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G: Una storia di giustizia, gioia e galera
G: Una storia di giustizia, gioia e galera
G: Una storia di giustizia, gioia e galera
E-book188 pagine2 ore

G: Una storia di giustizia, gioia e galera

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Info su questo ebook

È notte, e Giulia, seduta sul letto di fianco al suo Giacomo, riflette su come rispondere alla sua domanda, importante, sentita, definitiva.
Stanno frequentandosi da un po', e il loro rapporto si sta approfondendo, fino a mettere in discussione il suo sentimento di vendetta verso il mondo maschile... Giulia si chiede quanto dovrebbe dirgli, quanto confidare a Giacomo del suo passato, così burrascoso e terribile, in cui ha subìto, sì, ma ha anche ribattuto. Forte.
L'amore sembra a un passo, a portata di mano, appena al di là della fiducia... ma un improvviso bussare alla porta, all'alba, cambia per sempre i loro piani appena accennati.
Un romanzo appassionato e coinvolgente, che tratta di violenza maschile e femminile, di eutanasia e relazioni complicate tr i sessi, ma dove l'amore permette di superare anche le condizioni più difficili e trovare una nuova speranza di vita.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2022
ISBN9788893782715
G: Una storia di giustizia, gioia e galera

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    Anteprima del libro

    G - Mauro Angeloni

    GIULIA

    I

    Un uomo che muore non è mai un bello spettacolo. Giulia non era felice, ma era soddisfatta per l’esito positivo della sua missione e per il sangue freddo di cui aveva dato prova a se stessa e alle altre. E poi vedere la vita togliere il disturbo in modo così discreto, abbandonando senza violenza apparente quel poderoso corpo maschile, le dava un senso di compiutezza, di chiusura del cerchio. Lui aveva malmenato e violentato la sua amica Gloria per anni e lei lo aveva infine reso inoffensivo con delicatezza in pochi secondi. Adesso la carogna, ancora calda ma inerte, giaceva davanti a lei, che gli teneva il pesante avambraccio con una mano, seduta sul bordo del talamo nuziale. Sotto la folta capigliatura brizzolata, il viso di Davide si mostrava ancora virile e l’espressione arrogante. Attraverso le tende accostate della sua stanza di ammalato filtrava poca luce, ma lei poteva distinguere senza difficoltà la sua barba un po’ incolta da sex symbol, i pettorali ben scolpiti sotto al pigiama leggero, il muscoloso braccio tatuato di piccole fiche in cui gli aveva iniettato la morte, abbandonato lungo il fianco destro fuori dalle coperte.

    Giulia era sola nella stanza, a parte la sua vittima, ma dietro al suo sguardo concentrato aveva sentito innumerevoli occhi attenti, magari graziosi e ben truccati, ma spietati nel chiedere che gli occhi del maschio maledetto si chiudessero per sempre. Sapeva bene di aver appena ammazzato un uomo senza nessun diritto legale, ma sentiva una diffusa approvazione intorno a sé. Era stata un’azione pianificata e condivisa con altri cervelli e altri cuori, tutti femminili. D’altronde le sue amiche e complici erano ancora nella stanza accanto, in fremente attesa e pronte a intervenire in caso di necessità. E mentre muta e composta infilava l’ago nella vena, nel suo silenzio omicida aveva sentito risuonare mille voci alterate di femmine che incitavano alla sacrosanta rivalsa. Erano voci di ragazze, di donne, di streghe forse, e provenivano dai roghi, dalle stanze buie in cui stavano relegate da secoli, dalle fosse segrete in cui i loro mariti e amanti, i loro padri e fratelli le avevano sepolte in fretta e furia dopo averle trucidate. Ora che giustizia era stata fatta, sentiva distintamente intorno a sé la gioia belluina della tribù che vede finalmente sollevarsi verso il cielo lo scalpo del nemico.

    II

    Erano passati soltanto sette mesi da quella scena che ancora ricordava in modo vivido con un misto di incredulità e orgoglio. Ripensandoci, sentiva lo stomaco contorcersi per la tensione e il cuore fibrillare nel petto. Nel momento decisivo però il cervello aveva tenuto a bada stomaco e cuore, mentre le mani approfittavano sapientemente del breve momento di debolezza di quell’uomo brutale e diffidente.

    Anche adesso Giulia era seduta su un letto accanto a un uomo disteso e inerte, ma questo era vivo, anche se addormentato. Lo conosceva da sei mesi ed era in breve diventato il suo amante. Giacomo sarebbe stato forse anche il suo migliore amico, se non fosse che gli amici veri dovrebbero conoscerti un po’ meglio e non essere completamente all’oscuro di un pezzo così importante della tua vita reale.

    Giulia guardava la stanza in penombra cercando una posizione più comoda sul materasso. Le era venuto mal di schiena a forza di stare seduta in quell’angolino per non svegliare Giacomo. Mentre lui russava pianissimo, esaminava gli oggetti che affioravano dall’oscurità man mano che i suoi occhi si abituavano alla poca luce. Tutta la parete di fronte al letto era occupata da un enorme armadio bianco. Possibile che contenesse solo i vestiti di Giacomo? Forse conservava ancora i vestiti della ex moglie, o quelli del figlio. Effettivamente era un guardaroba troppo grande per quella stanza e per un’unica persona.

    «Povera Giulia, occhio di gatto e olfatto di cane – la schernì dall’oscurità delle sue grosse ante ben chiuse il quattro stagioni – a che pro mi scruti, mi annusi, mi soppesi nel buio come se contenessi chissà che scheletri? Ebbene sì, se proprio vuoi saperlo, qua dentro ci sono ancora i vestiti di tutta la famiglia, la ex famiglia di Giacomo».

    Era abituata a sentire gli oggetti parlare. Le piaceva attribuire il pensiero alle cose inanimate. Non si sentiva matta, anzi lo trovava una sorta di superpotere divertente. Però questo armadio sembrava le volesse proprio male. Infatti, continuò:

    «E se ti dicessi che in una delle ante stanno appese due divise da poliziotto, ci crederesti? Se hai coraggio, alzati da quel letto e vieni a controllare. Magari lavora nella squadra speciale e sempre con una falsa identità. È come James Bond, prima ti scopa e poi ti arresta. Forse te lo dirà lui stesso domani mattina appena sveglio. Comunque puoi sempre chiederglielo. Lui non ti mentirà, forse ti ama e non ti nasconderà nulla della sua vita. La stessa cosa non si può dire di te. Certo anche a te lui piace molto, forse già lo ami, però certe cose te le sei tenute per te. E hai fatto bene, credo. Comunque, ormai sei in trappola, è troppo tardi per tornare indietro. State troppo bene insieme, sempre meglio. E al meglio non si deve mettere fine. Ma è giusto dire tutto di sé alla persona che si ama? Anche a costo di rovinare ogni cosa?»

    Nel crescendo di quei sei mesi Giulia e Giacomo si erano raccontati più volte le loro vite precedenti, tralasciando qualche aspetto e dimenticandone altri, almeno lei. Per Giacomo lei era soltanto una guida turistica, una libera nuotatrice e una corista dilettante. Aveva sempre vissuto a Roma, in via Iberia, a qualche isolato da casa sua, non molto lontana dal centro. Quasi tutte le mattine imbracciava la sua bici per le poche scale che la separavano dal portone e partiva in direzione del Foro di Augusto, del Colosseo, di Piazza San Pietro o di una delle altre infinite calamite artistiche che attirano a Roma milioni di turisti e di sesterzi ogni anno. Per lei, Giacomo era un uomo di quarant’anni, appassionato di musica e di tutte le arti, separato e poi vedovo, padre di un cucciolo di sette anni. Sapeva che era uno psicologo e che lavorava in carcere, ma non aveva mai cercato di saperne molto di più. Non aveva mai fatto domande dirette, forse per paura di ricevere in cambio domande scomode. E poi un lavoro vale l’altro quando si trova un uomo così particolare. Infatti, anche senza considerare l’intesa e l’attrazione, quando mai si era materializzato davanti a lei un essere dell’altro sesso con una sensibilità e una capacità empatica di quel genere? Mai nella sua vita si era sentita così ben accolta, capita, amata. D’altronde Giacomo sembrava in grado di entrare in rapporto praticamente con chiunque e in apparenza senza sforzo. Faceva le domande in un modo tale che era impossibile non rispondere. E questo chiaramente era molto pericoloso. Però sembrava che sapesse sempre cosa poteva chiedere e cosa no a seconda dell’interlocutore, quando fermarsi e se era il caso o meno di continuare un certo discorso. Per scardinare il suo fortino di riservatezza, aveva usato fin da subito la strategia: un racconto in cambio di un altro. Un aneddoto divertente andava ricompensato con uno dello stesso tenore. Una rivelazione tragica doveva essere pareggiata da un dramma grosso modo della stessa gravità.

    – Sono vedovo da tre anni.

    – E io orfana da due.

    – Nella mia prima vacanza senza genitori ho dato fuoco alla tenda il secondo giorno col fornelletto da campo. Dentro c’erano tutte le mie cose, soldi compresi. Mi è venuto a riprendere mio padre in macchina e poi sono dovuto andare al mare con lui e mia madre. Avevo diciassette anni. Un’estate di merda.

    – La mia prima vacanza da sola è stata a Firenze, e di anni ne avevo diciotto. Era luglio, soffrivo di pressione bassa e agli Uffizi mi sono sentita male per il caldo, sono svenuta. Mi hanno rianimata due turisti giapponesi che sembravano due lottatori di Sumo. Mi sono risvegliata a terra con lui a cavalcioni sopra di me che mi faceva la respirazione bocca a bocca mentre la moglie riprendeva la scena.

    III

    Si erano conosciuti alle prove serali del Coro Polifonico Epiro. Tra più di quaranta persone vocianti e cantanti si erano trovati subito con gli occhi. Lei, per lo meno, lo aveva notato subito: aveva l’aria di uno di passaggio, ma curioso e divertito da quel gioco travolgente di tuffare a tempo il proprio fiato in mezzo a innumerevoli altri. Saltare nella corrente che ti trascina in avanti, sentendoti risuonare in un’armonia sempre in fieri, sempre in forse. Giulia non si chiese: chissà se è bravo a cantare? Per quanto la riguardava poteva anche non aprire bocca. Valeva comunque il prezzo del biglietto.

    Ricordava di non aver fatto lei il primo passo, ma aveva ancora ben presente la sensazione diffusa in tutta la sua emozionata persona e l’incapacità di vietare alle sue gambe di portarla senza parere verso di lui. Aveva sempre deriso le sue amiche e i personaggi di libri e film che raccontavano in estasi i loro colpi di fulmine. Nutriva un sincero disprezzo per le donne che si fermano all’apparenza, che si lasciano affascinare da uno sguardo sagace, da un classico approccio galante e da un fisico atletico. Tuttavia, quando lui le rivolse la parola con grande naturalezza, lei rispose. E non soltanto per educazione.

    – Ciao! Mi chiamo Giacomo. È la prima volta che vengo.

    – Ciao (Sì, me n’ero accorta).

    – Tu pure sei nuova?

    – No, non sono nuova (o forse sì?). Mi chiamo Giulia, vengo qui da tre anni.

    – Sarai una cantante provetta allora.

    – Una decente corista, niente di più.

    In questo fu sincera. Pensava veramente che il suo talento canoro non fosse affatto memorabile, ma con lui accentuava la sua modestia, come se volesse rendersi meno interessante ad arte, per riequilibrare l’eccessiva socievolezza dimostrata verso uno sconosciuto. Un comportamento assolutamente non abituale per lei e d’altronde mai consentito fino a quel giorno dalla sua giurisprudenza femminile. Non sapeva proprio cosa le fosse preso, ma in ogni caso, per quanto si desse in cuor suo della scema, si guardò bene dal troncare la conversazione sul nascere.

    – Io voglio provare. Ho visto un vostro concerto la settimana scorsa – continuò lui con la massima naturalezza.

    – Ti è piaciuto?

    – Molto. Siete bravissimi, veramente, ma non è per questo.

    – Per questo cosa?

    – Che sono venuto oggi. È per l’emozione che siete riusciti a trasmettere.

    – Sul serio?

    Giulia ancora non capiva se il tipo voleva solo attaccare bottone facendo il simpatico o fosse realmente interessato al lirismo congenito nella musica e ai misteri orfici dell’esecuzione.

    – Sul serio. Ero quasi imbarazzato. Sai, è come se qualcuno ti sorprendesse nella tua intimità.

    – In che senso?

    – Voglio dire, tu sei lì che ascolti e un po’ ti vergogni di emozionarti. In fondo sei nel pubblico, in mezzo a degli estranei.

    – Ah, certo…

    Quest’uomo aveva un modo di parlare veramente strano, come se si conoscessero già da tempo e anzi fossero in confidenza.

    – Poi però mi sono guardato intorno e ho visto sulle facce di tutti gli ascoltatori la stessa espressione.

    – Che espressione?

    – Di commosso stupore.

    Questo sì che è un artista vero, non come me, pensò Giulia, studiando il suo sguardo che sembrava realmente un po’ commosso. Un poeta? O ci sa soltanto fare e mi ha subito sgamata?

    – Grazie, è un bel complimento.

    – Meritato – aggiunse in fretta lui stavolta con un tono più allusivo e guardandola per la prima volta negli occhi.

    –…

    – E a cantare invece che emozione si prova?

    – Piacere mescolato a paura di sbagliare. Almeno, questo è quello che provo io.

    Anche in quel momento aveva un po’ paura di sbagliare, mescolata al piacere di conoscere questo bel tipo.

    – A me è arrivato solo il primo. Ma c’era anche altro.

    – Cosa?

    – Non lo so. Sono venuto per scoprirlo.

    – Non ci sono segreti.

    – Vedremo. E sentiremo.

    Giulia si sentì inspiegabilmente sotto esame, come se quelle parole, d’altronde pronunciate con dolcezza e una punta di autoironia, fossero riferite a lei, alla sua vita e non a quella del gruppo musicale di cui faceva parte.

    – Ok, ora si comincia. Shhh…

    – Ok, shhhh… a dopo, o alla prossima.

    Questo era accaduto per l’appunto sei mesi prima e le prove si erano susseguite a cadenza settimanale. Gli unici segreti venuti alla luce erano la bravura del direttore e la dedizione dei coristi. Però, di prova in prova, di spartito in spartito, a ritmo di romanza e di bolero, la musica tra loro era cambiata. E ora lucevan le stelle e olezzava la notte romana.

    IV

    La dottoressa Gabriella Gatti era una mosca bianca in camice bianco. Giulia l’aveva conosciuta qualche anno prima, quando aveva avuto bisogno di urgenti cure mediche. L’amicizia era subentrata a una brutta influenza intestinale da cui lei l’aveva tirata fuori giusto prima del ricovero in ospedale. A Giulia era subito andata a genio, perché non era un tipo da panacee alla moda, ma neanche una curatrice forsennata di organi a suon di farmaci e bisturi come la maggior parte dei suoi colleghi. Era una donna di scienza, senza dubbio, visitava scrupolosamente e interrogava i suoi pazienti, prescriveva analisi e medicine, ma spendeva tempo per capire chi aveva di fronte. Se non aveva un quadro abbastanza chiaro ed esauriente della persona, non prescriveva neanche un’aspirina. E poi non aveva pregiudizi verso la morte. Nel senso che la considerava tra le possibili soluzioni a disposizione in certi casi, avendo messo a frutto lo stage fatto subito dopo la specializzazione in una clinica svizzera in cui si praticava l’eutanasia. Come le rivelò in seguito, lì aveva imparato a comporre e iniettare un cocktail di sostanze capace di indurre un insospettabile arresto cardiaco per cause naturali, senza lasciare tracce rinvenibili con gli abituali esami autoptici.

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