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LIVE quasi un secolo
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E-book194 pagine2 ore

LIVE quasi un secolo

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Info su questo ebook

Racconto autobiografico di quasi un secolo di vita realmente vissuta, goduta e sofferta, con particolare risalto al tribolato periodo a cavallo della seconda guerra mondiale, così come la memoria lo ha tramandato, senza pretese di completezza e cronologia.
LinguaItaliano
Data di uscita26 gen 2015
ISBN9786050352009
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    Anteprima del libro

    LIVE quasi un secolo - Franco Blasi

    MESSICO

    PREMESSE

    Vorrei poter iniziare così:

    "Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto…[1]" perché di questo si tratta nel libro, ma il mio canto non ha levature così liriche. Ha, però, la prerogativa di raccontare episodi di vita realmente vissuta, goduta e sofferta nel tribolato periodo a cavallo della seconda guerra mondiale, così come la memoria li ha tramandati, senza pretese di completezza e cronologia .

    Gabriel Garcia Marquez, nel suo " Vivere per raccontarla, afferma:

    "La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla".[2]

    I nomi e qualche dialogo fanno appello alla fantasia.

    Gli episodi di guerra raccontati, svoltisi negli anni 1940 – 1945, rientrano nel più ampio contesto trattato dalla grande Storia.

    Anche le vicende di vita quotidiana e quelle tinte di rosa sono vere, tranne i nomi di fantasia.

    Nella narrativa, pur conscio delle difficoltà dell’intento, ho cercato di riproporre gli entusiasmi, la poesia e la drammaticità di allora, che ancor oggi mi emozionano, senza peraltro riuscirci appieno.

    – " Che speranze, che cori, oSilvia mia! Quale allor ci apparia la vita umana e il fato! …O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi?[3]

    Dal mio archivio personale ho inserito alcune illustrazioni d’epoca che documentano scorci di vita narrata.

    Ringrazio con affetto Luciana Mancini, i miei figli Cristina e Andrea, che con la loro amorevole assistenza e incoraggiamento mi hanno convinto a dare alle stampe questo libro.

    Un ringraziamentoa Silvano Nieddu che ha mi reso più agibili le tortuose strade delle formalità necessarie.

    [1] Ludovico Ariosto – Orlando Furioso, Capitolo primo, Proemio

    [2] Gabriel Garcia Marquez – Vivere per raccontarla – Oscar Mondadori 2008

    [3] Giacomo Leopardi, i Canti: xxi- A Silvia,36

    L’ARSENALE DI TARANTO

    Le storie dei grandi, specie quelle dei nonni, piacciono da sempre a tutti i bambini.

    Davide e Chiara non fanno eccezione. Quando la sera, dopo cena, stanchi e rilassati, si avvicinano interrogativi e mi fanno domande imbarazzanti, non sempre riesco a rispondere in modo esauriente. Davide mi chiede: Nonno, è vero che tu hai fatto la guerra? E Chiara: Nonno, perché gli uomini fanno la guerra. Rispondo come posso, ma quando mi dicono: Raccontaci qualche storia sui carri armati, sui cannoni, sulle bombe, faccio appello alla memoria e racconto lontane storie di vita vissuta.I due bimbi hanno meno di dieci anni e poca esperienza. Quando parlo mi seguono in silenzio, a bocca aperta, qualche volta increduli. Cominciai con una storia triste che non potrò mai dimenticare:-Una fredda notte del novembre 1941 due navi da trasporto della Marina Militare Italiana, dirette in Africa, salparono dal porto di Taranto scivolando, ad andatura ridotta, sulle acque scure del golfo, a luci spente. Trasportavano una parte della divisione corazzata Ariete, partita qualche giorno prima dal Friuli con i carri M 13 di rinforzo alla colonna di Rommel, che stava avanzando in Cirenaica. Chi era Rommel"? chiede Davide, molto interessato ai fatti di guerra, Era il comandante dei guerrieri tedeschi, alleati degli italiani, che combattevano in Africa contro gli inglesi Rispondo io. "Il mare in quella notte era calmo, l’oscurità profonda. Il piccolo convoglio aveva superato da poco l’imboccatura del golfo, oltre Santa Maria di Leuca. La rotta era segreta e tortuosa per sfuggire agli agguati. Il Mediterraneo, così familiare ai tempi di gloria, il Mare Nostrum, si apriva sotto le stelle, pieno d’insidie. Sommergibili inglesi di cui si avevano vaghe notizie, incrociavano al largo, pronti a colpire.

    Su una delle navi, continuavo a raccontare, viaggiava, ben fissato, lo stesso carro M13 sul quale mi ero addestrato nelle pianure del Friuli, come mitragliere marconista, qualche mese prima. Il silenzio era perfetto, rotto solo dal rumore dei motori e dallo sciabordio delle acque. I carristi, in gran parte veneti e lombardi, erano seduti a ridosso delle cuccette, dove avevano allestito un piccolo tavolo da gioco. Ridevano allegramente, ricordando con sospiri di rimpianto, le loro solite storie d’amore, le stesse che tante volte avevo sentito anch’io. Flavio, Antonio, Mario, Remigio, Giacomo, tutti amici miei con cui avevo condiviso le manovre nel Friuli, nell’autunno precedente.

    Improvvisi arrivarono i siluri che colpirono centralmente le due navi, troncando sulla bocca le risate e le storie d’amore. La nave su cui era ancorato quello che fu il mio carro, con i miei amici che giocavano allegramente, colò a picco in meno di cinque minuti, scaraventando nel mare buiosolo uno sparuto gruppo di superstiti. L’altra impiegò più tempo, permettendo ai sommergibili nemici il salvataggio di parecchie vite umane. La gran parte perirono nel fondo, schiacciati dagli stessi carri che si erano disancorati nell’esplosione.

    Solo pochi riuscirono a ritornare in patria su mezzi di fortuna.

    Questo terrificante quadro, bambini, mi fu raccontato da alcuni sopravvissuti, rientrati a Parma per riorganizzarsi.

    Fu per un caso singolare della sorte che quella notte non mi trovai con loro all’imbarco al porto di Taranto. Solo perché, all’ultimo momento, fui chiamato a Parma per partecipare al corso allievi Ufficiali.

    Il mio pensiero, cari bambini, si sofferma, ora con affetto e deferenza, su quelle vittime che immolarono così bruscamentela loro giovinezza. Oggi non sarei qui a raccontare le mie peripezie se i giochi della burocrazia non avessero pianificato così capricciosamente gli eventi."

    Mi seguirono nel raccoglimento e si addormentarono piano piano sognando, come mi dissero, il mare, le navi e i carri armati.

    Taranto, ironia della sorte, fu anche il luogo di una mia breve permanenza nell’età infantile.

    Bella città a sud dell’Italia, piena di millenaria storia che la vide protagonista di alterne vicende; prospetta sul mare Ionio, racchiusa in una splendida cornice costiera. Qui, nacque mio fratello Guido.

    Quando mio padre, che svolgeva la sua attività nell’arma dei carabinieri, mi portò a Taranto avevo quattro anni.

    La casa, attigua alla caserma, si trovava nel cuore del trafficatissimo Arsenale; era semplice, fatta di quattro locali intercomunicanti a piano terreno, senza corridoio.

    L’Arsenale eccitava la mia fantasia di bambino.

    Il mare, che sciabordava lentamente lambendo i grappoli di mitili appesi lungo la banchina, il boato dei bastimenti che incrociavano vicini e lontani, lo strepitio delle locomotive grandi e piccole che manovravano nella ragnatela di binari, il tintinnare metallico dei respingenti, mi eccitavano.

    Che meraviglia vedere comporre lunghi treni carichi di merci più disparate, seguirli mentre una macchina sbuffante li portava via tra nuvole di vapore e fischi laceranti.

    Spesso i militari di mio padre mi accompagnavano a passeggiare in quel paradiso per vedere le locomotive e qualche volta mi facevano tuffare in mare sotto la banchina, per prendere un grappolo di mitili che io, trionfalmente e con grida di gioia, innalzavo sopra di me.

    Un giorno d’estate, ancor fresco nella memoria, una di quelle locomotive si fermò, accesa, vicino a me, mentre passeggiavo con la mia guardia del corpo sulla banchina, in riva al mare. Il macchinista scese senza spegnerla, mi fece una carezza e si mise a chiacchierare con i carabinieri. L’ansimare dolce della macchina, che sembrava dirmi: "Guardami come sono bella," mi attrasse subito così forte che mi arrampicai sui gradini di ferro, tanto alti, afferrai di botto la leva che brillava al sole davanti a me e mi ci appesi con tutto il corpo. La macchina, quasi per incanto, si mosse e partì lentamente sbuffando.

    Che scena! Io ridevo battendo i piedi divertito, mentre il macchinista ed i miei protettori mi correvano appresso urlando e gesticolando come in una comica di Ridolini. Fui raggiunto e sculacciato, ma continuai a ridere ed a scappare lungo il mare.

    Il giorno dopo andò peggio. Correndo su un molo, non lontano dal ponte girevole, mi colpì il luccichio di una bottiglia di birra rotta. (era di vetro - allora non c’erano le lattine).

    La brandii a mo’ di spada scuotendola e mi ferii profondamente all’altro polso. Uscirono da me urla e sangue. Fui portato all’ospedale dove mi ricucirono, mi bendarono e mi rispedirono a casa.

    Mio padre aveva abbracciato la carriera militare molto giovane e conobbe mia madre nel paese di Castiglione in Teverina, poco distante da Orvieto, nel Lazio, dove comandava la locale stazione dei carabinieri.

    Lo ricordo con grande affetto come uomo buono e generoso; esempio di onestà e correttezza adamantine. Si chiamava Sante. Mia madre lo chiamava Santino.

    Nella sua carriera seguì molti spostamenti e giunse a Taranto provenendo da Priverno, dove nacquemia sorella Orietta.

    Mia madre, dolce nella memoria, per darmi alla luce come primogenito, tornò nella vecchia casa paterna, posta al centro del paese, ove nacque e visse fino all’incontro di mio padre.

    Il nonno, il capostipite che io non ebbi la fortuna di conoscere, fu all’epoca, uno dei più importanti proprietari terrieri del paese da tutti ricordato.

    Castiglione in Teverina, è uno dei meravigliosi paesi che si ammirano, contornati da vigneti e oliveti, arrampicati a ridosso della linea ferroviaria Firenze Roma, sulle colline lambite dal Tevere, mitico fiume di antiche gesta.

    Posto a circa un centinaio di chilometri a settentrione di Roma, ostenta la sua secolare esistenza con architetture antiche ed un castello protetto da alte mura merlate, ben conservate che denunciano un lontano passato di fasti. Dalla piazza principale si ammira lo spettacolare panorama della pianura sottostante con le ampie anse del fiume che, serpeggiando, si insinua fra piantagioni rigogliose, quasi parallelamente all’autostrada e alla linea ferroviaria.

    Quando, diretto a sud, passo per quei luoghi con il treno o in macchina, mando un saluto diaffettuoso rimpianto a quei colli inerpicati. Mi rivedo fanciullo festoso giocare su quella piazza sotto gli alti cipressi [1] chiassosi di passeri, che si inchinavano al vento; ritrovo gli olivi d’argento, le acque tumultuose del fiume, ma le immagini sfumano presto nella corsa e mi lasciano da solo, alle nostalgie.

    [1] Bei cipressetti, cipressetti miei, Fedeli amici d’un tempo migliore, Oh di che cuor con voi mi resterei!- Guardando io rispondea – ho di che cuore! Giosuè Carducci: Davanti a San Guido.

    L’ALBERO DI FICHI

    All’età della scuola mio padre mi portò a Locorotondo, bel centro, poco a sud di Bari.

    Fu un’altra memorabile tappa della mia infanzia, era come oggi, un paese bellissimo in provincia di Bari, fatto di case bianche, pulitissime, accostate un po’ alla rinfusa che davano spazio a piccole strade contorte, inserite in un paesaggio quasi lunare, in aperto contrasto con il blu intensodel mare che appariva a nord-est. Sembrava nato da una favola. Oggi è inserito nel novero dei borghi più belli d’Italia.

    La campagna a sud, era la parte più fertile, ricca di vigneti e piante dai frutti succosi che solleticavano la mia fantasia e la mia gola.

    Ricordo quel giorno che lasciato libero di scorrazzare, mi addentrai fra la vegetazione più fitta. Mentre camminavo titubante e curioso, fui attratto da un crepitio di fuoco acceso che sembrava vicino.

    Preso più dalla paura che dalla curiosità, mi feci dappresso e dietro le foglie vidi sbucare all’improvviso una piccola costruzione rustica fatta di due muri che sorreggevano una trave di ferro, con appesa una grossa caldaia piena d’acqua e panni bollenti. Sotto crepitava un fuoco sommesso. Una lamiera ondulata, tenuta ferma da due grosse pietrecopriva il tutto. Sembrava un quadretto familiare suggestivo e mi tranquillizzai. Passata la sorpresa mi concentrai su un albero carico di belle pere che si ergeva davanti a me appoggiato ad una delle pareti del rustico. Mi arrampicai svelto e cominciai ad addentare un frutto che però era duro e acerbo. Mi guardai intorno e scoprii, appoggiato all’altro muro, un albero più grande che mostrava sfacciatamente grossi fichi aperti, dal colore rosso e goloso del frutto maturo. I fichi, che bello, erano la mia passione. Mi spinsi d’impulso sulla copertura di lamiera per

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