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Le incredibili curiosità di Venezia
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E-book357 pagine5 ore

Le incredibili curiosità di Venezia

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Una città dall’inesauribile bellezza, i cui angoli celano storie ancora da scoprire

C’è un universo di vicende particolari e misteriose sulla storia di Venezia, nascoste in documenti d’archivio inediti o poco conosciuti. Solo per citarne alcune: il piede del Tetrarca lasciato in Oriente e ritrovato nel 1966, la figura misteriosa del medico e mago Leonardo Fioravanti coinvolto in un efferato delitto, Casanova innamorato del castrato Bellino, la paura, negli ultimi anni del Quattrocento, della fine del mondo e del diluvio universale, il frate di San Giobbe sepolto vivo in chiesa dai suoi stessi confratelli. Ma anche Giustina Renier Michiel, la donna che per prima tradusse Shakespeare in italiano, il teatro dell’Opera e il mondo degli impresari e degli artisti, Vivaldi e le putte del Choro, che forse orfane non erano, i bambini abbandonati dell’Ospedale della Pietà, le stranezze delle botteghe degli artisti, il gioco d’azzardo, i Casini e la nave dei folli ancorata a Piazza San Marco. Tante storie che parlano del fascino, del mistero e del cuore segreto di una delle città più incredibili al mondo.

Il piede del tetrarca
L’arsenale e gli arsenalotti
La nobile dama veneziana che finì sul rogo nello Stato da Mar
Il campanile di Venezia
Alvise Gritti, il figlio del doge che volle farsi re
Leonardo fioravanti medico e mago
Il misterioso teatro di Giulio Camillo Delminio
Federico Gualdi, un rosacroce a Venezia
Il frate sepolto vivo: gli strani rituali dei frati francescani di San Giobbe
Il monastero delle vergini
Magia in convento
Giustina Renier Michiel, la prima donna che tradusse Shakespeare

Lara Pavanetto
Laureata in Storia delle istituzioni politiche e sociali presso l'università Ca' Foscari di Venezia, ha studiato in particolare l'amministrazione della giustizia penale della Serenissima tra Cinque e Seicento scovando negli archivi processi e documenti inediti. Ama riportare alla luce storie sconosciute e insolite del passato e raccontarle.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ott 2019
ISBN9788822738035
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    Anteprima del libro

    Le incredibili curiosità di Venezia - Lara Pavanetto

    Il piede del Tetrarca

    Venezia nasce bizantina e tale si mantiene per alcuni secoli. Philadelphion, che significa amore fraterno, era denominata la piazza di Costantinopoli da cui proviene il gruppo in porfido dei quattro imperatori in abito militare che si abbracciano, i Tetrarchi, asportato nel 1204 dai veneziani e collocato ad angolo presso la Porta della Carta di Palazzo Ducale. Nel 1966 gli archeologi ritrovarono nella rotonda del Myrelaion presso la Bodrum Camii, a Istanbul, il piede sinistro e lo zoccolo che i veneziani non erano stati capaci di staccare nel 1204 e che erano poi stati integrati in pietra d’Istria. Quel piede di tetrarca lasciato a Costantinopoli simboleggia materialmente il legame fra Venezia e l’impero bizantino.

    I veneziani o venetici come li chiamavano i bizantini, elaborarono nel x secolo una leggenda, di cui si ha notizia nell’opera di Costantino vii Porfirogenito, imperatore di Bisanzio dal 913 al 959, secondo cui la loro città era stata fondata in un luogo deserto, disabitato e paludoso al tempo dell’invasione di Attila, quando il re unno devastò la terraferma veneta distruggendo Aquileia e altri centri minori. Il racconto serviva a nobilitare l’origine della città lagunare legandola a un avvenimento drammatico che colpiva fortemente l’immaginario collettivo. Ma la realtà era più modesta: i veneziani non si insediarono in territori deserti e la migrazione ebbe luogo in un lungo arco di tempo. Le isole in cui si sarebbe formata Venezia erano abitate già in epoca romana, forse vi esistevano insediamenti di una certa importanza o più semplicemente poche case isolate o al massimo piccoli villaggi. In una lettera del 537-538 a.C. di Flavio Aurelio Cassiodoro, un romano che fu ministro dei re ostrogoti, nella quale si ordinava il trasporto per nave di rifornimenti alimentari dall’Istria a Ravenna, troviamo la descrizione della laguna delle origini. Le navi dovevano passare attraverso la rotta interna dei Septem Maria da Ravenna ad Altino e, di qui, ad Aquileia, territori sotto il controllo dei tribuni marittimi delle Venezie. Cassiodoro descrive l’ambiente lagunare e anche i suoi abitanti, che avevano le case: «Alla maniera degli uccelli acquatici», con le barche legate fuori come se si trattasse di animali, e la cui unica ricchezza consisteva nella pesca e nella produzione del sale. Il longobardo Paolo Diacono nell’viii secolo scrive addirittura che: «La Venezia non è costituita solo da quelle poche isole che ora chiamiamo Venezia, ma il suo territorio si estende dai confini della Pannonia al fiume Adda, come provano gli Annali in cui Bergamo è detta città delle Venezie». Paolo Diacono fornisce anche una spiegazione dell’origine del nome veneti: «Il nome Veneti in greco significa degni di lode».

    Lo scandalo della forchetta

    Nel 1071 quando fu eletto doge Domenico Silvo, Venezia contava circa ottantamila abitanti. Un numero considerevole se si pensa che nell’Europa dell’epoca, un centro con più di ventimila o già diecimila abitanti era considerato di notevoli dimensioni. Venezia dunque apparteneva al novero delle grandissime. Nel solo centro della laguna, escluse Murano, Torcello e le isole, le chiese erano ben settanta. I numerosi abitanti erano naturalmente distribuiti nelle isole e nei singoli isolotti, ciascuno dei quali organizzato come una piccola città autonoma, riproduceva su scala minore gli organi essenziali del centro dominante.

    Il doge Domenico Silvo aveva sposato in seconde nozze una bellissima donna bizantina, Teodora sorella dell’imperatore Michele vii Ducas, che fece conoscere costumi e usanze orientali che suscitarono nei veneziani grande riprovazione. La bella Teodora portò con sé l’igiene, la pulizia, e tanti profumi e unguenti che diventarono subito oggetto di maldicenze, allusioni velenose e scandalo. Al mattino si detergeva il volto con la rugiada raccolta appositamente dai suoi schiavi, poi si profumava con un’infinita varietà di acque odorose, e infine si abbigliava con vesti suntuose anch’esse cosparse di balsami e profumi orientali. Indossava sempre dei guanti, e non mangiava con le mani! Era compito degli schiavi eunuchi addetti alla sua persona tagliare a pezzetti la carne, che la bella dogaressa portava alla bocca servendosi di uno strumento ignoto ai più, a quei tempi, in Occidente: una forchetta d’oro a due denti. La cosa suscitò tanto scalpore che San Pier Damiani citò il fatto in una sua opera, rimproverando la dogaressa e accusandola di cedere alla mollezza orientale. La bella Teodora non fece una bella fine. Si ammalò forse di lebbra, e il suo corpo si coprì di macchie, pustole, eruzioni orribili. Naturalmente molti ne attribuirono la causa all’uso smodato che la donna faceva di profumi, oli e unguenti. E la malattia fu letta come un segno della punizione divina. Fu dunque forse la povera Teodora a introdurre in Veneto l’uso della forchetta che in effetti è denominata piron dal greco peirò cioè infilzo.

    Venezia e il mare

    Alla Gran Bretagna sono da sempre riservati onore e gloria per il suo passato marinaro, ugualmente non si può dire di Venezia malgrado la sua grande storia di potenza marittima. Le biblioteche britanniche sono più ricche di libri e saggi sul potere marittimo veneziano di quanto non lo siano le nostre. Infatti, la marina veneta, con il suo bagaglio di storia e tradizioni, non è a oggi considerata parte delle marine preunitarie, gruppo di cui fa parte invece la marina del papa, anch’essa, come quella veneta, assorbita dopo l’unità, e sicuramente meno famosa di quella veneziana. La marina veneta, dopo l’annessione all’Austria nel 1814, passò in quella che fu chiamata Östererreichische-venezianische Kriegsmarine (marina da guerra austro-veneta) che fu poi cancellata con la rivolta del 1848. Nonostante ciò non scomparve, ma continuò a esistere con un altro nome sino al 1866 quando il Veneto fu annesso allo stato italiano. Nei primi anni del regno d’Italia la marina sabauda combatté proprio contro la marina austro-veneta, e a Lissa (1866) oltre il cinquanta per cento del personale imbarcato a bordo delle navi austriache era di origine veneta.

    1.tif

    La traslazione del corpo di san Marco nella cappella del Palazzo Ducale in un’antica xilografia.

    Il potere marittimo veneziano era stato la ragione stessa dell’esistenza della città stato. Nell’anno 829 arrivarono a Venezia, provenienti da Alessandria d’Egitto, le reliquie di San Marco trafugate da una spedizione capitanata da Rustico di Torcello e Buono di Malamocco. Nacque il mito del martire Marco, proveniente dal mare, che divenne il protettore della città. Ma San Marco non fu l’unico mito di Venezia. Vi fu infatti anche il trafugamento del corpo di San Nicola, antico patrono dei marinai, mito che per opportunità politiche fu fatto cadere e passare nell’oblio per non entrare in contrasto con Bari che era pur sempre un alleato nell’area di Otranto, porta dell’Adriatico. Venezia era situata nel punto più interno dell’Adriatico, a metà strada fra Oriente e Occidente, sull’unico grande itinerario marittimo del commercio medievale, era un porto mediterraneo, ma era così a nord da trovarsi quasi nel cuore dell’Europa, il punto su cui convergevano tutte le vie di traffico terrestri e marittime.

    Venezia aveva il primato nella produzione di libri e carte nautiche. La più antica carta a noi giunta è quella di Pietro Vesconte, edita a Venezia nel 1311: rappresenta il Mediterraneo centro-orientale e il Mar Nero. Venezia sfidava di volta in volta Costantinopoli a oriente e il papa e il Sacro Romano Imperatore a occidente, sempre ostinatamente gelosa della propria indipendenza. Sebastiano Venier, l’eroe della battaglia di Lepanto, scrisse in merito alle fortune di Venezia: «È di vantaggio noto che cotesta Serenissima Patria riconosce i suoi avventurati principii dalla disciplina nelle cose di mare, con amplificazione di sua grandezza e gloria». Senza sbocco nella terraferma per lungo tempo perché confinante con stati ostili, condizionata da un papato avversario e limitrofo, avversata sul mare da pirati e marine che ne mettevano a rischio le vie di comunicazione, ma legata al mare per poter commerciare e vivere, Venezia investì il meglio delle sue risorse umane ed economiche nelle attività marittime. E quando decise di ampliare il suo dominio sulla terraferma, la modifica sostanziale della sua ragione d’essere la portarono a una progressiva decadenza.

    Di massima, i comandanti delle unità militari veneziane, detti sopracomiti, fino al Seicento erano nobili. I giovani aristocratici si imbarcavano presto come balestreri, per poi diventare nobili di poppa e quindi assurgere al comando, se scelti dal collegio della Milizia da Mar, simile all’Admiralty Board britannico. La marina da guerra era comandata dal Provveditore generale da mar, mentre il comandante della squadra era detto Capitano da mar. Entrambi gli incarichi erano assegnati dal Senato della Repubblica. A bordo delle navi vi erano poi quelli che chiameremmo i sottufficiali: il nostromo detto comito, i sottocomiti (di solito due esperti nella conduzione della nave), l’aguzzino, il pilota (l’ufficiale di rotta), i calafati e marangoni addetti allo scafo, e lo scrivano ovvero colui che aveva il compito di curare la compilazione dei libri di bordo. Gli arcieri si occupavano dell’artiglieria e all’occorrenza lanciavano dardi contro le fanterie delle navi avversarie, mentre i fanti di marina dovevano essere pronti all’arrembaggio. I rematori erano detti buonavoglia se volontari, e obbligati se di leva. A partire dal xiv secolo molti di loro furono scelti tra i prigionieri e i condannati visto che, comprensibilmente, era sempre più difficile trovare chi volesse fare questo ingrato lavoro. Per trovare rematori Venezia sfruttò anche l’afflusso d’immigrati dall’esterno, e la terraferma grazie al servizio di leva obbligatorio. Molte cittadine avevano facoltà di consegnare o rematori nel numero richiesto o soldati in numero quattro volte superiore. I viaggi erano lunghi e faticosi e non era facile trovare marinai, così a Venezia si procedeva secondo un uso che la marina britannica farà valere fin oltre il xviii secolo: se la sera precedente la partenza gli equipaggi non fossero ancora stati completi, il nostromo girava le bettole del porto rastrellando ubriachi, li portava a bordo e costoro si risvegliavano il mattino successivo in mare aperto.

    Nella marina mercantile esisteva la figura dei patroni solitamente di origine modesta, che comandavano le navi mercantili. Figure a metà strada tra comandante e mercante che, per prendere il comando, dovevano avere almeno dieci anni d’imbarco. Un elemento che univa tutti questi personaggi è, per quanto incredibile, una scarsa preparazione nell’arte del navigare. Nel Mediterraneo non era poi così necessario essere provetti nelle materie nautiche, ciò che contava era l’esperienza. Ma con la scoperta delle nuove vie marittime che si aprivano verso le Indie sia occidentali sia orientali, la situazione cambiò e l’esperienza non bastò più. La maggior parte delle marine del Seicento avevano dei nobili a bordo in qualità di comandanti. Talvolta non erano proprio così capaci e capitava che mettessero a rischio la nave e l’equipaggio. A Venezia, il patrizio al comando dell’unità da guerra era di solito un mercante che fin da bambino aveva navigato.

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    La vita a bordo. Particolare da un’incisione di Theodor de Bry (

    xvi

     secolo).

    La marina mercantile era, di fatto, il serbatoio cui la Repubblica attingeva per avere a bordo delle navi da guerra esperti marinai. Tuttavia già nel 1710 ben quarantasei bastimenti su settantasette complessivi, battenti bandiera veneta, erano comandati da stranieri. Fin dal Seicento ispezioni e inchieste avevano evidenziato che i comandanti veneziani possedevano un’esperienza, un’abilità e una volontà di livello inferiore ai loro predecessori del Cinquecento. La formazione in campo nautico e militare fu a lungo trascurata. Il primo a tentare l’istituzione di una scuola apposita fu Andrea Musalo, un matematico di origine cretese che, nel 1697, fu chiamato a insegnare nautica presso le Procuratie, ma dopo breve tempo, per ragioni finanziarie, il suo insegnamento fu cancellato. Pochi anni dopo, nel 1707, furono chiamati presso i cantieri veneziani esperti inglesi mentre esperti veneziani furono inviati in Inghilterra per imparare tutte le novità riguardanti la costruzione navale, ma tutto si risolse in un nulla di fatto. Ugualmente nel 1711 all’ambasciatore veneziano a Londra, Pietro Grimani, si chiese di reperire alcuni esperti di navigazione e tecnici disposti a trasferirsi a Venezia per aprire uno studio di nautica. Anche in questo caso il progetto non ebbe successo.

    Successivamente, alla notizia della nascita dei porti franchi di Trieste, Fiume e Ancona, il Senato promosse nel 1733 l’istituzione di due corsi di insegnamento di nautica, uno a Venezia, finalizzato al commercio, e l’altro a Corfù, allo scopo di aggiornare il personale militare. Al matematico Giovanni Poleni fu chiesto di indicare chi secondo lui avesse i titoli per tali incarichi. Egli, che puntava a un insegnamento fortemente caratterizzato dalla scienza, indicò tre matematici, privi però di conoscenze nautiche. La decisione fu temporaneamente sospesa perché non di gradimento ai ceti mercantili, ma per Corfù fu scelto il capitano Francesco Bronza di Perasto.

    Solo nel 1739 aprì la Scuola Nautica su volontà del Senato della Repubblica. L’insegnamento della nautica in realtà era già stato immaginato nel 1673 su spinta di un fiammingo abitante a Venezia, Giovanni Clar, e accettato dal Senato nel 1680, con l’istituzione di una cattedra presso la scuola di San Nicol dei marinarium. Ma tutto il progetto fu poi abbandonato per mancanza di fondi. Nel 1745 fu istituita a Padova la cattedra di Teoria nautica e architettura navale affidata a Gian Rinaldo Carli. Dopo pochi anni però, nel 1750 la cattedra fu soppressa essendone stata verificata l’inadeguatezza della sede e degli insegnamenti.

    Gli schiavi

    Il commercio degli schiavi per i veneziani rappresentò per secoli un ottimo guadagno, e non fu facile rinunziarvi malgrado le prediche del papa che lo definivano un peccato gravissimo. Ufficialmente i veneziani dichiaravano che nessuno schiavo doveva essere acquistato, né adulto, né fanciullo, per poi essere rivenduto. Così recitava un documento dogale del 960 firmato dal doge Pietro iv Candiano. Ma, in realtà, il traffico degli schiavi andava avanti regolarmente. Angli, sassoni, circassi, ebrei, tartari, slavi, mongoli, africani, a seconda dei periodi e delle guerre soprattutto. Un decreto del Senato del 1361 stabilì che ogni nave non imbarcasse più di quattro schiavi per ogni membro dell’equipaggio. Così una nave di media stazza, con cinquanta uomini di ciurma, poteva caricare duecento schiavi. In un documento dell’Archivio di Stato, datato Venezia 3 giugno 1588, si legge: «Havendo risoluto messer Giovan Ambrosio Benedetti andare in le parti di Segna (Croazia) per compra de schiavi, si dichiara per la presente che detto Benedetto ha ricevuto in contanti ducati quattrocento correnti moneta di Venetia per doverli impiegare insieme con altrettanta somma sua propria in detta compra de schiavi di nation Turca, quali havrà a far condurre o condurre a spese comune in Genoa dove ne farà vendita a qual maggior pretio si potrà».

    Un quaderno di spese per schiavi, datato Fiume 19 giugno 1588 precisa che: «Per costo de 24 sacheti per le cadene, L. 28; per costo dei 12 colari et altrettante manete L. 63; per costo de 13 schiavi et una schiava, comprati, cioè sette a ducati 40, cinque a ducati 25 et un altro garzoneto (bambino) per ducati 14».

    Il traffico di schiavi non cessò del tutto neppure a Seicento inoltrato. Il provveditore di Cattaro Gianfrancesco Orio, riferiva nel 1661 che doveva attentamente controllare affinché tra gli schiavi non vi fosse qualche cristiano o suddito veneziano, ma che il commercio non poteva esserne impedito perché era il principale se non l’unico «quotidiano sostentamento» delle genti del luogo.

    L’Arsenale e gli arsenalotti

    Barca xe casa recita un vecchio proverbio veneziano, confermando quanto la marineria sia sempre stata vitale per Venezia. In una città creata dal mare, la cui fortuna arrivava tutta dal mare, l’Arsenale era il cuore pulsante. Si tratta di un antico complesso di cantieri navali e officine, che costituisce ancora oggi una parte molto estesa della città alla sua estremità orientale. Arsenale è una parola araba, darsina’a, che arriva da Oriente come tanto altro a Venezia. L’Arsenale fu il maggiore cantiere navale d’Europa fra il 1400 e il 1600. Infatti, dei sette milioni di ducati d’oro che costituivano le entrate annue della Repubblica, cinquecentomila erano sempre accantonati per le sue esigenze. Cento fabbri lavoravano incessantemente a dodici fucine, tre erano le fonderie e un gigantesco deposito di legname stagionato era sempre a disposizione. Un ordine permanente stabiliva che al primo allarme fossero messe in mare ottantacinque galee pronte al combattimento, quanto bastava per mutare a quei tempi l’equilibrio della potenza navale nel Mediterraneo. Nell’Arsenale si costruiva solamente la marina da guerra, quella commerciale era affidata a imprese private. Il lavoro era sempre molto, le navi andavano fuori uso dopo cinque anni. Dalle più grandi galee ai più piccoli battelli, le forge e le carpenterie erano sempre in attività. Questa immagine di incessante lavoro e di fuoco Dante la rese assai vividamente paragonando l’Arsenale veneziano a una cerchia dell’Inferno agitata e feroce, dove i diavoli si accaniscono torturando i dannati. Si deve agli arsenalotti paragonati da Dante ai dannati, alla loro particolare e numerosa comunità di lavoratori, se il cantiere di stato veneziano divenne quel luogo grandioso dal quale si sviluppò la potenza navale della Serenissima.

    Fu intorno al 1104 che il governo della Repubblica decise di realizzare un cantiere denominato Arsenale nella parrocchia di San Martino di Castello, al posto dei vari squeri(cantieri) che erano dislocati in vari punti della città, e che rappresentavano dei rischi concreti per le abitazioni vicine, potendo generare incendi. La zona fu scelta per la disponibilità di vasti terreni liberi da costruzioni, e per lo specchio d’acqua naturale sufficientemente profondo, che consentiva un notevole risparmio di tempo e denaro nella realizzazione di una grande darsena. Il termine arsenalotto nasce nel Medioevo e identifica la comunità di artigiani presente nel sestiere di Castello, con il luogo dove essi lavoravano. La loro fu una comunità assai unita, che conservò per centinaia d’anni i segreti professionali trasmettendoli di padre in figlio, assieme a tutte le usanze, tradizioni ed espressioni linguistiche che ne fecero un gruppo esclusivo nel panorama veneziano. C’erano artigiani, uomini e donne, mastri delle varie professioni, dirigenti amministrativi e tecnici. A capo di tutto, il magnifico Ammiraglio, il sopraintendente generale dei cantieri di stato, un esperto marinaio di grande autorità che dirigeva direttamente una dozzina di sopraintendenti ai magazzini e varie squadre di stivatori e di manovali. L’Ammiraglio organizzava il loro lavoro in modo che quando una galera era prossima al compimento essa si muovesse lungo una specie di linea di montaggio. L’Arsenale era l’officina delle meraviglie che lasciava stupefatti i visitatori stranieri autorizzati a entrarvi, tanta era la ricchezza e il pregio dei materiali navali e bellici che vi prendevano vita. Nel 1436 lo spagnolo Pero Tafur scrisse di aver visto allestire di tutto punto, pronte a prendere il largo, ben dieci galee nello spazio di sei ore. Le galee erano le grandi imbarcazioni di stato, vere e proprie macchine da commercio e da difesa, che divennero i gioielli della Serenissima e il simbolo dell’Arsenale. Uscivano dal cantiere cariche di merci, in mude, vale a dire in convogli organizzati da sei, otto, dieci galee tutte armate, per assicurare la difesa ai commerci veneziani, estesi lungo le coste del mare Adriatico e del Mediterraneo.

    Gli arsenalotti erano indispensabili per Venezia, e godettero con le loro famiglie di privilegi e riconoscimenti unici rispetto agli altri artigiani. Dal canto loro dovevano garantire continuità e dedizione professionale esclusiva, soprattutto nei periodi di guerra. Ma come si svolgeva il lavoro di questi operai specializzati? Immaginiamo la pece bollente che vide Dante, lo stridore delle seghe, i colpi cadenzati delle asce, il suono dei martelli sulle incudini. L’incessante e febbrile attività dei maestri carpentieri e dei calafati attorno agli scafi in costruzione o in riparazione. I cordai, i fabbri, gli scultori, i fonditori di cannoni, gli armaioli, i pirotecnici, i velai, i remai, i costruttori di alberi e di pennoni, i tornitori. Una città nella città. Migliaia di lavoratori organizzati in molteplici attività, il primo esempio di industria accentrata in Europa.

    A metà del Trecento la Repubblica aveva costruito quaranta case chiamate di pubblica ragione, destinate agli amministratori e dirigenti più importanti del cantiere. Il campo dell’Arsenale era il punto di raduno di tutte le squadre antincendio e il luogo pubblico nel quale si eseguivano le condanne comminate contro gli arsenalotti. I centri religiosi della comunità erano la chiesa della Madonna eretta nel xvi secolo e distrutta duecento anni più tardi da Napoleone, e la chiesa di San Martino dove i Proti (semplici artigiani che dopo anni di lavoro diventavano dirigenti tecnici e responsabili di gruppi di lavoro), ricevevano la loro investitura, come dei cavalieri.

    Esistevano tre corporazioni principali, quella dei marangoni da nave, dei calafati e dei segadori, raggruppate nell’arte degli squeraroli. Lo squerarolo era un ragazzo che iniziava a lavorare giovanissimo come garzone tuttofare. Dopo otto anni di apprendistato acquisiva la qualifica di lavorante da sottil o da grosso, a seconda delle dimensioni delle galere che costruiva. Dopo altrettanti anni di lavoro se aveva capacità, occhio e accortezza diventava mastro, responsabile costruttore di navi che a sua volta iniziava il praticantato ad altri garzoni, di solito figli o nipoti. Era necessario anche un gran numero di manovali con funzioni ausiliarie come i bastasi (facchini), i mureri (muratori), i favri (fabbri) e i segadori (segatori), che lavorando periodicamente non erano considerati veri arsenalotti.

    Un’importanza fondamentale spettava ai marangoni da mar, i carpentieri navali che approntavano l’ossatura delle navi, creando la chiglia. Operavano senza progetti, disegni e piani, eseguivano tutto a memoria in base alla loro esperienza.

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    Veduta della porta d’acqua dell’Arsenale in un’incisione di L. Carlevarijs.

    La presenza femminile fuori e dentro l’Arsenale era molto nutrita. Gli uomini a seconda del loro ruolo professionale spesso prestavano servizio all’estero o a bordo di galee per periodi più o meno lunghi. Molte mogli di arsenalotti in assenza del marito diventarono capi famiglia, costrette a lavorare e a provvedere da sole all’educazione e al mantenimento dei figli e spesso del resto della famiglia, come i fratelli e gli anziani. Queste donne erano chiamate le vedoe dell’arsenal, perché per anni non ricevevano più notizie dai loro mariti. Non potevano dimostrare il loro stato di effettiva vedovanza, non potevano risposarsi legalmente o chiedere la restituzione della dote, né ricevere una pensione. Molte donne erano impegnate nel cantiere di stato come operaie e mastre nei settori della veleria e della corderia. Oppure come artigiane a domicilio nel taglio e nella confezione di indumenti o di arredi per la casa. C’erano le scaletere che producevano biscotti speziati, le fornere che sfornavano il pane che serviva a soddisfare le richieste della comunità, le fruttarole che vendevano frutta, e le speciere che dispensavano a pagamento moltissime spezie come il pepe, lo zenzero, i chiodi di garofano e la noce moscata, largamente usate in cucina e come rimedi per la salute. Le arsenalotte che lavoravano nel cantiere di stato erano le sole a essere regolarmente assunte, a dover rispettare un orario e una disciplina di lavoro e a percepire settimanalmente un compenso. Gli appuntadori e i disappuntadori le registravano nei loro quaderni che quotidianamente aggiornavano, nei quali annotavano le entrate e le uscite dei lavoratori, maschi e femmine, ma anche di ragazzi e ragazze dai dieci anni in su, figli e parenti di arsenalotti. I bambini entravano mezz’ora dopo gli altri lavoratori e uscivano mezz’ora prima.

    Le velere, preposte al lavaggio in mare di grossi quantitativi di cotone e fustagno, che poi asciugavano stendendoli al sole e che alla fine tagliavano e cucivano nelle forme delle varie vele, erano pagate dai quattordici ai sedici soldi al giorno. Il loro numero variava tra le venticinque e le quaranta, e tra di esse c’era una mistra delle velle o mastra delle velle. Una dozzina di donne operava poi nella casa del canevo, la fabbrica delle corde, arrotolando e lavorando la stoppa. C’erano anche pochissime marangone che aiutavano il lavoro dei Proti carpentieri e che sapevano usare gli attrezzi della falegnameria e lavorare le tavole di legno necessarie per la chiglia di una nave. Queste donne avevano un giusto riconoscimento salariale, ma una scarsa autonomia e una difficile se non impossibile ascesa professionale. Anche le remere operavano accanto ai colleghi maschi, ma erano molto rare. Nel Seicento inoltre si ha notizia

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