Una volta vidi il disegno di un mostro a mezzobusto: un testone calvo con solo qualche traccia di capelli rasati, le orecchie a punta, gli occhi rivolti verso lo spettatore, due grosse froge che si allargavano in una forma simile a due gigantesche lacrime per far posto a una colossale bocca spalancata. In essa si collocavano due file di denti acuminati altrettanto enormi dai quali stillavano gocce di bava. Sotto l’immagine, una didascalia che non ho mai scordato: «Antonio Topolino – non scrutinato», in contrasto evidente e voluto con lo schizzo: il terrore dell’immagine contro la prosaicità irridente dello scritto. Grottesco.
È questo ciò che mi è tornato in mente dai recessi della memoria – non so più da dove, nonostante le mie ricerche nella libreria, nei cassetti di casa e su Internet non ho ripescato l’immagine – quando ho cominciato a scoprire chi era El Petiso Orejudo, Il Piccolo Orecchiuto (1896-1944). Ora vi spiego il perché.
A fine Ottocento, in Argentina, la vita degli immigrati italiani era difficile, ancor più se si aveva un padre come Fiore Godino, alcolista, malato di sifilide e più che manesco: la moglie e gli otto figli (ma ci sono fonti che parlano di nove) venivano picchiati regolarmente, con o senza una motiva-zione. In particolare, Santos Cayetano subiva un triste trattamento speciale: il genitore lo colpiva al capo con la fibbia della cintura, mettendoci una tale violenza che da adulto conservò ben 27 cicatrici in testa. Il suo fisico, deformato dalla nascita e minato da problemi di salute a causa della malattia paterna (in particolare un’enteri-te lo portò varie volte a un passo dalla morte), con gigantesche orecchie e un corpicino con braccia eccessivamente lunghe, non ne avrebbe certo avuto bisogno. Grottesco.
Fin dall’infanzia, visse a stretto contatto con la morte, nei pressi di un macello, dove gli animali venivano uccisi senza tanti