi di cavaliere, miniaturizzati, che secondo gli studiosi vanno interpretati o in relazione all’importanza dell’animale nel mondo dei Veneti antichi, o ancora in riferimento al culto nell’area sacra e al sacrificio da parte dell’eroe Diomede di un cavallo bianco in territorio veneto, o ancora, recente ipotesi, in relazione alle capacità risanatrici che le acque avevano anche nella cura degli animali, in primis del cavallo, qualora contagiati da malattie ed epidemie.

    Del resto la zona di Montegrotto e Abano Terme era ed è ancora oggi rinomata per le proprietà delle sue acque termali. E in epoca romana queste caratteristiche del territorio vennero fortemente valorizzate. A partire dal 49 a.C., data in cui Patavium e le terre vicine – Terme Euganee incluse – divennero municipium, si creò, sull’onda degli alti ceti di Roma, una classe alto borghese di patavini romanizzati, che diede grande importanza alle terme favorendo l’istituzione di bagni pubblici e di stabilimenti. L’antico santuario lacustre si trasformò in una ricca e articolata località termale, dove ci si recava per rinvigorire il fisico e la mente.

    Nel periodo romano i poteri benefici e curativi delle acque vengono svincolati da valenze di carattere religioso, pur conservandone alcuni aspetti, e ci si concentra sulla possibilità di sfruttare la risorsa per il suo valore benefico e curativo da una parte, ma pure per puro piacere, per benessere psico-fisico, per lusso. È in questa fase che il bacino euganeo diviene meta turistico-curativa, le acque patavinae diventano una moda cui la borghesia romana non riesce a sottrarsi, trascorrendo periodi di totale relax, di otia baiana – così erano chiamati – allontanandosi dalle incombenze quotidiane e dalle regole di vita civile. Si abbandonavano dunque al lusso, lasciavano cadere i freni inibitori, liberandosi dei costumi e abbracciando la promiscuità, che in epoca imperiale romana divenne uno stile di vita. Sorsero così, nell’area limitrofa alle vasche termali, viali ampi e alberati, giardini, fontane, biblioteche, sale di incontro, teatri, ville patrizie, il tutto documentato in forma ampia da ritrovamenti archeologici. La fons Aponi divenne famosa, e fu d’ispirazione per letterati e condottieri, se il poeta d’origine alessandrina Claudio Claudiano, dopo una visita avvenuta fra il 396 e 399 d.C. gli dedica il poema Aponus, e caduto l’Impero romano si ritrova testimonianza della zona nella lettera, divenuta celebre, del re degli Ostrogoti Teodorico che indica Abano come «ornamento del mio regno, famoso in tutto il mondo». E anche a Montegrotto avvenne la stessa cosa.

    2. 302 a.C. Il principe spartano Cleonimo: perché raggiunse Padova e ne venne sconfitto

    La via fluviale, che dalla laguna giunge a Padova per mezzo delle acque dell’antico Medoacus , attuale Brenta, si ammanta di mito e leggenda, quando a percorrerla per forse conquistare la città si materializza un eroe spartano, che tanto eroe non è, un condottiero, che è principe e re mancato. Una vera e propria battaglia navale sul Brenta, episodio festeggiato e celebrato, per secoli, con feste popolari, giochi e battaglie lungo il Piovego e in prossimità di ponte Sant’Agostino. La storia venne raccontata anche dal famoso storico del periodo romano, allora noto come una rock star dei tempi nostri, Tito Livio, che la colloca nel 302 a.C. A risalire la via del Medoacus , in un periodo in cui i Greci continuavano a spingersi a Nord, lungo le coste dalmate, è Cleonimo, signore di Corcira-Corfù.

    L’avventura e le sue segrete connessioni alla storia della città prendono piede con l’arrivo del principe spartano nella laguna di Venezia, dove attraverso l’antica foce del Brenta, il cui nome arcaico si perpetua oggi nel toponimo di Malamocco, inizia la sua risalita. Il Medoacus, per mezzo di canali artificiali scavati dall’uomo, conduceva a sinistra verso Adria, a destra verso Altino, mentre spingendosi nella terraferma portava a Padova, la cui entrata era preceduta dalla visione dei Colli Euganei sulla linea d’orizzonte. Per i navigatori dell’isola ellenica il mare sulla laguna era l’Adriatico, delimitato dal Po e dal Timavo. Prendeva il nome da Adria poiché essa divenne polo finale di due vie carovaniere fondamentali, che collegavano l’alto Adriatico con le regioni del Nord e del Centro Europa, l’una proveniente dal Baltico, l’altra dal Danubio. Questa seconda, detta argonauta, permetteva di raggiungere il Mar Nero. Il raccordo con Adria, venetica, etrusca, siracusana, veniva assicurato da un sistema di canali interni, e la via fluviale che conduceva a Padova, dove in seguito sorgerà Venezia, era parte integrante di un sistema idroviario.

    Superate le acque della laguna, giunto con la sua flotta al Lido di Venezia, Pellestrina, lo spartano si avventurò lungo le acque poco profonde che gli si fecero innanzi, e fu così costretto a spostare le sue truppe dalle navi da guerra a quelle di minore stazza, poiché la prosecuzione risultava impossibile per la scarsa profondità delle acque. Così racconta lo stesso Tito Livio. Cleonimo raggiunse tre villaggi, da ricercarsi, secondo la maggior parte degli storici, nelle aree basse di Sambruson, Lugo e Lova – dove un ramo dell’antico Brenta sfociava in laguna – e in quelle più alte di Campagna Lupia, saccheggiandoli e lasciando dietro a sé solo fuoco e fiamme. I suoi mercenari finirono per fare razzia di uomini e di greggi, incendiarono le abitazioni e si diressero verso altri siti, per puntare all’entroterra, probabilmente senza cognizione dell’obiettivo cui sarebbero giunti: Padova, dove gli abitanti erano all’erta, viste le continue incursioni dei Galli, stanziati sul delta padano.

    La notizia dell’incursione giunse presto nella città e subito si crearono due schiere, l’una mosse verso i villaggi saccheggiati, l’altra in direzione delle navi ormeggiate del nemico. I patavini sorpresero i soldati, li assalirono, li inseguirono e distrussero alcune imbarcazioni. La battaglia, che divenne confronto vero fra Greci e Veneti, con Cleonimo accampato a tre miglia di distanza, fece guadagnare allo spartano in tono sarcastico il titolo di re, e mise in contrapposizione i suoi mercenari con la gente del luogo. L’attacco repentino e l’impreparazione della flotta nemica forse denunciano, più che la voglia di conquista del comandante, la probabile ricerca di acqua e vettovaglie, o l’aver smarrito un percorso; certo è che prima della totale disfatta Cleonimo si dette alla fuga, e ripiegò verso il mare, con appena un quinto delle sue navi.

    In tutto questo, la ricostruzione che ne fa lo storico Braccesi, svela a noi alcuni segreti. Nella tradizione non si menziona mai il nome di un possibile condottiero della fronda patavina, un dux Patavinorum, il che potrebbe portare a due ragionamenti circa l’incursione descritta. Il primo vedrebbe la creazione della memoria del fatto storico, avvenuta a posteriori, in seguito al ritrovamento di relitti della flotta spartana, incagliati nei fondali del Medoacus. Rinvenimenti che, uniti a elementi simbolici, avrebbero potuto far affiorare un fatto d’arme mai avvenuto, compresa l’idea di due schiere patavine legate alla pura immaginazione, per rendere più suggestiva una celebrazione di tipo folcloristico. D’altra parte la mancanza di un possibile capo, o figura carismatica, sarebbe ascrivibile a una reazione da parte degli abitanti, non tanto strutturata e legata a una gerarchia, ma frutto della coalizione dei contadini verso un probabile invasore, e quindi dettata dall’emergenza. In tale accezione, la missione di Cleonimo non sarebbe stata spinta dalla ricerca di giungere a Padova, ma con buona probabilità era destinata ad altra località, ad Altino o Adria; Adria era in effetti colonia siracusana, e lo spartano giungeva proprio da lì. Si sarebbe, dunque, infilato nella via fluviale che conduceva a Padova per errore, venendo severamente punito dalla juventus patavina.

    3. 49 a.C.-450 d.C. I segreti delle donne padovane in epoca romana

    Di carattere. Così furono le donne patavine vissute nell’antichità e in particolare in epoca romana. Come è possibile conoscerne oggi la loro natura? Ci aiutano in tal senso sia le testimonianze degli autori antichi, sia gli oggetti rinvenuti nel corso dei secoli e conservati nel Museo Archeologico della città. Insieme forniscono elementi di grande interesse circa la conoscenza del mondo delle donne, e svelano segreti inerenti agli spazi e all ’ autonomia che andavano acquisendo, pur operando in una sfera distinta da quella dell’uomo. Le caratteristiche che emergono delle donne patavine sono legate al loro essere orgogliose, riservate, a tal punto da sembrare quasi dure. Difficili da piegare a un volere non condiviso. Se i reperti forniscono informazioni anche generiche sul mondo femminile, su come le donne impiegavano il tempo, si vestivano, o si rendevano più belle, vi sono alcune iscrizioni che rivelano nomi, legami familiari e affettivi, attività svolte. Oggetti, corredi funerari, monumenti a loro dedicati, divengono oggi chiavi di lettura per svelare la complessità, a tratti misteriosa, del mondo femminile antico.

    Padova entra in contatto con Roma fin dalle sue origini ­– fissate il 21 aprile del 753 a.C. – stringendo alleanza militare sotto la pressione dei Galli, stanziati prima sulle colline Beriche e poi sul delta. La romanizzazione della città prende forma tra il 49 e il 42 a.C., quando diviene ufficialmente municipium, e pacifica per quattro secoli, grazie in buona parte anche, tra le altre, all’attività di allevamento dei cavalli, che fa crescere a tal punto la città da renderla una delle più ricche dell’impero. Ne scrive la sua storia, nella monumentale opera Ab urbe condita in età augustea, lo storico Tito Livio, nato poco prima, nel 59 a.C., a Teolo. Di nobile famiglia, non partecipò alla vita pubblica e venne presto accusato di patavinitas, dai suoi detrattori, ossia di un certo provincialismo, critica che si scrollò di dosso ben presto, con il trasferimento a ventiquattro anni a Roma, dove diventò amico dell’imperatore Augusto, iniziò a godere di prestigio, e dove si costruirà tassello su tassello la fama che lo riporta a noi come uno dei più grandi storici del suo tempo. Le usanze del mondo femminile sono tracciate anche dallo storico padovano, di cui nel 2017 sono ricorsi i duemila anni dalla sua morte (17 d.C.).

    Padova, in quel periodo, si stanzia dopo Roma e Cadice come terza città più importante dell’impero, e fa

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