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Un respiro di troppo
Un respiro di troppo
Un respiro di troppo
E-book307 pagine4 ore

Un respiro di troppo

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Info su questo ebook

 Può un uomo di colore, ricercato per omicidio, fuggire da New York, sbarcare clandestinamente in Sicilia, mischiarsi a un gruppo di migranti e tentare poi di costruirsi una nuova, inaspettata esistenza?  Joe intreccia la sua storia con quella di un giovane che spera in un cuore nuovo, di un tenace colonnello della Finanza che non vuole arrendersi al suo male, di un ex-poliziotto arabo in attesa di riscuotere il frutto di un furto milionario e di altri singolari personaggi. 
Uomini soli che cercano improbabili vie di fuga da un destino già scritto. Non basteranno il travaglio interiore e le drammatiche esperienze che si trascinano addosso: essi si troveranno, infatti, coinvolti in un’indagine sul tragico traffico clandestino di organi umani.
 Non c’è nulla di razionale nell’oscura realtà nella quale si muovono, ma ciascuno di loro non cessa di battersi per il proprio riscatto.
Joe potrebbe salvare se stesso, la sua libertà e forse anche la vita del suo giovane amico. Dovrà però accettare un rischiosissimo baratto.

Massimo Polimeni, catanese, è giornalista con un lungo trascorso da dirigente d’azienda. Ha scritto per il teatro, fondato e diretto IN.TEA (Iniziative Teatrali), realizzato documentari per la RAI. Ha a lungo vissuto all’estero (Seul, Tokio, New York), vive a Roma. Ha pubblicato “In Sicilia, un’estate” (2015) e “Quel che resta oltre il buio” (2017), entrambi editi da Nulla Die.
LinguaItaliano
Data di uscita8 gen 2019
ISBN9788829592005
Un respiro di troppo

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    Un respiro di troppo - Massimo Polimeni

    Massimo Polimeni

    Un respiro di troppo

    Questo libro è un prodotto di editoria libera e indipendente.

    www.wordsediting.net

    info@wordsediting.net

    Via degli artificieri 10 - 00143 Roma

    ISBN: 9788829592005

    Prima edizione gennaio 2019

    Per contattare l’autore:

    www.massimopolimeni.com

    https://www.facebook.com/Massimo-Polimeni-880200702112777/

    Progetto grafico copertina: Walter Ferrario

    In copertina: elaborazione di una fotografia di SKDESIGN/123RF

    Servizi editoriali a cura di Nativi Digitali Edizioni snc

    I fatti e i personaggi di quest’opera sono frutto di fantasia.

    Ogni somiglianza con nomi, luoghi e avvenimenti è da ritenersi del tutto casuale.

    A Dedy

    PRE

    Tu, che hai gli occhi troppo puri per sopportare la vista del male, e che non puoi tollerare lo spettacolo dell'iniquità,

    perché guardi i perfidi e taci quando il malvagio

    divora l'uomo che è più giusto di lui? (Abacuc 1.13)

    Non riusciva più a scorgerla. Il sangue scendeva dalle sopracciglia, un sipario tra lui e il martirio di Finuzza. Di quella momentanea cecità era grato a quel dio che per tutto il resto andava maledetto per sempre. Il primo fendente, inferto al minuscolo seno, quello no, non aveva potuto evitare di vederlo. La bocca gli era rimasta spalancata, atrofizzata nel goffo tentativo di urlare il suo orrore. La piccola era svenuta subito dopo quel primo squarcio al petto.

    Una seconda coltellata, sferrata alla gola, l’aveva uccisa.

    «Che fai stronzo? Lo sapevi che prima dovevamo bucarle le cosce e la pancia! Così l’hai ammazzata subito, minchione!»

    «Sbagghiai...» rispose laconicamente l’altro.

    Quella volta, inaspettatamente, il senso del dovere e il talento che impiegava nel suo mestiere avevano lasciato spazio a un filo di compassione.

    Pino Mustica, chiamato affettuosamente zu Pinu, si accasciò in una posa grottesca, le braccia, agganciate ai due rami di ulivo ne tenevano sollevato solo il torso, le gambe non riuscivano a ripiegare sulle ginocchia. Il sapore dolciastro del sangue gli aveva inquinato il palato e dal naso era iniziata una nuova irrefrenabile effusione.

    «Che minchia significa sbagghiai

    Sferrò altre due coltellate al tenero corpo ormai senza vita.

    «Diciamo che queste gliele abbiamo date prima…» Poi, sorridendo, si rivolse all’uomo appeso agli ulivi «Zu Pinu, chiediamo scusa, na fitinzia di travagghiu ficimu! Ti pare che ci piace fare ‘ste cose a ‘na picciridda? Ma tu appartieni a un pezzo di merda che troppi problemi ci ha procurato! Condoglianze per tua nipote.»

    Gli si avvicinarono e tagliarono le corde lasciandolo cadere sulle ginocchia.

    «Vai a dire al tuo padrone che questo è stato un gesto di rispetto, non abbiamo ammazzato né lui né te. Un atto di rispetto è stato. Da domani le cose cambiano, però!»

    I

    La stanza emanava l’odore dei medicinali, nauseante come quello dei malati. Zu Pinu considerò che stranamente quella roba non odora di nulla se abbandonata alla sua misera solitudine. Avvoltoi in attesa di una carcassa. Quando invece metti vicine tante scatole di farmaci, si scatena una sorta di sagra chimica. Pillole diverse festeggiano le nuove compagne. Antistaminici, cortisonici, antibiotici, analgesici, tutti in festa a sprigionare i propri effluvi. Era l’odore tipico degli ospedali, degli studi medici, delle farmacie e persino del cassetto del comò dove li riponeva.

    Il medico, un uomo di mezza età, spacciava la sua credibilità esibendo capelli e barba quasi completamente bianchi. Alla fine, sarà un cretino come tutti gli altri, pensò zu Pinu, nonostante le pergamene appese alle pareti con le quali celebrava se stesso.

    «Per tornare al suo problema, signor Mustica, lei mi dice di non ricordare molte cose di questa famosa giornata nella quale una cosa orribile è capitata a una sua parente. Ecco, si tratta semplicemente di un fenomeno di rimozione, un meccanismo di difesa col quale il suo cervello cerca di garantirle una vita più serena. Certo mi aiuterebbe avere più particolari su quella giornata.»

    «Non ho particolari da raccontarle.»

    «Ascolti, spesso la forza necessaria a mantenere nascosto l’evento e l’emozione latente, è di tale intensità da premere comunque da qualche parte. Voglio dire che questo fenomeno psichico può provocare problemi fisici o comportamentali che, alla lunga, potrebbero generarle un grande disagio nel vivere.»

    «Se è per questo, già ci siamo arrivati. Per essere onesti, io non ci tengo a ricordare quell’episodio, ma m’interesserebbe molto ricordare alcuni particolari. È per questo che sono venuto da lei.»

    «Lei vuole a tutti i costi ricostruire quei momenti, ma il suo istinto di autoconservazione ha creato un blocco nella sua memoria. Si può tentare con l’ipnosi regressiva. Potrei indirizzarla a un centro specialistico dove la praticano.»

    «No, va bene così, dottore. Va bene così, grazie.»

    La cosa su cui ragionava zu Pinu, dal giorno della tragedia, era come evitarne ulteriori alla sua famiglia. Uscendo dallo studio dello psichiatra, riaffiorò l’ansia di sistemare in qualche modo le cose. Doveva scongiurare una possibile faida che poteva nuovamente coinvolgere i suoi cari. Avrebbe chiesto a Don Frazzetta di ritenere chiusa quella vicenda. Non voleva si reagisse. A ogni azione avrebbe fatto seguito una reazione più violenta, rendendo ineluttabile il compimento della legge della dinamica applicata alla vendetta.

    Poi avrebbe dovuto togliere suo fratello Filippo dal nascondiglio nel quale lo aveva obbligato a vivere.

    Il pensiero, come al solito, si bloccò. La mente regrediva sempre a quel maledetto giorno. Ricordava ogni cosa, perfino il refolo tiepido di vento che gli asciugava le prime gocce di sudore. Immediatamente dopo, l’urto di una grossa pietra sulla testa, il rumore delle nocche che s’infrangevano contro il suo volto, le suole di gomma che gli flettevano le costole e i colpi di mazza all’altezza dell’ombelico.

    Ricordava le ombre che si muovevano al di là di quel velo rosso che lo annebbiava, le voci ben conosciute dei torturatori, il puzzo di sterco lasciatogli sotto il naso da uno scarpone intriso del letame della porcilaia accanto. Una cosa tuttavia non riusciva a focalizzarla: era sicuro ci fosse un terzo uomo, una presenza inquietante, un essere torvo che assisteva pazientemente all’opera demolitrice dei due compari sulla bimba di nove anni.

    Era l’immagine della iena che attende i resti del cibo dei leoni. Il pensiero di qualcuno che indugiava nell’ombra, in attesa di poter raccogliere la salma della nipote per portarla chissà dove, a farci chissà che, lo faceva vacillare sul ciglio di un cratere, con l’ansia di scivolare verso la follia. Un incubo perpetuo con la certezza che il tenero corpicino, candido più di quanto lo fosse la sua anima, servisse a chissà quali orridi commerci prima di essere carbonizzato in una delle discariche abusive controllate da quei vermi. Avrebbe voluto ricordare esclusivamente il martirio, se solo avesse potuto farlo. Ma gli occhi non avevano visto e le orecchie avevano perso quasi subito la voce della bimba. E per questo maledisse ancora una volta se stesso e Dio che non aveva voluto punirlo come avrebbe meritato.

    Rifocalizzò le cose da fare. Doveva convincere don Carmelo Frazzetta a fare a meno di lui. Era consapevole di esserne il punto di riferimento, l’uomo di cui si fidava ancora più del figlio. Proprio per questo, per l’affetto di don Carmelo, zu Pinu poteva sperare di essere lasciato libero d’andarsene. Non c’era più posto per lui nell’onorata famiglia. Non era in grado di servire il suo capo come aveva fatto nel passato. Non era la sua vita. Non più. E anche se la regola inderogabile impediva a chi ne faceva parte di poterne mai uscire sulle proprie gambe, l’uomo confidava nella comprensione del suo boss. Alla fine, avesse ricevuto un no, si sarebbe fatto esplodere il cervello in quello stesso momento, lì davanti a tutti. Sì, perché per salvaguardare i propri cari e il suo stesso onore, di alternative non ne aveva altre. Semplificando, gli bastava mettere in salvo suo fratello Filippo. Suo padre, sua madre e Salvatore, il fratello maggiore, erano morti anni prima. Sua sorella occupava stabilmente un letto d’ospedale dal momento in cui, accartocciandosi su se stessa, era crollata a terra, lì davanti a lui, urlando il nome di Finuzza, la sua bambina. Quella donna non sarebbe più uscita dal suo dolore e quei bastardi l’avrebbero risparmiata. Era condannata a vivere perché fosse consumata dal suo delirio, ogni giorno che le rimaneva.

    Il fratello di Finuzza invece lo avrebbe preso con sé a fare il pescatore, il lavoro che gli aveva insegnato suo padre e che aveva svolto sino a quando non si era associato al clan dei Frazzetta. Ci avrebbe pensato lui a far crescere Giuseppe Mustica, il nipote, detto Pippo. Il ragazzo aveva sofferto anche troppo. Il padre se n’era andato al creatore poco dopo che la mamma era rimasta incinta e per questo lei lo aveva registrato col proprio cognome. E non era stato questo il solo dramma di quella donna: il secondo marito l’aveva lasciata quando Fina aveva appena cinque anni. Quell’uomo almeno si era evitato tutto quello strazio.

    E la mente fuggì ancora una volta e tornò a quell’ombra che assisteva al supplizio, seminascosta dagli ulivi, gli alberi della pace. C’era un altro uomo. Ne era convinto, nonostante tutti i tentativi di dissuadersi, di abbandonare quell’oscena presunzione, quella folle ubbia.

    Di certo, quel giorno nefasto, quando ebbe la possibilità di rialzarsi da terra e di guardarsi intorno, il corpo della piccola era scomparso.

    II

    Quindici anni dopo

    Non aveva bisogno d’alzare la testa per vedere due auto della Finanza che scendevano la rampa e imboccavano il molo del porticciolo di Ognina. Non erano ancora arrivati che la puzza degli sbirri già copriva quella del pesce.

    Continuò a riparare la palamitàra, muovendo con perizia l’ago sulla rete. La prima delle due auto improvvisamente accelerò, poi fece un testa coda e si ritrovò la vettura dei colleghi di fronte.

    Il maresciallo Giuffrida scese dall’auto per primo. Quattro agenti saltarono giù con le mitragliette in pugno.

    «State fermo dove siete con le mani in alto!»

    «Che minchia avete in testa, maresciallo?»

    «Giuseppe Mustica, detto zu Pinu?»

    «Sissignore.»

    «Mani poggiate su questa cassa! Perquisitelo!»

    Operazione compiuta in pochi secondi, mentre sul molo si andava assembrando gente ansiosa di assistere a chissà quale violenza da poter immediatamente caricare su youtube.

    «Pulito, maresciallo.»

    «In macchina, presto!»

    Un carabiniere gli abbassò la testa per farlo entrare nell’auto di Giuffrida e in pochi secondi furono tutti a bordo. Le ruote stridettero sul cemento del molo coprendo per un attimo le sirene. La gente commentava delusa, i pescatori s’interrogavano con lo sguardo senza dire nulla.

    «Mi ricissi ‘na cosa, maresciallo, questa sceneggiata a che vi serve?»

    «Serve a lei, adesso non faccia altre domande. La portiamo in caserma. A lei penserà un comandante che la conosce bene.»

    Zu Pinu aveva capito perfettamente chi fosse il comandante. Se il colonnello s’era mosso, significava che lui, fuori da quella caserma, avrebbe avuto le ore contate. Non che gli importasse più di tanto. La sua vita l’aveva fatta, vissuta malamente, il suo castigo lo stava già scontando. Era stato tutto un errore, ma non aveva avuto molte altre scelte, o forse quella era stata la più facile.

    Dopo aver vissuto lo scempio di sua nipote, la vecchiaia si era manifestata con tutte le sue patologie. Sulla strada sarebbe stato una preda facile, lo avrebbero freddato in qualunque ora del giorno o della notte. La morte non lo spaventava, quasi la invocava, ma il luogo ove abbandonare la sua anima lo avrebbe voluto scegliere lui. Voleva morire sul molo, accanto alla sua Spirito di Santa Venera, una barca sbilenca come lui, cui però si era affezionato. Già, lì sul molo, in quel pezzo di scogliera catanese che nell’antichità era stata teatro di uno straordinario traffico navale.

    Vicino alla sua rete voleva crepare, con le squame delle sarde appiccicate sulla barba che radeva solo la domenica. Voleva la faccia pulita, quando andava a messa a Santa Maria di Ognina. Morendo, l’unica cosa che gli sarebbe mancata sarebbe stata la festa della Madonna Bammina e la processione a mare. La Madonna Bambina, cui aveva affidato un’altra bimba, quel fiore di Finuzza.

    La nottata era passata velocemente in caserma. Il sogno di una morte rapida sul molo di Ognina ne aveva chetata l’anima. Quanto al colonnello Anselmo Quattrocchi, era meglio che si rassegnasse a fare a meno di lui e delle sue confidenze: per quanto egli facesse, non poteva sottrarlo ai suoi assassini. Ne era quasi certo.

    Si era svegliato come di solito alle cinque, aveva preso un caffè dal distributore automatico della caserma e poi aveva incantato il giovane appuntato di guardia con la storia di una battuta di pesce spada. Quel pesce, raccontava, non era come gli altri e non voleva saperne di arrendersi nonostante lo avessero già fiocinato a morte. Dopo essere stato colpito si era allontanato velocemente, trascinando la calòma con un’improvvisa quanto vigorosa mpaiàta. Riuscirono con fatica a seguirlo per più di due miglia. Alla fine l’animale si fermò. Non era morto, aveva però raggiunto il punto del suo mare dove aveva scelto di morire. Fu lui, il pesce, ad accostarsi alla barca, reclamando, a suo modo, l’ultimo lancio di fiocina. U llanzaturi si rifiutò di giustiziarlo. Dovette prestarsi un altro uomo dell’equipaggio a compiere l’ultimo atto.

    C’era qualcosa di speciale nei racconti di zu Pinu. Ogni elemento del mare pareva possedere un’anima propria e persino i pescatori erano, nella sua narrazione, personaggi mistici.

    Le storie del pescatore s’interruppero intorno alle sette e trenta.

    «Buongiorno maresciallo, l’aspettavo.»

    «Buongiorno, mettiamoci in quell’angolo. Mi dicono i colleghi che raccoglie molte simpatie» disse Giuffrida sorridendogli.

    «Ai suoi colleghi piacciono le storie di mare. È venuto a dirmi che posso tornarmene a casa?»

    «Zu Pinu, posso chiamarla così?»

    «Certo.»

    «Le è stato spiegato che esiste un’alta probabilità che la stiano cercando per ammazzarla. È questa la ragione per cui adesso lei sta qui da noi, protetto da questa struttura. Ce l’ha espressamente chiesto il colonnello Quattrocchi.»

    «Lo so maresciallo, io e il colonnello siamo come amanti segreti. Lui ogni tanto mi chiede informazioni per le sue battute di pesca, anche se i suoi pesci somigliano molto più agli uomini. Comunque da questa situazione ne dobbiamo uscire.»

    «Ne usciremo quando li prenderemo. Parlo ovviamente dei trafficanti di armi che abbiamo individuato grazie a lei. Loro lo sanno, e sanno anche che lei è in contatto con il colonnello. D’altra parte è vero, io non posso continuare a tenerla qui, né ci sono le condizioni perché lei possa rientrare in un piano di protezione. Ci siamo presi qualche giorno per valutare la situazione.»

    «Vi aiuto io. Me ne vado all’estero, da un fraterno amico. Sparisco dalla circolazione sinché non trovate questi bastardi.»

    «Ecco, questa era proprio una delle soluzioni che volevo prospettarle. Farsi ospitare da un amico, lontano da qui. Certamente lei sa dove andare e di chi fidarsi.»

    «Abbiamo risolto dunque? Devo solo aspettare due giorni che il mio amico rientri a casa, per adesso è in viaggio.»

    «Va bene, da qui però dobbiamo portarla via. Vedrò dove sistemarla per un paio di giorni. In questo posto dove pensa di andare la porteremo noi. Aspetteremo due giorni, poi l’accompagneremo alla sua destinazione finale.»

    «No, non voglio dirvi dove andrò. Non sarebbe bello per il mio amico. Sa, lui non è proprio uno che ama la legge.»

    «Sbaglia a fare così.»

    «Farò proprio così, invece. Accompagnatemi dove volete. Chiederò a mio nipote di portarmi la macchina lì. Lui poi tornerà a casa in treno o in aereo ed io me ne andrò per i fatti miei. Mi levo dai coglioni e amici come prima.»

    «Questa soluzione non mi convince. Ci sono spazi che restano scoperti.»

    «Maresciallo stia tranquillo. Lei lo sa chi sono io?»

    «Diciamo che ho visto il suo fascicolo. E ci ho messo un po’ di tempo per leggerlo tutto.»

    «Guardi che io sono stato uno tintu assai, una cosa fitusa. Non sono uno sprovveduto. So dove mettere le mani. Mi ha capito vero?»

    «Mi dica una cosa. Com’è che a un certo punto è uscito di scena, non si è più sentito parlare di lei?»

    Zu Pinu fermò lo sguardo contro gli occhi del maresciallo. Sentì la miriade di rughe tendersi sotto le palpebre.

    «È successo tanti anni fa. A volte, capitano cose pesanti. Cose che ti separano dalla vita. Io sono stato fortunato perché ho potuto allontanarmi da quel cesso di gente con le mie gambe, ma non creda maresciallo che funzioni così. Ti tirano da ogni parte e tu non puoi dire di no. Ci sono riuscito solo grazie alla comprensione di chi ancora oggi mi protegge. Anche se evidentemente la cosa comincia a non funzionare più. Lo so, maresciallo, che questi mi vogliono ammazzare.»

    «Va bene. Allora organizzo tutto. Domattina sia pronto a partire molto presto. In giornata le farò sapere dove passerà i prossimi due giorni.»

    I due uomini si alzarono e si strinsero la mano. Guardandolo negli occhi Giuffrida non poté evitare di dirgli: «È duro veder morire i bambini.»

    «È più duro vederli uccidere.»

    Stettero uno di fronte all’altro per qualche attimo. Il maresciallo conosceva bene quella storia.

    «È stata una di quelle che voi chiamate vendette trasversali. Ho perso mia nipote, maresciallo, ma questo di sicuro lei lo sa già.»

    «Sono passati quindici anni...»

    «Quelle immagini le rivedo ogni giorno. Ha idea di quello che significa vedere la propria nipote di nove anni legata a un palo e accoltellata, mentre sei allacciato a due alberi, come un maiale prima di essere scannato e con il sangue che ti copre gli occhi?»

    Giuffrida non rispose. Si pentì di aver accennato a quella vicenda.

    L’espressione di zu Pinu non era cambiata, ma le rughe del volto sembravano adesso lunghi canyons in cui scorreva un indelebile orrore. L’unico suo conforto era quello di essere riuscito a risparmiare altra gente della sua famiglia. Essenziale era stato spedire suo fratello minore Filippo in America, toglierlo da quella tonnara. E lo aveva fatto.

    «Le immagini del corpo di quella bambina, mi sono rimaste incollate nella testa come l’acido sulla pelle.»

    Giuffrida immaginò il suo interlocutore impotente, stremato e corroso dal senso di colpa, affrontare la disperazione della sorella, e poi stuprarsi l’anima e violentare ogni nervo per poterlo rendere sordo alla vendetta. Impensabile per gente come lui.

    «Un’ultima cosa maresciallo, è un favore che le chiedo, da uomo a uomo. Mio nipote, si chiama Giuseppe Mustica, come me, e come me fa il pescatore a Ognina. Gli chiedono il pizzo ogni mese e lui non ce la fa più. Non ha più neanche i soldi per comprare il gasolio e uscire con la barca. Ha moglie e una figlia. Pippo, così lo chiamiamo in famiglia, è il fratello di quella bambina di cui lei sa... Per me è come un figlio. Qui ci sono i nomi di quei galantuomini.»

    Tirò fuori dalla tasca un pizzino e lo diede a Giuffrida. Il maresciallo lo lesse e annuì.

    L’uomo abbassò il capo e si avviò verso la propria stanza.

    III

    Zu Pinu guardò il nipote con tenerezza. Gli era affezionato da sempre, ma da quando avevano assassinato sua sorella Finuzza, sentiva su di sé il peso di una responsabilità enorme. Quel giovane uomo, rimasto senza padre ancor prima di nascere, era diventato la sua propaggine pur divergendo nelle scelte. Fortunatamente Pippo non si era mai affiancato alle bestie con cui si era associato lui. Quella diversità lo inorgogliva. Il destino della famiglia Mustica non era necessariamente quello della delinquenza: Filippo spedito in America, il nipote pescatore. Va bene così, non c’è bisogno di aggiungere disgrazie alle tragedie della mia vita, pensava l’uomo, sono solo io la mela marcia.

    La polizia di Genova gli aveva trovato un appartamento come tanti, in un vecchio edificio di periferia. Il maresciallo Giuffrida aveva cercato una collocazione ancora più a nord, ma non ci era riuscito.

    Nella strada, poco illuminata e bagnata da un’incessante pioggia sottile, due uomini ripararono in un portone.

    Il suono di un messaggio arrivò a un cellulare.

    «Ci siamo, il segnale è arrivato. Adesso escono gli sbirri», disse uno dei due.

    Dal portone di fronte, dall’altro lato della strada, uscirono due uomini. Salirono sulla Ford Fiesta parcheggiata lì davanti e si avviarono.

    «Eccoli. Devono essere quelli.»

    «Ok. Tra qualche minuto dovrebbe arrivare.»

    Tirò fuori dalla tasca del giaccone il silenziatore e l’avvitò alla canna della sua calibro 9, poi accostò la pistola alla coscia. Sulla strada non passava nessuno.

    «È ora, nesci cani rugnusu!» sussurrò a denti stretti.

    Il giovane scostò la

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