Giovani, carini ma assassini
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Info su questo ebook
Erano giovani e carini, ma sono diventati spietati assassini che uccidono per soldi, noia, ribellione, o spesso senza un vero motivo. Veri e propri killer under 30 che, armati di pistole e coltelli, hanno scosso le coscienze dell’Italia intera.
Erano l’orgoglio dei loro genitori, i migliori amici di una vita, poi qualcosa li ha cambiati, trasformandoli in pericolosi criminali: dai giovani della Roma bene che al Circeo seviziarono due ragazze indifese, allo sconvolgente caso di Doretta Graneris che con la complicità del fidanzato uccise a colpi di arma da fuoco l’intera famiglia. E ancora, Roberto Succo, “il killer dagli occhi di ghiaccio” che, dopo aver ammazzato i suoi genitori, si nascose in Francia senza riuscire però a placare la sua sete di sangue. O il cacciatore di bambini Luigi Chiatti, ricordato come “il mostro di Foligno”. Storie di cronaca nera con giovanissimi e insospettabili protagonisti, legati da una sola domanda: come può un giovane qualunque trasformarsi in un feroce assassino?
Erano giovani e carini, ma sono diventati spietati assassini che uccidono per soldi, noia, ribellione, o spesso senza motivo.
Tra i temi trattati nel libro:
• Il pazzo di Sarzana
• Gli angeli del male
• Le stragi di Ludwig
• Il killer dagli occhi di ghiaccio
• Onora il padre e la madre: Pietro Maso e gli altri
• Il cacciatore di bambini
• La storia di Elisa
• Le bestie di Satana
• La suora di Chiavenna
• Il delitto di Novi Ligure
• Il branco di Leno
• La mantide di Casandrino
Flaminia Savelli
Nata a Roma nel 1980, laureata in Lettere moderne nel 2003, ha scritto come freelance per diversi giornali e riviste. Dal 2008 collabora stabilmente come giornalista di cronaca nera con «la Repubblica». Con la Newton Compton ha pubblicato Misteri, crimini e delitti irrisolti di Roma (2012), Roma giallo e nera (2013), I 100 delitti di Roma (2014) e Giovani, carini ma assassini (2015).
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Anteprima del libro
Giovani, carini ma assassini - Flaminia Savelli
362
In questa ricostruzione si fa riferimento a varie inchieste giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso ed in fase di aggiornamento continuo. Il volume ricostruisce vicende di cronaca nel massimo rispetto dei principi di verità, continenza e pertinenza. Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.
Prima edizione ebook: novembre 2015
© 2014 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-8777-1
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli
Flaminia Savelli
Giovani, carini ma assassini
Giovanissimi Killer che hanno sconvolto l’Italia intera
Ai ribelli, ai diversi.
Ma soprattutto agli impavidi.
Non è tanto il delitto in se stesso che interessa,
quanto ciò che si nasconde dietro.
Agatha Christie, Poirot. Tutti i racconti.
Introduzione
Omicidi efferati e piani criminosi ben studiati, realizzati da killer tutti giovanissimi, di età compresa tra i quindici e i trent’anni. È questo il filo conduttore tra le storie in esame, che hanno scioccato il Paese proprio per la giovane età dei protagonisti: ragazzi e ragazze che improvvisamente hanno armato la loro mano e hanno ucciso senza pietà genitori, fratelli, partner, amici.
Questo saggio si presenta dunque come una rassegna dei fatti di sangue, dagli anni Trenta ai giorni nostri, che li hanno visti in azione, ma vuole essere anche un tentativo di tratteggiare il quadro a tinte fosche che è la mente di un adolescente quando si trasforma in quella di un criminale. Partendo dall’incredibile vicenda di William Giorgio Vizzardelli, che a Sarzana nel 1937 uccise a sangue freddo quattro uomini, fino ai rampolli della Roma bene che negli anni Settanta misero in atto uno dei delitti più efferati, ricordato oggi come il massacro del Circeo
. E ancora, le coppie di fidanzatini che si trasformarono in spietati killer delle loro famiglie d’origine, quasi a suggellare con il crimine il loro legame d’amore. O i figli che, nell’isolamento della propria cameretta o al bar con gli amici, progettarono (e poi realizzarono) la tragica esecuzione dei propri genitori.
Ma nel libro troverete anche delitti ancor più inspiegabili, come il mistero del gruppo Ludwig, che ancora oggi si trascina dietro molti interrogativi: Abel e Furlan sono davvero i nomi nascosti dietro la sigla neonazista che dal 1977 in poi uccise almeno dodici persone?
Non poteva mancare la vicenda dell’appena diciottenne Roberto Succo, il killer dagli occhi di ghiaccio, che dopo aver ucciso i suoi genitori, scapperà in Francia, dove continuerà a seminare morte, braccato a lungo dalla gendarmerie. Una storia incredibile che terminerà in una cella, con un suicidio ancora più eclatante.
Ma questa discesa agli inferi non poteva non toccare alcuni scioccanti casi di cronaca nera degli ultimi anni, che hanno per protagonisti giovanissimi capaci di delitti efferati, come i membri delle Bestie di Satana o gli assassini della quattordicenne Desirée, uccisa da tre coetanei in una cascina il 28 settembre 2002, a pochi metri da casa sua.
Senza la presunzione di trovare delle risposte ai tanti interrogativi che affollano la mente di fronte a questi casi di cronaca tanto sconvolgenti, questo libro vuole essere semplicemente un viaggio alla scoperta del frutto più acerbo del male.
I
Il pazzo di Sarzana
E adesso che cosa sei disposto a fare?
Gli intoccabili di Brian De Palma (
USA
, 1987).
È nato a Francavilla al Mare, Chieti, il 23 agosto 1922, William Giorgio Vizzardelli. Suo padre, Guido, è direttore all’ufficio del Registro di Sarzana, l’anagrafe.
Tutta la famiglia, moglie e altri cinque figli, si era trasferita dall’Abruzzo dopo essere scampati al terremoto del 1915 che aveva sconvolto la zona; lo Stato gli ha trovato una sistemazione in Liguria e ha affidato al padre lo stesso incarico che aveva nella sua terra d’origine.
La mamma, invece, una proprietaria terriera del meridione, è una casalinga dedita ai figli: quella di William Giorgio è una famiglia come le altre. Ma lui no, non è un ragazzino come gli altri. Taciturno, scontroso, bugiardo e poco rassicurante. È un giovane dal cuore perfido che si sente superiore alla media, e ogni sua attività è rivolta a uno scopo preciso: imporsi su tutti.
Ha un solo idolo: Al Capone (New York, 17 gennaio 1899 – Miami, 25 gennaio 1947), detto Scarface
, il grande criminale del proibizionismo americano. William Giorgio spera, un giorno, di seguirne le orme. Fin da piccolissimo, infatti, è attratto dalle armi da fuoco e si esercita sparando a gatti, anatre e galline. E già a dodici anni nella cantina di casa sperimenta la distillazione dei liquori. Inoltre è un patito degli esercizi ginnici: frequenta con regolarità la palestra della GIL ed è un bravo attrezzista.
Alle scuole medie la sua indole ribelle comincia a emergere, per questo il padre decide di mandarlo in collegio. Tuttavia il suo carattere burrascoso non si placa. Anzi: per due volte, di notte, rompe una finestra del ginnasio Parentucelli, entra in aula e compie atti vandalici in segno di ribellione. Carte geografiche incendiate sulle pareti, calamai scaraventati contro gli stessi muri.
Ma questo non è che l’inizio dell’ergastolano più giovane della storia della cronaca nera italiana.
Il killer
È una follia omicida quella che si scatena a Sarzana la notte del 4 gennaio 1937. A morire, durante un terribile agguato, è il rettore del collegio delle Missioni, don Umberto Bernardelli. Il sacerdote è ancora seduto alla sua scrivania quando un uomo improvvisamente gli si para davanti. Indossa una sciarpa e un berretto e nella mano destra impugna una pistola: non può che essere un rapinatore. Don Umberto prende subito le cinquantamila lire che sono nel cassetto, somma notevole per l’epoca. E nella speranza di salvarsi la vita le porge tremante al bandito che non esita un istante a intascarli. Ma non è ancora finita: il ladro non dice una parola, spara tre colpi a bruciapelo e il sacerdote cade a terra in una pozza di sangue. Due studenti del collegio, i quindicenni Leonardo Bassano e Alfredo Collini – attirati dal rumore sordo e violento degli spari – accorrono nella stanza del rettore: nel corridoio incrociano il bandito che senza esitazione spara ancora. Il primo viene colpito al fianco, Alfredo invece viene lisciato per miracolo dalla pallottola. Ma la sparatoria non è ancora terminata: l’uomo mascherato corre spedito verso l’uscita, raggiunge la portineria quando don Andrea Bruno tenta di fermarlo. Pure lui finisce nel mirino: il killer, prima di scappare, esplode altri due colpi a distanza ravvicinata ferendolo gravemente. Sul posto accorrono poliziotti e medici ma non c’è nulla da fare per i due preti. Il rettore viene trovato morto sotto la sua scrivania, don Andrea respira ancora, però agli inquirenti riesce appena a dire che conosceva il suo assassino, che lo aveva già visto proprio nelle aule dell’istituto. Gli studenti sopravvissuti vengono portati a sirene spiegate all’ospedale, non sono in pericolo di vita, tuttavia sono sconvolti e perciò non riescono a fornire nessuna descrizione di quell’uomo mascherato che, dietro la sua folle fuga, ha lasciato a terra due sacerdoti. Non ci sono prove, dunque, né sospettati, eppure per gli inquirenti il responsabile di quella mattanza è uno studente dell’istituto. Le indagini, fin dall’inizio non sono facili, e nelle settimane successive, uno dopo l’altro, i ragazzi vengono ascoltati a turno. Il nome però non salta fuori, il colpevole non viene individuato. Le indagini si concentrano allora sulla ricostruzione di quell’ultimo pomeriggio all’interno dell’istituto religioso. Con chi si trovava la vittima?
I poliziotti scoprono che il prete era in compagnia di due uomini: don Andolfo, parroco di Castelnuovo Piano, e Vincenzo Montepagani, uno studente d’ingegneria di ventiquattro anni, un ragazzo dal carattere estremamente introverso, che voleva guadagnare qualche soldo per sposarsi. Per questo si era proposto come insegnante di ripetizioni e grazie alle sue referenze il rettore lo aveva assunto. Anche se il lavoro non stava andando affatto bene ed erano arrivate numerose lamentele in quell’ufficio tanto che, per non pregiudicare ulteriormente il rendimento degli studenti, gli era stata affiancata un’insegnante per preparare le ripetizioni. Gli inquirenti scoprono che don Bernardelli aveva rimproverato il ventiquattrenne più di una volta per la situazione incresciosa in cui era finito. Pure quella sera, dopo aver ricevuto l’ennesima lamentela di un genitore scontento. La pista da battere sembra proprio questa, inoltre il ragazzo, alto e robusto, secondo i due alunni del collegio poteva essere l’uomo con cappello e sciarpa. Vincenzo giura e spergiura di non entrarci niente, di essere tornato a casa e di non esser più uscito, quella sera, ma non riesce a provarlo. I diverbi con la vittima e il carattere particolarmente difficile, quasi patologico, del ventiquattrenne convincono gli inquirenti ad accusarlo ufficialmente, tre settimane dopo la tragica serata, del duplice omicidio. È il 2 febbraio, il caso è risolto. O almeno così sembra.
Una lunga scia di sangue
L’insegnante viene processato, le porte del tribunale per lui si aprono il 24 maggio 1938 a Milano. Il 2 giugno il pubblico ministero chiede la pena di morte per il giovane matematico che continua a gridare la sua innocenza. In primo grado viene accordata; poi, proprio in sede processuale, emergono numerosi elementi che lo scagionano definitivamente nel luglio del 1938. Viene pienamente assolto dopo una lunga camera di consiglio e Benito Mussolini lo risarcisce consegnandogli personalmente un assegno da venticinquemila lire.
A Sarzana, però, la follia omicida è appena cominciata. E il 2 agosto 1938 le pistole tornano a sparare. Le vittime sono Livio Delfini, venti anni, di professione barbiere e Bruno Veneziani, trentacinque anni, tassista. In quella calda mattina d’estate, infatti, i due corpi giacciono crivellati da armi diverse, una calibro 9 e una calibro 6,5: sono stati ammazzati con quattordici proiettili. Una vera e propria carneficina.
Il commissario Paolo Cozzi accorre sulla scena del crimine: due vittime che non c’entrano niente l’una con l’altra, uccise da due killer diversi? Oppure un uomo che spara con entrambe le mani, impugnando due armi differenti? Cozzi comincia a indagare nell’ambiente della sovversione politica, seguendo una precisa indicazione del duce. Ma il commissario è un uomo della strada e mette in relazione il recente duplice omicidio con quello dei sacerdoti al collegio, di quasi due anni prima. Per Cozzi, la mano che ha sparato è la stessa. Ma chi è? E che nesso c’è tra i delitti?
Il commissario indaga sulla vita delle due vittime senza però riuscire a individuare un movente e un collegamento. La svolta arriva più di un anno dopo, quando viene denunciato un altro terribile omicidio. La mattina del 29 dicembre 1939, il poliziotto Cozzi corre all’ufficio del Registro di Sarzana. L’ha chiamato il direttore, in preda al panico perché ha trovato il custode Giuseppe Bernardini, di sessantacinque anni, con un’ascia piantata in mezzo alla fronte. Il manico della scure è stranamente appiccicoso, la cassaforte è aperta. Non è stata scassinata, eppure mancano 12.949 lire e 35 centesimi. Eppure la chiave ce l’ha solo il direttore, che si chiama Guido Vizzardelli. Un uomo dal passato irreprensibile. Quando però questi consegna a Cozzi il portachiavi, il commissario si accorge che è appiccicoso anche quello. Di conseguenza, ordina una perquisizione in casa sua, per formalità. In cantina vengono rinvenute delle bottiglie vuote, pure quelle appiccicose. Il signor Guido si giustifica sostenendo che siano del figlio diciassettenne, Giorgio, con l’hobby di distillare alcol.
Cozzi ringrazia e torna al proprio ufficio. Quel ragazzino un po’ introverso non lo convince. Comincia a indagare e scopre molto sul passato di Giorgio: ha frequentato il collegio delle Missioni, proprio quello dove sono stati ammazzati due preti. Un giorno, poco prima del massacro, ha fatto un po’ troppo chiasso e ha danneggiato i ritratti del re e del duce. E il povero don Bernardelli, proprio per questo, l’aveva sgridato.
Il commissario decide di interrogarlo e Giorgio, appena diciassettenne, racconta tutto. Quando le domande si fanno più incalzanti, infatti, crolla: è il 5 gennaio 1940. Agli inquirenti William racconta di avere usato la scure per ammazzare il Bernardini, essendo stato suggestionato da un particolare del romanzo Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij, in cui vengono narrati delitti compiuti con una scure. Afferma di avere rubato il denaro dall’ufficio del Registro perché amante della vita avventurosa e perché, avendo in progetto di imbarcarsi come mozzo nella Marina mercantile, riteneva di aver bisogno di contanti data la misera paga iniziale. Voleva raggiungere l’America, la terra dei gangster e soprattutto del suo idolo, Al Capone. Ha ucciso don Bernardelli per vendicarsi del rimprovero di pochi giorni prima, e ha sparato su chiunque tentasse di ostacolare la sua fuga, come il povero don Andrea. Confessa di avere dato un appuntamento fuori città a Livio Delfini, il barbiere che era venuto a sapere chissà come della sua colpevolezza e lo ricattava. Inizialmente, spiega, aveva pagato ma le cifre richieste per mantenere il silenzio aumentavano di mese in mese. Per questo aveva deciso di farlo fuori. Ma il barbiere non si era fidato ad andare da solo all’incontro e per questo si era fatto accompagnare dall’amico tassista. Giorgio però non è più un ragazzino problematico. È un killer spietato: quando li vede arrivare impugna due pistole, e come in un far west, li uccide a sangue freddo. Poi torna a casa, come era accaduto per l’uccisione in collegio, e fa come se niente fosse.
La religione cattolica, dice, è una sciocchezza. Lui crede sì in una potenza superiore, capace di identificarsi in un buon diavolo indifferente delle sorti dei mortali. In casa distilla l’alcol fabbricandosi liquori con cui si sbronza e si dedica in cantina a esperimenti chimici per produrre nitroglicerina, poi la fa esplodere per il solo gusto di farlo. E devia la corrente elettrica ad alta tensione, che passa all’altezza del tetto di casa sua, sin nella soffitta: ottiene così l’arco voltaico, di cui si serve per apportare innovazioni o riparazioni alle proprie armi e, soprattutto, per godere lo spettacolo delle fiammate che si producono. Ad appena diciassette anni, il pazzo di Sarzana deve rispondere di cinque omicidi.
La reclusione
Per uno strano scherzo del destino, Vizzardelli – tra i più giovani killer italiani – viene rinchiuso nella cella dell’ingegnere Montepagani, il ragazzo che al suo posto era stato accusato e processato per la carneficina del collegio. Il 19 settembre 1940, presso il tribunale di Genova, si apre il processo del cinque volte omicida.
Il 22 settembre, considerata la giovane età dell’imputato, il pubblico ministero chiede l’ergastolo (era ancora in vigore la pena di morte). I periti chiamati dal tribunale sostengono che William non abbia alcun vizio di mente, che sia capace di intendere e di volere. Ma che soffra di «ipotrofia della sfera emotiva, che sia un delinquente per tendenza»¹.
Il 24 settembre, dopo cinque ore di camera di consiglio, arriva la condanna del carcere a vita. Da Marassi il ragazzo viene trasferito all’isola di Pianosa. Suo padre, però, non si arrende: dopo diciassette anni, il 5 settembre 1957, fa richiesta per la grazia al presidente Giovanni Gronchi: «È vero, ho chiesto la grazia per mio figlio», dice l’anziano padre che morirà pochi mesi dopo per infarto, «è una persona completamente diversa adesso»². Intanto in prigione Vizzardelli ha conseguito la maturità classica e ha impiegato il suo tempo a studiare, tanto che gli altri detenuti lo chiamano il Filosofo
.
Trasferito al manicomio di Reggio Emilia, gli viene concessa la grazia il 12 settembre 1968. William ha ormai quarantasei anni ed è un uomo libero. Va a vivere a casa di sua sorella Liliana, a Carrara, nel quartiere di San Luca. I loro genitori sono morti, Liliana è un’insegnante di lettere in una scuola media. Giorgio è in regime di libertà vigilata, ma l’11 agosto 1973 compie un gesto impensabile. Tornato libero, senza più neanche la firma quotidiana in caserma, William – che ha adesso cinquantuno anni – decide di togliersi la vita. Lo fa nel bagno della casa che divide con la sorella: si taglia un polso e si ferisce alla gola. Prima di uccidersi, appende le scarpe di Liliana alla maniglia della porta, per evitare che si sporchino.
Muore dissanguato, senza lasciare nessun biglietto. Nessuna spiegazione. A trovarlo morto è proprio lei, quando torna a casa non lo vede in camera sua. Sale al piano di sopra, nota la porta chiusa del bagno. Comincia a chiamarlo invano, dall’altra parte non si sente alcun rumore. William è già morto. Sul posto arrivano i carabinieri, il medico legale. E tanti curiosi: «Lasciateci stare», grida Liliana, «questa famiglia ha già sofferto abbastanza»³.
Per tutto il tempo in cui aveva riacquistato la libertà, William non era mai uscito di casa, se non per andare alla caserma a firmare il registro. Quel mondo, così cambiato dopo ventotto anni di carcere, forse lo spaventava. Una volta fuori dal manicomio di Reggio Emilia, non ha mai avvicinato nessuno. L’unica persona con cui parlava era la sorella che, dopo la sua morte, si è trincerata dietro un muro di silenzio. Alcuni, i più vicini alla famiglia, hanno raccontato che uno dei killer più giovani del Paese in prigione avesse cominciato a scrivere un diario che avrebbe poi voluto pubblicare. Ma quelle pagine, se mai sono esistite, sono rimaste avvolte nel mistero. Come il suo autore: nessuno è infatti mai riuscito a spiegare come un ragazzino di buona famiglia sia potuto diventare, a soli quattordici anni, un assassino a sangue freddo. Come il suo idolo Al Capone.
¹ «La Stampa», 22 settembre 1940.
² «La Stampa», 5 settembre 1957.
³ «La Stampa», 11 agosto 1973.
II
L’infanzia negata di Giulio Collalto
Lasciate che i bambini vengano a me,
perché di essi è il regno dei cieli.
Matteo 19, 13-15.
Nato nel 1953 a Roma, a tre anni viene abbandonato dalla mamma in un istituto dove resta fino al 1967. Ha un leggero ritardo mentale e soffre di attacchi epilettici, per questo viene destinato al civico 10 di via Sant’Andrea, presso il Santa Rita, un orfanotrofio di Grottaferrata. Più che altro una casa di cura per bambini con handicap, gestito da una tale suor Colomba. L’istituto sarà al centro di un’inquietante inchiesta giudiziaria. Giulio, infatti, come gli altri trenta bambini ospiti – tutti tra i tre e i quindici anni, ammucchiati come animali sui lettini – viene sottoposto a terribili supplizi: dopo giornate di sevizie e percosse viene immobilizzato, a volte addirittura ai tubi del bagno. È denutrito, assetato, dolorante per i maltrattamenti quotidiani. A scoprire la casa dell’orrore sono i carabinieri di Frascati, su segnalazione di una ex infermiera, Laura Longhi che, dopo quattro mesi trascorsi a vedere le violenze sui bambini, non ha retto più: si è licenziata ed è corsa dai carabinieri a raccontare tutto quello che sa.
I militari faranno irruzione il 7 giugno 1969, troppo tardi per la mente di Giulio, che ormai è seriamente compromessa dalle violenze. In manette comunque finisce Maria Diletta Pagliuca, cinquantanove anni, conosciuta come suor Colomba: è lei la responsabile di questo lager nascosto tra le dolci colline dei castelli romani. Del caso si occupa il dirigente Pietro Morra che ha raccolto la denuncia e ha organizzato il blitz.
Le accuse
Quando la notizia della casa degli orrori esce dal cancello dell’orfanotrofio e raggiunge la città, si scatena un inferno di polemiche. La donna viene trasferita subito nel carcere di Rebibbia, la magistratura apre un’inchiesta che coinvolge anche alcuni responsabili degli enti pubblici che avevano il compito di sorvegliare e controllare. La suora così deve rispondere non solo dell’accusa di maltrattamenti ma anche di truffa. Scavando nel suo passato scoprono che è una religiosa dell’ordine di Santa Elisabetta, da cui però è stata espulsa molti anni prima per gravi motivi. Ancora nel 1945 è stata denunciata dai carabinieri di Assisi per furto continuato nell’istituto per ciechi e sordomuti. Un’altra denuncia a suo carico è registrata a Roma, per porto abusivo di abito religioso. Durante le indagini emerge che quattro bambini sono morti nell’orfanotrofio-lager: a dicembre, nel 1970, comincia il processo a suo carico. I legali di parte civile e il giudice istruttore Renato Squillante chiedono una condanna a ventiquattro anni di carcere; il 14 gennaio 1972, tuttavia, la sentenza della corte d’assise decide per quattro anni di reclusione, due dei quali vengono condonati con le attenuanti. Maria Diletta Pagliuca viene condannata per maltrattamenti e assolta per la truffa. La vicenda giudiziaria si conclude il 4 dicembre 1975: la cassazione fissa a quattro anni e otto mesi la pena da scontare in carcere⁴. Di fatto, comunque, le perizie mediche stabiliscono che c’era una correlazione tra i maltrattamenti, la malnutrizione e la morte dei quattro piccoli.
Con l’apertura del processo, l’istituto Santa Rita viene chiuso e i pazienti affidati ad altre strutture per un difficile processo di riabilitazione. E per il giovane Giulio inizia invece la carriera criminale.
Il pazzo di Limbiate
Da Roma viene trasferito all’istituto psichiatrico di Mombello, dove trascorre due anni prima di fuggire. Ritrovato a Milano, viene ricoverato ancora in un nosocomio, ma fugge anche da lì. In seguito per lui ricomincia l’incubo: viene accolto in casa da un commerciante, un depravato che per settimane lo violenta. Scappa ancora, Giulio, e di lui si perdono le tracce fino al 1971. Ha diciotto anni quando viene ritrovato in un parco da un uomo anziano e benestante. Intenerito da quel giovane spaesato, lo accoglie in casa e gli procura un lavoro. Per la prima volta è accudito. Per aiutarlo ad avere un inserimento corretto nella società, viene fatto ricoverare per un breve periodo in una struttura di Limbiate dove medici e psicologi lo seguono fino a dimetterlo. Per i dottori, infatti, le sue patologie non sono gravi, tanto che lo giudicano in grado di intendere e di volere e mentalmente sano. Tuttavia, i medici non si sono resi conto che Giulio ha una sessualità repressa, è un pedofilo e comincia a tentare approcci con i minori. A questo punto si scatena il mostro: il 10 febbraio 1976 la sua prima vittima è Roberto Auglia, dieci anni, conosciuto proprio durante uno dei ricoveri in ospedale. Roberto era stato sottoposto a un piccolo intervento chirurgico e proprio in