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Il sarto di Zeus: Un romanzo tra la mitologia greca e la fiaba moderna
Il sarto di Zeus: Un romanzo tra la mitologia greca e la fiaba moderna
Il sarto di Zeus: Un romanzo tra la mitologia greca e la fiaba moderna
E-book371 pagine5 ore

Il sarto di Zeus: Un romanzo tra la mitologia greca e la fiaba moderna

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Info su questo ebook

Messina: sulla nave Caronte sta per avvenire un incontro davvero interessante…

L’arrivo di Ares e Cratos attira l’attenzione del capitano che li invita a raccontare la loro storia.

Così Ares, il dio della guerra, si ritrova a narrare duemilacinquecento anni di vita sulla terra.

Personaggio fisicamente forte e molto colto, si spinge più volte in ragionamenti psicologici e filosofici. La sua storia si intreccia con molti personaggi rilevanti, sicuramente il più complesso è proprio Cratos, divenuto semidio per volere di Zeus, dopo averlo aiutato nello scontro con i Titani.

Paradossi e battute ironiche si susseguono, battaglie per mari con la Marina inglese e pirati senza scrupoli arricchiscono il romanzo. Ripetuti flashback, al fine di contestualizzare la crescita spirituale del dio della guerra.

Apollo e Atena gli hanno inflitto una maledizione ma nessuno all’interno dell’Olimpo potrà aiutarlo. Solo alla fine Ares, aiutato dal suo fedele amico Cratos, capirà come liberarsene.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mar 2021
ISBN9788868675363
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    Anteprima del libro

    Il sarto di Zeus - Antonino Moschella

    Tonietta

    1. L’alba dopo una notte irreale:

    nave Caronte in servizio nello stretto di Messina

    Si erano imbarcati qualche sera prima su un battello adibito alla pesca, partito dal porto di Cagliari e diretto a Trapani: si trattava già della terza notte che trascorrevano scomodamente. Nel frattempo avevano sopportato le inalazioni di gasolio di un treno fatiscente che, da Trapani, li aveva condotti ad Agrigento, dove avevano trovato una linea elettrica per Messina.

    Qui, grazie ad alcune informazioni, vennero a sapere dell’esistenza di questa compagnia che, assurdamente, portava il nome del traghettatore dell’Oltretomba, un mistico raggelo che aveva fatto balzare alla loro mente quanto possano essere superficiali gli uomini, permettendosi di deridere ciò che ritengono essere mitologia.

    La posizione scomoda su un umido e decrepito pavimento, reso scivoloso dalla pece e da detriti liquidi di ogni genere lasciati da passeggeri e da improvvisati turisti, li aveva spinti ad alzarsi e a dirigersi sul pontile.

    È di pubblico dominio che le morti in mare siano molto cruente, soprattutto nel mezzo di un gelido inverno dove l’umidità del ferro e della vernice non sono amici di nessuno, per cui decisero di sorreggersi alla balaustra, onde evitare di cadere negli oscuri abissi.

    La nave Caronte si presentava deserta e le ciminiere illuminate da un faro intermittente rendevano l’atmosfera tetra: Messina sembrava diversa. Ci fu un tempo in cui si dimostrò più incivile, popolata da mercanti senza scrupoli, le navi venivano costruite usando legno massiccio, pirati e briganti ne popolavano la costa e le bettole del porto unite alla compagnia di giovani meretrici ne facevano un porto da evitare per la maggior parte dei naviganti d’alto borgo; ma si trattava di altri tempi. Il lustro di un periodo post industriale l’aveva resa affabile e il suo profondo fondale aveva permesso al porto di arricchirsi. Unica via d’accesso dallo Ionio al Tirreno: proprio qui, dove avviene l’unione di due mari, il nome Caronte non appariva certo il più adatto. Mentre scendevano le scale notarono il fumo di una sigaretta che invadeva il loro specchio visivo. Si separarono per osservare meglio, il primo girò a destra mentre il secondo risalì le scale per avere una migliore visuale.

    L’uomo più in basso notò, riflesso nel vetro del locale adibito a salotto, il volto di un giovane ragazzo che aveva conosciuto al suo sbarco a Cagliari. L’aveva perso di vista moltissimi anni prima, in quello che fu il giorno peggiore della sua esistenza. Era lui e, pur avendo la certezza del suo passaggio a miglior vita, sapeva di non sbagliarsi. Iniziò a correre, urlando il suo nome:

    «Elias, ti prego aspettami!» ma nulla, cambiò direzione e scomparve nel fumo della sigaretta. Non capiva. Le lacrime si impossessarono del suo volto, non riusciva a crederci: da anni ormai non pensava più a lui.

    Girò il corridoio esterno, scivolò a causa dell’umidità e si ritrovò al piano sottostante, dove si trovavano ammassate le merci più disparate.

    Aprì gli occhi e una bambina gli teneva la mano:

    «Mio signore, vi siete dimenticato di noi. Sono anni che vaghiamo su questa chiatta, nessuno viene a prenderci, mi dia due monete!».

    La bimba piangeva, parlava un’altra lingua, ma lui riusciva a capirla perfettamente:

    «Solo due monete signore, o Caronte non può portarci dove possiamo riabbracciare i nostri cari!».

    Si alzò di scatto, esaudì il desiderio della bambina, donandole venti lire italiane, suddivise in due pezzi da dieci e la bimba sparì!

    Frastornato si diresse in cerca di Elias, certo del fatto che fosse proprio lui. Il cuore gli batteva forte e non riusciva a capirne il motivo: pensò che forse gli voleva davvero bene.

    Prese la sacca con le sue monete, la tenne pronta e nel frattempo un marinaio iniziò a singhiozzare:

    «Signore, aiuti mia madre, mi ha appena accarezzato la fronte e non riesco a liberarla! Lei la vede come la vedo io, vero? Anche se è morta da più di cinque anni!».

    Mise le monete sugli occhi della signora, che lo ringraziò con un gran sorriso, e sparì subito dopo.

    Il marinaio lo abbracciò:

    «Ero sicuro di non essere ubriaco, signore! La vedevo ogni notte su questa tratta, ma non sapevo cosa fare!».

    «Tranquillo ragazzo, non sei il solo: ognuno di noi ha un compito da eseguire, che non è uguale per tutti. Adesso è necessario rispettare il percorso della morte perché, quando arriva, anch’ella ha il suo prezzo.»

    Iniziò a girovagare per la nave aiutando quante più anime possibili finché un altro scalino non lo fece cadere a faccia in avanti: avrebbe ricordato solo un gran male alla testa.

    Si risvegliò dopo diverse ore con un dolore fortissimo alla tempia, accovacciato su due cuscini, la borsa con le monete legata al fianco, lontana da occhi minacciosi, e davanti aveva il viso di un inserviente dai lineamenti squadrati e con gli occhi accecati d’odio, rossi come diamanti estratti dagli Inferi; parlava greco e urlò qualcosa che non gli piacque tanto:

    «Non riuscirai a morire facilmente, scordatelo!».

    Si alzò di scatto rispondendo all’uomo con un pugno fortissimo , il corpo del greco sbalzò fuori ruzzolando dall’inferriata prima di diventare polvere, ma stavolta non vide lei: sua maestà, la Morte!

    Si sdraiò nuovamente sui due cuscini, sistemandosi per riprendere sonno. Doveva aspettare che il sole tramontasse prima di ricominciare il proprio percorso.

    La morte non gli faceva paura, era l’unica cosa davvero ricercata.

    2. La voce di un incredulo capitano

    Ho conosciuto Ares al suo risveglio, un uomo forte con occhi che emanavano speranza, quella che ti spinge a credere in qualcosa che normalmente faresti fatica solo a immaginare. Scesi dalla cabina di monitoraggio, avvisato da un mozzo del fatto che un uomo fosse caduto in mare, ma nessuno ne aveva visto il corpo. Generalmente chiunque passi la notte sulla nave, per sopperire all’umido freddo si concede qualche sorso di cognac, quindi iniziai a pensare che fosse qualche allucinazione dovuta all’alcol.

    Da moltissimi anni conduco queste chiatte in giro per il Mediterraneo, ne ho viste di tutti i colori e non mi ha mai sconvolto nulla, ma quando vidi Ares, in piedi sulla balaustra come se fluttuasse sul mare, l’unica cosa che mi riuscì fu quella di ascoltare la sua storia. Dal preciso istante in cui iniziò a raccontarmela mi sentii trasportato in un mondo surreale, provando emozioni che nessuno era mai riuscito a trasmettermi. So di essere un semplice capitano di chiatte da linea che trasportano merci e strani passeggeri, ma spero di riuscire a trasmettervi ciò che lui ha trasmesso a me: Amicizia, Amore, Passione e Speranza.

    Più volte gli chiesi di avvicinarsi per sedersi sulla comoda panchina che avevo fatto sistemare dal mio secondo, mentre un altro marinaio si trovava in ginocchio al suo cospetto, ringraziandolo per avere dato pace all’anima della madre morta.

    Alzò gli occhi girandosi di scatto, sembrava venuto da un altro mondo. Le sue vesti luccicavano, sembravano antiche e, secondo il mio modesto parere, avevano qualche secolo. Ma ciò non risultava importante, l’unica cosa che contava consisteva nel far rientrare quell’uomo, ma da subito capii che tale non era. Se fosse stato umano, certamente si dimostrava un illusionista bravissimo, poiché nessuno sarebbe riuscito a fluttuare da una parte all’altra della nave, come se fosse la cosa più naturale del mondo. I miei occhi lo vedevano fuori dalla balconata e, dapprima, il fumo delle ciminiere mi ingannò, dopo un po’ mi resi effettivamente conto che riusciva a muoversi come se fosse una nuvola.

    Mi sedetti sulla panca e non dissi più nulla; due tazze di caffè bollente si trovavano adagiate su un tavolino, desideravo conoscerlo. Iniziai a guardarlo, cercando d’incrociare i suoi occhi, per trasmettergli il mio interesse:

    «Sei un capitano coraggioso, non mandi avanti gli altri ma cerchi di risolvere i problemi della tua nave mostrando forza e onore» mi disse sedendosi e afferrando la tazza di caffè.

    «Non c’è una tazza di caffè anche per me?»

    A parlare fu l’altro uomo che, nel frattempo, osservava tutta la scena dall’alto. Indossava anch’egli una tunica con dei ricami ai polsi color oro e delle stringhe che si legavano ai fianchi. Non riuscivo a vedere il volto, coperto da un cappuccio, ma la sua carnagione chiarissima con il viso circondato da una barba bianca mi colpì; sembrava arrivato da un’altra epoca e il timbro della sua voce risultò rassicurante e profondo. Si sedette al nostro fianco, prendendo la mia tazza, costringendomi a fare cenno al mozzo di servirne un’altra.

    Non vi fu bisogno di chiedere nulla, Ares iniziò a parlare come se fossi il suo confessore, bevve un sorso rapendo il mio udito.

    Restai sconvolto non appena capii il periodo della sua nascita, risalente agli anni del favoloso mondo greco.

    Iniziò il suo racconto narrando di essere nato a Sparta, città di guerrieri dove la disciplina militare e l’arte del combattimento venivano seguiti come unico vero scopo di vita.

    Quella città greca ha segnato pagine della storia, con la sua arte militare. Qualsiasi bambino appena nato veniva esaminato in ogni piccolo particolare, se anche una minuscola parte del suo corpo risultava imperfetta veniva scartato. Ares, per qualche malsano motivo, fu vittima di quest’ultima decisione; parlò di una manipolazione da parte degli dei, che volevano fosse eliminato, ma il volere di una donna molto amorevole fece sì che venisse soltanto abbandonato, per avere una seconda possibilità se qualcuno lo avesse trovato.

    Interrogò molte persone a quel tempo affinché lo aiutassero a risalire alla sua famiglia, ma nessuno riuscì a soddisfare la sua sete di conoscenza. Solo col passare del tempo riuscì a dare risposte alle sue domande.

    Iniziò a raccontarmi la sua vita, partendo dal 600 a.C.

    Durante un giorno di primavera la madre urlava di dolore, mentre il padre trascorreva il tempo a modo suo. Appariva usuale a quel tempo che gli uomini non badassero a nulla di ciò che avveniva al di fuori della loro realtà. La discriminazione nei confronti delle donne risultava forte a Sparta, anche se la loro regina deteneva il diritto di parlare tra gli uomini recitando le famose parole:

    «Solo le donne spartane partoriscono uomini veri». Non esisteva spazio per gli affetti, per le più povere la vita era veramente difficile.

    Fu concepito da una bellissima giovane, comprata e tenuta come schiava da un aristocratico, il quale consumava la sua esistenza accerchiato dai piaceri, senza curarsi della propria famiglia. Avendo già avuto discendenza dal suo primo matrimonio, un figlio veniva visto come un problema in più.

    Un anziano sacerdote del tempio di Zeus riferì ad Ares che, secondo il loro credo, gli dei avrebbero inviato i propri figli sulla terra in forma umana, permettendo a donne semplici di metterli al mondo e mai avrebbero pensato di aver concepito un dio.

    Queste creature venivano tenute sotto stretta supervisione degli dei, ma il sacerdote raccontò che una volta accadde qualcosa di straordinario: una giovane partoriente fu presa da spasmi violentissimi mentre il suo corpo bruciava come un albero colpito da un fulmine, sotto gli occhi della nutrice, che la stava aiutando; la schiava ripeté più volte di aver visto Apollo, durante il parto, deformarsi in strane visioni e inveire contro il neonato, che venne portato via dalla stessa.

    Secondo il racconto, una dea aveva dato incarico alla nutrice di salvare il bambino. La vita di quel piccolo sembrava già stata scritta.

    «La sua macchia sul collo, i suoi polsi forti e quegli occhi azzurri.» Quando riuscì a trovarla si ricordava perfettamente di lui. Lo scrutò attentamente, piangendo mentre lo accarezzava. La nutrice, schiava di un uomo che non conosceva sentimenti, fu avvolta da un senso di amore verso quel neonato. La scena che le si presentò risultava surreale, per permettere a qualcuno di scartare quel bambino. Il padre urlò chiaramente che avrebbero potuto ucciderlo: quell’essere non era degno di essere suo figlio. Il sentimento amorevole di quella donna fece sì che il piccolo Ares venisse abbandonato tra una siepe e una roccia, nella salita del Taigete.

    Fu ritrovato da una coppia di mendicanti: Nestore, un pastore, ed Eunuca, una povera donna che aveva dedicato la sua vita al suo compagno. Figlia di nessuno e senza famiglia, cresciuta tra le baracche e le nutrie, accudita da tutti; sopravvissuta scegliendo di non essere una donna di facili costumi, preferì vagabondare con l’unico uomo che l’aveva sempre rispettata.

    Eunuca non aveva avuto figli e non le parve vero trovare quel fagotto che piangeva a gran voce, ricoperto da una tela bianca in una cesta di rami intrecciati. Ringraziò Afrodite per il dono dell’amore di un figlio trovato. Amò quel bimbo dal primo momento che lo tenne in braccio fino all’ultimo, in cui fu lui a tenerla stretta. Vivevano di stenti, ma colmi di felicità. Dimostrò di essere una donna molto intelligente, sapeva leggere anche se non aveva mai ricevuto un’istruzione: in quel tempo il sapere era un lusso riservato agli aristocratici, per una donna un desiderio difficile da realizzare. Vagabondarono per anni in lungo e in largo per tutta la Grecia. Trovare padroni da servire per lavoro si rivelava un’impresa ardua per il povero Nestore, quasi sempre i signorotti si mostravano insulsi approfittatori. Trascorsero moltissime notti dormendo sullo sterco, raccogliendo ciò che la terra e qualche animale morto potevano donargli; nonostante ciò, rispettavano gli dei!

    «Non comprendevo molto bene il perché dovessimo venerare delle divinità, la nostra vita era già difficile così, i sacrifici ci privavano del cibo che avrebbe potuto sfamarci, ma Nestore si dimostrava impassibile: Venera gli dei, figlio mio!»

    Questa frase mi portò a sgranare gli occhi e la cosa lo spinse a pensare: sembrava essere fermamente convinto di essere nato nell’antica Grecia.

    Ebbe un’ottima istruzione, considerando la sua vita da nomade.

    All’età di circa sette anni, colui che lo aveva cresciuto come un figlio morì in una circostanza assurda. Nel loro peregrinare incontrarono dei viandanti fermi per la notte, nelle vicinanze di Micene. La vista della catena montuosa che viene chiamata il guerriero dormiente appariva perfetta. Il sole si spegneva lentamente alle sue spalle: la città di Agamennone aveva da sempre avuto il suo guerriero a proteggerla. Nestore, uomo semplice, notando la bellezza del panorama che gli si presentava di fronte, si gettò in ginocchio, ringraziando gli dei per avergli mostrato tanta bellezza. I viandanti, molto diffidenti, si convinsero che Nestore fosse uno stregone. Non possedevano la stessa passione religiosa del povero nomade e di riflesso iniziarono a deriderlo. Dopo uno scambio di opinioni diventarono amichevoli offrendo da bere un bicchiere di vino; ma dietro i loro sorrisi si celava paura e invidia verso un povero uomo: il veleno diluito nel nettare degli dei uccise Nestore in pochissimo tempo.

    Quel piccolo bambino iniziò a fare domande sul perché il padre fosse morto e un uomo, che spesso ritroverà nel corso della sua esistenza, dal volto squadrato e pieno di rabbia, mostrò i suoi occhi rossi per via dell’odio, iniziando a inveire contro gli stregoni e coloro che deridevano gli dei:

    «Siamo qui per farci rispettare come Greci, non prendiamo al nostro seguito stregoni stranieri venuti da chissà dove. Tuo padre non poteva considerarsi un uomo buono».

    Fu quello il primo vero momento in cui il piccolo provò l’odio che cresceva dentro, desiderava uccidere tutti, ma era solo un bambino e preferì abbracciare la madre e dare una degna sepoltura al povero Nestore. Proprio lui che aveva sempre venerato gli dei, aveva perso la vita poiché altri non avevano compreso la sua grande devozione.

    La povera Eunuca cercò di insegnare a quel piccolo tutto; non aveva le possibilità degli altri adolescenti ma con tenacia e dedizione, quel bambino apprese moltissimo. Ares non si diede mai per vinto e la madre capì da subito che si trattava di un bimbo dalla spiccata personalità, il suo corpo cresceva forte come il suo desiderio di conoscenza.

    Dopo la morte di Nestore, presi dallo sconforto, decisero di fare rientro a Sparta. Eunuca aveva vissuto gran parte della sua vita nei sobborghi della città e si sentiva sicura che avrebbe trovato qualche signore disposta a prenderla come faccendiera, al fine di dare un tetto al piccolo. Conosceva le leggi della città e il suo diniego nei confronti degli stranieri, ma nelle vene di Ares scorreva sangue spartano, non avrebbe dovuto rinnegare le sue origini, anche se doveva la vita a due vagabondi. Non fu assolutamente facile, il viaggio di ritorno mise a dura prova la donna che, giungendo a Sparta, non riuscì a trovare nessuno disposto ad aiutarla. Si sistemarono insieme ad altri poveri come loro. Il piccolo diede il meglio di sé aiutando la madre a tirare su una baracca. Si dimostrò abile con la lancia e la sua forza cresceva smisuratamente, dentro di lui abitava la consapevolezza che avrebbe trovato il modo di sfamare sia lui sia la madre. Furono mesi assurdi, durante i quali fece amicizia con i giovani che si preparavano a diventare guerrieri e decise di farne parte.

    Ben presto dovette rinunciare ai suoi piccoli sogni da guerriero e abbandonare la città, per onorare le spoglie di quella donna che si dedicò a lui come se fosse la vera madre.

    Fino ad allora non aveva avuto un nome, Eunuca lo aveva sempre chiamato Pais che, in greco antico, vuol dire figlio.

    In cuor suo si sentiva uno Spartano e alle loro leggi non si sfuggiva: non possedeva titoli per restare in città. Vagò per molto tempo in cerca di cibo e di acqua per la foresta: lupi e cinghiali provarono a cibarsi delle sue carni, ma il ragazzo non immaginava nulla riguardo la sua maledizione e li affrontava sempre a muso duro. In un modo o nell’altro riusciva sempre ad avere la meglio.

    Una mattina, svegliatosi per il calore del sole sotto un olivo secolare, udì lo stridio di una vocina e le urla di voci adulte provenienti da molto lontano che invocavano il nome di:

    Leonida !

    Un bimbo di circa quattro anni, scappato dalle mura domestiche per distrazione della nutrice. Animali feroci lo avevano accerchiato. Ares, nonostante fosse solo un ragazzino con una spada malconcia e una lancia rudimentale che aveva assemblato da alcuni resti trovati durante il suo vagabondare, si fece avanti. Guardò la punta della lama arrugginita e il bastone ricurvo che per lui risultavano essere gli unici beni preziosi, i quali gli permettevano di sopravvivere a quella vita fatta di stenti e privazioni. Non ci pensò due volte e con enorme coraggio riuscì a sconfiggere il branco feroce salvando il bambino.

    Non aveva la più pallida idea di chi fosse quel fanciullo moro, ma quando vide arrivare il padre, le sue ginocchia iniziarono a tremare. Aveva sentito parlare di lui, della sua possanza fisica, dell’amore per la sua città e i suoi sudditi, ma mai avrebbe pensato di riuscire a vederlo di persona.

    L’uomo si chinò, prese il figlio abbracciandolo forte. Il giovane guerriero si sedette stanco dalla fatica e con una fame struggente: non mangiava da diversi giorni e vedeva di buon occhio i cadaveri di quegli animali, mentre il padre del bambino si avvicina sorridente.

    Ordinò che portassero dell’acqua di sorgente, passandone una sacca al salvatore del figlio, che bevendo a grandi sorsate riprese fiato, mentre quell’uomo alto e forte gli porgeva la mano in segno di stima, aiutandolo ad alzarsi.

    «Il mio nome è Anassandria, re di Sparta, grazie per aver salvato mio figlio. Posso sapere il tuo nome?»

    Il giovane guerriero non aveva un nome, non sapeva cosa rispondere al re. Nestore ed Eunuca lo avevano sempre chiamato Pais ma la madre che l’aveva cresciuto gli aveva confidato di averlo trovato orfano, abbandonato, avvolto in un panno ai piedi del Taigete. Gli raccomandò di non raccontare mai la sua storia, per paura che gli stessi spartani lo rinnegassero ancora una volta. Come poteva un giovane scartato dichiarare al re degli spartani di avere salvato la sua discendenza? Proprio lui che dagli spartani era stato ripudiato? Pur essendo ancora un bambino aveva capito come fare buon viso a cattiva sorte, quasi riuscì a farsi accettare tra le fila dei giovani guerrieri per imparare l’arte militare all’interno della città, mostrandosi forte e sveglio, così pensò per qualche istante quali dovessero essere le giuste parole da pronunciare al re e, dopo aver respirato profondamente, disse:

    «Mio re, sono un orfano che è stato allevato da due mendicanti, ma da qualche tempo sono venuti a mancare. Vagabondo per la foresta cercando di migliorare la mia forma fisica e di sopravvivere. Avrei salvato qualsiasi essere umano si fosse trovato in quella situazione».

    Il re amava le persone decise, quelli che vanno subito al sodo, per uno spartano era molto importante essere diretti e non perdere tempo nelle situazioni, soprattutto quelle più difficili; scrutò quel ragazzo, lo osservò cercando di entrare nella sua mente:

    «Vieni con me giovane guerriero, la mia Sparta sarà la tua dimora. Hai salvato il futuro re, è il minimo che io possa fare nei tuoi confronti. Vi allenerete insieme: ho visto il tuo slancio e la tua preparazione, sono sicuro che con una buona spada, una lancia dritta e uno scudo, potrai servire il popolo nel migliore dei modi, unendo la passione e la dedizione che hai in corpo. Ti accolgo come un figlio. Ti presenterai a tutti come Ares, in onore al dio della guerra: nessuno è mai riuscito a rappresentarlo ai miei occhi in modo migliore».

    Il nome Ares gli fu dato da un re e non da uno qualsiasi, dal padre di colui che lascerà un segno indelebile nella storia di tutta la Grecia, colui al quale Ares resterà sempre fedele.

    Per qualche anno della sua adolescenza riuscì ad assaporare il calore di una casa, l’amore sincero di una famiglia; anche se la politica della città non risultava proprio democratica l’ambiente familiare non ne subiva l’influenza. Anassandria amava suo figlio, a ogni insegnamento permetteva ad Ares di partecipare, così anch’egli ebbe la possibilità di sviluppare la sua forma fisica e mentale, al fine di diventare un vero guerriero al servizio di Sparta.

    Durante quel periodo, iniziava ad accorgersi di alcune diversità: subiva i colpi, provava dolore, ma dopo una sanguinosa ferita si riprendeva immediatamente; il suo corpo subiva delle mutazioni immediate, guariva seduta stante!

    Una notte durante un’esercitazione, un giovane Leonida, con una gran voglia di sapere, lo sfidò a duello con la spada e lo scudo; fu un combattimento all’ultimo sangue, il futuro re lo infilzò con la sua spada e la rigirò nel suo costato guardandolo negli occhi; cadde per il dolore mentre tirava via la spada con una mano, con l’altra lo aiutava a rialzarsi:

    «Prima o poi mi spiegherai come fai a non morire».

    Non chiese mai nulla e, anche se lo avesse fatto, Ares non avrebbe saputo cosa rispondere.

    Durante la sua crescita si trovò a sfidare i migliori guerrieri di tutta la Grecia, Sparta si mostrava militarmente sempre più forte e i soldati si sentivano più sicuri quando al loro fianco giungeva Ares a tenere alto lo scudo. Leonida era un re molto amato: «Morirei per ognuno di voi» amava questo monito e lo urlava in battaglia; per ogni decisione chiedeva consulto al suo amico Ares. Quando Serse invase le coste della Grecia, Ares era lì a tenere alta la spada al fianco dello scudo di Leonida.

    Aveva studiato dedicando la sua intera giovinezza alla totale conoscenza della guerra, il suo corpo forte e giovane si prestava perfettamente al combattimento. La sua mente, inspiegabilmente attratta dall’arte bellica non lasciava spazio a nient’altro: sì, a Sparta la guerra veniva considerata arte.

    Anassandria, morto da qualche primavera, aveva lasciato il trono a un giovane Leonida, che si dimostrò un re molto coscienzioso. Spese molte ricchezze nel cercare di convincere gli efori a persuadere il consiglio, per inviare l’esercito a difesa della Grecia, in modo da fermare l’invasione persiana. Ma tutto fu vano: troppa corruzione nel consiglio della città, il re sapeva benissimo chi realmente fosse Serse; un uomo talmente vanitoso da credersi un dio.

    Leonida strinse Ares, prese il suo braccio come si fa con un fratello:

    «Conosco solo una persona al mondo che può essere colpita senza provare la gioia della dolce morte e sono molto felice di non essere io! Andiamo a vedere se effettivamente questo Serse è immortale».

    Il suo sorriso fu di circostanza, ma lo sguardo fu fraterno:

    «Ares, andiamo a difendere la mamma Grecia!».

    Giunsero alle Termopili dopo giorni di cammino, notarono immediatamente lo schieramento. L’ondata persiana fu affrontata con onore e sentimento, se non fosse stato per il tradimento di Efialte la storia avrebbe avuto un altro percorso.

    Leonida diede da subito prova del suo valore, un vero re: il primo a scendere in battaglia, l’ultimo a rientrare nella tenda. Si è sempre creduto che dei trecento fosse sopravvissuto solo Aristodemo, ma così non fu.

    Ares non tornò a Sparta, dopo essere stato colpito a morte, si ritrovò vivo e nudo ma nello stesso corpo, come resuscitato in una caverna.

    Solo alla sua terza morte, iniziò a capire di essere speciale. La sua maledizione non gli permetteva né di invecchiare né di morire, non un capello bianco, non una deficienza fisica o mentale: Ares, mentre mi parlava, aveva trentacinque primavere, da più di duemilacinquecento anni.

    Il caffè finì e quell’uomo, che mi stava intrattenendo narrando la sua fantastica storia, chiese se fosse possibile averne una tazza di quello bollito nella pentolina di rame, caffè greco insomma, anche se da noi viene chiamato caffè turco. Il mozzo, nascostosi per ascoltare la sua storia, non chiese neanche il permesso, si alzò per correre in cucina e cercare di soddisfare la richiesta di quell’uomo, mentre il suo accompagnatore tirava fuori da una tasca nascosta della magnifica tunica una scatoletta di latta con dentro dei sigari. Non ne avevo mai visto di così particolari. Presentavano una forma molto allungata e sembravano davvero sottili; me ne passò uno e quando lo accesi, con la fiamma di un cerino, il suo profumo mi lasciò affascinato. Iniziammo a fumare tutti, mentre il mozzo giungeva correndo con un vassoio e un bollitore colmo di caffè in mano. Quel caffè sembrava annacquato ma, al primo sorso, ritirai il mio pensiero insieme alla strana smorfia che mi ero permesso di esternare alla sua vista: il mio palato rimase inebriato da quel sapore buonissimo. Quell’uomo seduto al fianco di Ares fece un sorriso mostrando i suoi denti bianchissimi; se non fosse stato per la divisione delle labbra con la barba intorno, si sarebbero confusi con la sua carnagione chiarissima. Ares bevve il primo sorso di caffè e dopo aver tirato una boccata di fumo, disse:

    «Ho conosciuto molta gente durante il mio lungo percorso, nessuno di loro è mai sopravvissuto, li ho sempre dovuti accompagnare verso la morte tenendo la mano a tutti coloro che sono riusciti ad amarmi. È vero, sono stato più volte dalla parte sbagliata della barricata storica, ma di questo me ne sono reso conto solo dopo l’avvenimento dei fatti. I compagni di viaggio li ho amati tutti e, a dir la verità, uno di loro ha da sempre avuto la mia stessa maledizione e il vero motivo che mi ha condotto fin qui, a parlare con te, raccontandoti questa mia strana storia, è quello di ritrovarlo.

    Quando pronunciò queste parole, sistemai la panca e iniziai ad ascoltarlo con molto interesse, avevo compreso benissimo che non dovevo perdere neanche una sillaba, non l’avrebbe ripetuta due volte e io non avevo alcuna intenzione di distogliere l’attenzione. Il tempo scorre lento sul mare, quando anche le rotte sono ben chiare e trovi qualcuno, che raccontandoti una storia rapisce la tua fantasia, be’, ti rendi conto che le storie capitano a chi le sa davvero raccontare. Questo è da sempre stato un punto fermo dei marinai: ascoltare sempre i racconti di

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