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NELLA CUCINA DELLA SUA CASA DI DALLAS, lo chef Junior Borges prende una bottiglia di olio di dendê e, lentamente, versa una generosa quantità del liquido cremisi, ottenuto dalle palme da olio africane, in una pentola di moqueca. Mentre l’iconico stufato brasiliano sobbolle sul fornello e l’olio si riscalda, un odore pungente riempie la stanza, e l’espressione di Borges mostra un soddisfatto piacere. «Se devo rappresentare il Brasile, lo devo fare in maniera fedele», dice. «Per me non c’è nulla di più adatto della moqueca per raccontare dove sono cresciuto e la cultura locale». Oltre un ventennio fa Borges si è fatto pioniere di un approccio classico, ma dagli ampi orizzonti, al cibo brasiliano negli Stati Uniti, in grado di mettere in risalto la storia africana della nazione, e da allora non ha mai cambiato direzione. Per via del commercio transatlantico di schiavi, genti di origine africana costituiscono oltre metà del popolo brasiliano e le loro influenze sono parte integrante del tessuto tradizionale culinario del Paese: verdure africane come l’ocra e la patata dolce sono ingredienti sempre presenti nelle cucine brasiliane di ogni regione. Borges viene da Mimoso do Sul, a nord di Rio, ma come molti afrobrasiliani ha radici (dal lato di sua nonna) di Bahia, stato costiero del Brasile dove circa l’80% della popolazione è nera o multirazziale, e dove molte persone ridotte in schiavitù erano state forzate a lavorare nelle piantagioni di zucchero durante la colonizzazione portoghese. Le origini di molti dei piatti più amati di Bahia mostrano tracce dirette con l’Africa occidentale; tra questi le acarajé, frittelle di fagioli neri farcite di una pasta piccante di gamberi, dirette discendenti delle africane. Bahia è anche il punto d’origine della – ormai sinonimo di cucina brasiliana –, lo stufato che ribolle in sintonia con le vibrazioni pulsanti della diaspora nera del Paese. La nonna di Borges lo serviva sempre con un contorno di (tapioca, o cassava, tostata), che viene servita nella maggior parte dei pasti.