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Gerusalemme o morte. Un #MeToo di mille anni fa
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E-book249 pagine3 ore

Gerusalemme o morte. Un #MeToo di mille anni fa

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Info su questo ebook

Federico I Hohenstaufen, detto il Barbarossa, è un sovrano illuminato, più moderno che mai, che sogna l’Europa unita, il disegno non riuscito di Carlo Magno. Cerca in ogni modo la convivenza civile senza ricorrere alla spada.
Sue le leggi che proteggono le donne e gli ebrei.
L’11 maggio 1189 Federico I lascia la città imperiale di Ratisbona (odierna Regensburg) diretto a Gerusalemme per la “crociata dei tre re”, cui partecipano anche le corone di Francia e Inghilterra. Il suo poderoso esercito naviga sul Danubio: Vienna, Budapest, Belgrado. Poi i Dardanelli e l’ostile Turchia, infine il fiume Salef, in Cilicia, con la svolta del 10 giugno 1190.  Il romanzo è dominato dalla figura dell’imperatore, ma hanno un ruolo importante anche il figlio Federico, coraggioso e impetuoso, due giovani donne poliglotte, la gitana Runa e l’ebrea Ruth, che diventano abili spie e spezzano cuori, e lo scudiero Sabellicus, sordomuto ma più perspicace di chiunque altro. Cruciale è anche il ruolo del fedelissimo tesoriere-scrivano Sigiboto, che gestisce con spietato realismo un serpentone di uomini e cavalli che attraversa mezza Europa. Senza erba, acqua e cibo i crociati non vanno avanti, ma Sigiboto, aiutato dalle due belle spie ormai dedite anima e corpo alla crociata, inventa ogni raggiro per finanziare la costosa spedizione in Terra Santa. Una vicenda ricca di colpi di scena che il diario segreto del fido tesoriere contribuisce a rendere ancora più originale e appassionante.
LinguaItaliano
Data di uscita3 feb 2021
ISBN9788868227449
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    Anteprima del libro

    Gerusalemme o morte. Un #MeToo di mille anni fa - Alessandro Feroldi

    Collana

    Romanzi

    diretta da

    Antonio D’Elia

    Alessandro Feroldi

    Gerusalemme o morte

    Un #MeToo di mille anni fa

    ISBN 978-88-6822-936-8

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore – Cosenza – Italy

    Stampato in Italia nel mese di gennaio 2021 da Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) – 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 – Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it – www.pellegrinieditore.com

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Il lungo viaggio compiuto dall’esercito di Federico Barbarossa durante la terza Crociata

    Il gorgo che uccide

    I nostri morti segnano come pietre miliari il lento cammino dei soldati. Fame e sete, uniche compagne da giorni e giorni. La vista è annebbiata, il piede incerto: cadono uomini e cavalli. Non posso morire ora, senza un nemico, senza l’onore delle armi. I miei crociati resistono se l’imperatore vive e li guida alla meta. La natura è nemica qui in Anatolia, non dà frutti sulle montagne del Tauro.

    Devo resistere. Sono fuggito da Susa assediata, sono sopravvissuto a Legnano, ho sconfitto i Turchi cento volte più numerosi. Non posso cadere adesso, non posso.

    Il mare è là, ne vedo il riverbero, ne sento il profumo. I miei piedi e il mio cavallo sono sfiniti, non c’è itinerario, possiamo solo seguire le anse del Calicadno che scorre verso Seleucia e il mare. Questo fiume, come il Danubio, suscita la mia invidia. Il moto perpetuo dell’acqua è più possente delle umane menti.

    L’ansia di notte si fa più devastante, angoscia di un domani che sarà tristemente uguale a ieri. Provo a ricordare gli odori e i profumi di Gerusalemme nella scorsa crociata, com’ero giovane, neanche trent’anni. Non riesco, è una nostalgia triste. Dentro non ho più certezze, neanche quella della morte. Come verrà? E quando? Non mi è dato sapere, ma non sarà la spada di Saladino a togliermi la luce e lo spirito. Cadrò da cavallo in un burrone? Mi spezzerò la schiena contro un masso? Il mio corpo di vecchio non sopporterà la fatica di queste valli, scendere e salire senza sosta?

    Vorrei una notte tranquilla per scegliere i ricordi da portarmi nell’oltretomba, come i gioielli dei Faraoni. La corona da re, la prima volta? Quella da imperatore, a Roma? No, non posso, non c’è posto nella mente sgomenta. L’incertezza mi uccide, questi sono i miei quaranta giorni nel deserto, ma non ci sono neanche i diavoli a tentarmi.

    La notte qui è magnifica, perfetta, tutta silenzio e immensità. Io sto per morire, lo sento, le due giovani donne vivranno. L’ebrea e la gitana hanno una sorte propizia, faranno figli e cresceranno in virtù e bellezza. L’incoscienza della gioventù sopporta tutto, anche una crociata. La vita scorre nell’acqua di un fiume, nel ventre di una donna. Ben poca cosa è un trono, anche se del Sacro Romano Impero.

    Morirà Barbarossa e l’esercito crociato si dissolverà, arriveranno i Turchi e periranno i Bizantini, dal lontano Oriente nuovi popoli si spingeranno fino alle nostre terre. Gerusalemme sarà sempre di tutti e di nessuno, con i templi di tre culti: cristiano, ebraico e musulmano, nel rispetto di ogni religione che l’uomo deve avere.

    L’alba, la luce. Finalmente qualche fiore, compare sulle rocce il mantello verde dell’erba. Ecco l’ultimo passo, le ultime sponde rocciose del fiume. Poi la pianura fertile, il grano per gli uomini, la biada per le bestie. Uno per volta, in costa all’ultimo lembo di montagna, passeremo di là, lasceremo l’orrido Tauro alle nostre spalle.

    I volti sono distesi, l’entusiasmo sta tornando negli occhi dei crociati. Mi guardano, confidano nel loro imperatore che li ha condotti fino qui e oltre li guiderà, fino alla Palestina e alla Città Santa. Sono spossati, ma dopo questo viaggio non hanno più paura, il nemico basta trovarlo e combatterlo. Se riescono a sfoderare le armi in campo aperto, hanno già vinto. Il vero nemico qui è la montagna, il sentiero angusto.

    Due crociate, sei campagne in Italia: ho fatto troppe miglia, a cavallo e a piedi, più di tutti i pellegrini verso Compostela o Chiaravalle. Non basterebbero il Reno, il Rodano, il Po e il Danubio a misurare la strada che ho percorso. E dove sono ora, a quasi settant’anni? In viaggio.

    Diamo fondo alle provviste, fra poco saremo nella terra dell’abbondanza. Facciamo riposare i giovani, sono meno resistenti dei vecchi, la loro debolezza è l’impazienza. A noi è rimasta solo la rassegnazione, che ci fa tolleranti. Quant’è vero, Marco Aurelio, che la felicità è l’assenza delle passioni.

    Ma tu non avevi le staffe, come facevi a rimanere in sella? Per te il cavallo era movimento e imperio, ma sempre in bilico, come l’accenno di un sorriso che può ancora volgersi al pianto. Marco Aurelio come Federico, imperatori. Cresciuti da giovani tra lotte politiche di famiglia, costretti da vecchi a cavalcare lungo i confini orientali per fermare ribelli e invasori. Più sovente in sella a un cavallo che sullo scranno imperiale. Abbiamo avuto le mogli al fianco anche in battaglia, ma le abbiamo perdute troppo presto.

    Tu Marco Aurelio sei morto mille anni fa, a Vienna, dopo aver debellato le tribù germaniche e fermato i nomadi del lontano Oriente, quelli che avevano già le staffe. Mille anni son passati. E le fatiche di un imperatore, di tutti gli imperatori, sono ancora le stesse. Ma per me c’è anche un simbolo da riconquistare, il Santo Sepolcro, molto lontano dal cuore del Sacro Romano Impero. Tu almeno avevi i tuoi templi a Roma.

    Non sopporto più l’attesa. Devo arrivare al mare, questo sentiero nella roccia sembra non finire mai. L’altra sponda del fiume è piana, erbosa, invitante. Se attraverso al guado il Calicadno potrò spronare il cavallo al galoppo verso Seleucia, senza aspettare questa fila infinita del mio esercito, che avanza come una tartaruga. Ecco, se mi sdraio con un po’ di frutta vicino, penseranno che il mio lungo pasto non sia ancora finito. Anzi, meglio fingere una lieve sonnolenza, così i miei affettuosi e solleciti guardiani forse si prenderanno qualche distrazione con le loro donne.

    Eccomi in sella, nessuno mi ha visto. Entro nel fiume e vado verso l’altra sponda, com’è violenta la corrente. Le acque sembrano placide, viste da riva. Forse non ho considerato quanta acqua scorra nel letto del Calicadno, o sarà il mio cavallo che è stanco, che non tollera più l’avventura? Ma un semplice guado, per questa bestia che in un anno le ha viste tutte, è impresa così difficile? Aria, acqua; e terra sul fondo del fiume che sto attraversando. Anche sul Danubio era così, fuori Vienna, quando su quell’isoletta ho visto per la prima volta Ruth, nuda e irreale, quella fascinosa donna che ha fatto perdere la testa a mio figlio. Le donne, quanto avrei voluto amarle se mi fosse stato possibile. Sabellicus e mio figlio non sanno la buona sorte che è toccata loro, provati dalle insidie della guerra ma liberi dai veleni di corte.

    L’imperatore è come Dio, pensano i sudditi. Non sanno che il vero Dio non ha i limiti di spazio e di tempo, mentre Federico I di Svevia Hohenstaufen è un mortale come gli altri. Ho dovuto molto decidere e molto comandare, ma non ho potuto fermare le ore. Quella sarebbe la vera sovrumana possanza, sfuggire al tempo. Quando a Legnano, sconfitto, sono fuggito a piedi per alcuni giorni, solo allora non sono stato schiavo del tempo, ero libero, non esistevo più, mi avevano dato per morto. Dunque, per avere libertà bisogna morire, per finzione o per davvero?

    La corrente è irresistibile, il cavallo arranca, l’armatura pesa troppo. Ecco la morte, vola leggera come le acque di questo fiume e mi porta con sé. Ecco i simboli della fine, la sponda rocciosa che ho lasciato e quest’altra riva, vicina e irraggiungibile, che sembra il giardino dell’Eden. Non posso tornare indietro all’inferno dove si sopravvive, non posso arrivare sulla sponda che mi sarebbe giaciglio morbido di erbe e fiori.

    Il mare, un miraggio visibile, il profumo del Mediterraneo e quello di Gerusalemme. Questi i ricordi che mi seguiranno nelle tenebre eterne? L’acqua è arrivata al morso del cavallo, ancora poco e annegherò.

    Nell’accampamento non si sono accorti che l’imperatore è sparito. Meglio così, forse penseranno che sono svanito, che sono scomparso, ma non morto. Il fiume è freddo, il sangue si raggela. Il sole non mi scalda più, l’imperatore muore nel decimo giorno di giugno, Anno Domini mille e cento e novanta.

    Ex umbris et imaginibus in luce et veritate. Da ombre e parvenze in luce e verità.

    Lago di Costanza, isola di Reichenau,

    1° gennaio 1200

    La vecchia ferita alla spalla fa male, ma la mia smorfia di dolore muta lentamente in un sorriso. Mi vien da ridere pensando a com’è successo: sono inciampato nella gomena di attracco della nave, proprio davanti all’imperatore. Sono caduto come un sacco di patate, prostrandomi involontariamente ai suoi piedi, anzi ero proprio sdraiato.

    L’ho sentito ridere, cosa che faceva raramente. Era felice di questo piccolo incidente, che lo sottraeva per un momento alla confusione dei preparativi per la crociata. Avevo una scheggia di legno conficcata nella spalla, appena sopra la clavicola, ma rimanevo immobile, senza un lamento.

    Ho quasi ottant’anni, ho fatto tutte le guerre con Barbarossa, ho partecipato a mille battaglie senza neanche un graffio. L’unica ferita che porto sul corpo è per una ridicola caduta sulla tolda di una nave. Come rideva Barbarossa, non riusciva a smettere. In quel momento di allegria sembrava cogliere un diversivo che un imperatore non può mai permettersi, perché deve prendere decisioni in ogni momento. Sempre, giorno e notte.

    Per fortuna la mia spalla offesa è la sinistra, perché con la mano destra mi sono guadagnato da vivere, dignitosamente. Agli inizi facevo lo scrivano, poi a corte hanno apprezzato alcuni miei suggerimenti e mi hanno fatto diventare contabile; infine sono stato promosso economo e tesoriere. L’imperatore – pace all’anima sua – diceva che un Sigiboto valeva mille cavalieri, che solo di me si fidava per amministrare decine di migliaia di soldati.

    Un esercito si comanda a fatica, con una disciplina ferrea, quando si è in battaglia. Ma portare cinquantamila soldati da Ratisbona a Gerusalemme, duemila miglia di viaggio, è un’impresa titanica. La guerra è più difficile prepararla che farla, e soprattutto costa una fortuna, una somma astronomica.

    Si vis pacem, para bellum, dicevano i Romani. Se vuoi la pace prepara la guerra, insomma mostra al mondo che hai le armate e il mondo ti rispetterà. È vero solo in parte, perché se non hai il soldo da dare ai soldati, la guerra la puoi anche preparare, ma poi non la puoi fare.

    Oggi entro nel nuovo secolo, chi l’avrebbe mai detto. È il primo gennaio dell’Anno Domini 1200, sono tornato nel monastero dove da giovane ho imparato a fare il cancelliere imperiale, sull’isola di Reichenau, in quel lago di Costanza tanto vasto da sembrare un mare. Noi germanici abbiamo due mari, quello del Nord e il Baltico, ma siamo affascinati e tentati dal Mediterraneo, verso il sole e il caldo, verso mezzogiorno.

    Alzo lo sguardo: attraverso la finestrella della mia stanza ammiro la lucida superficie di questo lago. C’è sempre stata l’acqua nella mia esistenza. Acqua che genera la vita, a volte anche la morte. Il mio amatissimo imperatore è annegato nel Calicadno, un fiume della Cilicia che sfocia nel Mediterraneo, di fronte all’isola di Cipro. Proprio in quello stesso corso d’acqua aveva rischiato di morire un altro sovrano, Alessandro Magno, perché le acque del Calicadno sono impetuose e gelide, di un azzurro meraviglioso ma letale.

    Qui vicino, nel cuore dell’Europa, nascono due grandi fiumi: il Reno che sale fino al mare del Nord, il Danubio che scende a sud fino al mar Nero. Migliaia di strade d’acqua, flutti che scorrono eternamente, non si fermano mai, non come le nostre caduche vite mortali.

    Io non sono uno storico, sono un economo, già la testa è stanca di scrivere, anche se le parole sgorgano dal cuore come un fiume impetuoso ogni volta che penso a Barbarossa. Sono vecchio e solo, non ho paura della morte, mi è passata accanto tante volte quante sono le stelle in cielo, ma non mi ha ancora stretto nel suo ultimo abbraccio. Sopravvivo così a lungo proprio io che non ho famiglia, che non susciterei una lacrima alla mia dipartita.

    Scende la sera, è ora di compieta, devo raggiungere i monaci nella cappella. Sono l’unico laico qui dentro, ma nessuno ha osato protestare. L’imperatore ha lasciato al priore di questo monastero una pergamena sigillata da aprire in caso di sua morte, dove ordina che mi sia data ospitalità vita natural durante, al ritorno dalla crociata. E così è avvenuto.

    Federico I Hohenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero, duca di Svevia, è scomparso il 10 giugno del 1190. Da Ratisbona eravamo partiti l’11 maggio del 1189. Un anno e un mese è durato quel viaggio, meraviglioso e terribile allo stesso tempo, emozioni che non saprò mai descrivere, anche se sono uno dei pochissimi a sapere tutto, avendo amministrato esseri umani e animali, amici e nemici, la corte, i militi, i cavalieri, i Templari e gli Ospitalieri.

    Oh mio sovrano, perché non siete sopravvissuto voi al mio posto? Perché non si è compiuto il vostro sogno di un’Europa più unita e più cristiana? Perché non avete terminato il grandioso progetto di unificare la vostra amatissima Italia, lacerata dalle lotte intestine di signori e signorotti?

    Mi sento oppresso dai ricordi, prima sono uscito dal convento e ho camminato pensieroso sulla sponda del lago. Al tramonto c’è una luce meravigliosa, la mia immagine si riflette perfettamente nell’acqua. Un uomo vecchio, magro, con i capelli grigi tagliati cortissimi, con una veste che ondeggia attorno a un corpo fatto più di ossa che di muscoli.

    Il rintocco della campana chiama alla preghiera che chiude il giorno, sono dovuto rientrare. In interiore homine habitat veritas, dice sant’Agostino. Ma io questa verità all’interno di ogni uomo non sempre la vedo, né Dio ha voluto illuminarmi con la fede dei religiosi per vocazione. Non ho avuto altro credo che il verbo di Barbarossa, lo confesso anche dovesse costarmi le fiamme dell’inferno. A lui dedico questo resoconto del nostro viaggio nella terza crociata per la liberazione della Terra Santa. Ricordi vivi e mai sbiaditi che voglio fermare sulla carta, come mi hanno insegnato allora, proprio in quest’isola e in questo monastero.

    A volte salgo sul campanile e guardo lontano, aspettando di vederlo arrivare a cavallo, con il mantello che ondeggia come la vela di una barca, ritto in sella con la baldanza di un giovanotto alle prime armi.

    Nessuno sapeva cavalcare come Barbarossa, nessuno sapeva governare come lui: guerriero solo se necessario, in realtà grande uomo di pace. Imperava con cultura e saggezza, con intelligenza e diplomazia, non con la spada.

    Requiescat in pace.

    Ratisbona, 11 maggio 1189

    I soldati, con la croce rossa cucita sulla veste, tengono un uomo cencioso per le ascelle, sollevandolo da terra. Gli appoggiano un braccio su un palo di ormeggio del porto e, con un colpo di spada, gli tagliano di netto la mano. Le grida e il fracasso della folla si placano in un silenzio spaventato. Il crociato prende la mano monca a terra, la apre mostrandola al popolo e lascia cadere una moneta d’oro che l’uomo ha rubato da un forziere, uno di quelli nascosti in mezzo a centinaia di provviste di ogni tipo. Il rumore che fanno migliaia di persone e animali alla vigilia di una spedizione è immenso, più forte di quello dei tuoni, ottunde l’udito e la mente. Quella mano mozzata è come un temporale estivo rinfrescante nella torrida calura: all’improvviso tutto tace, tutti sono immobili come per un incantesimo che toglie il respiro a ogni essere vivente.

    Il tesoriere ed economo, Sigiboto, deve dare un valore a ogni cosa, decidere senza esitazioni cosa fare di qualunque bene materiale dell’impero. Ha piena potestà di scegliere, Barbarossa ha dato ordine a tutti di obbedirgli senza discutere. Un potere di cui non ha mai abusato, per non scatenare le invidie dei molti infingardi che vivono a corte, e che troverebbero facilmente il modo di vendicarsi. Quella mano monca a terra fa inorridire, e sì che ne ha viste di atrocità in questi anni con l’imperatore. Di tribunali e condanne non s’intende, suppone che certe crudeltà servano a evitarne di più grandi. Federico è saggio e clemente, ma sulla disciplina del suo esercito non ha tentennamenti: fosse stato qui, a quel povero ladro avrebbe fatto tagliare la testa davanti a tutti, non solo la mano, e non avrebbe provato pietà. Davanti al disagio di Sigiboto avrebbe finto indifferenza – lo conosce meglio di tutti, sono anche coetanei – poi gli avrebbe spiegato che per tenere in riga migliaia di soldati la legge marziale è più efficace di qualunque controllo. Terrorizzare tutti, prima, perché poi nessuno commetta un crimine. Barbarossa è un imperatore che da un lato ha mostrato clemenza, ma che davanti a un nodo ha saputo sfoderare la spada e tagliarlo, come già aveva fatto un altro sovrano che amava cavalcare, Alessandro Magno.

    Sigiboto non ha avuto una formazione religiosa, però reputa di essere un buon cristiano. Come tale non potrebbe comparare una moneta d’oro a una mano umana, che nel corso di una vita può produrre molto più valore di pochi grammi di un metallo pur pregiato. Quell’uomo ha rubato per fame, per la sua famiglia più che per lui stesso. Anche Sigiboto, dopo tutto, ha assistito alla scena della mano tagliata senza muovere un muscolo del suo scarno volto: sa di avere le sembianze di un monaco, di un penitente di quegli ordini religiosi che nascono in tutta Europa con il pretesto delle crociate in Terra Santa. A Gerusalemme dovrebbero andare tutti, ma a volte il viaggio finisce molto prima, per egoismo e fame di denaro. Militari, pauperes, sbandati, al seguito di qualche invasato che abusa della croce, sterminano ebrei, zingari, gitani, popolazioni sconosciute dell’Est, cristiani non cattolici, eterodossi e ortodossi. In verità massacrano chi abbia un qualunque bene che valga la pena derubare, comprese mogli e figlie. Sarebbero omicidi quelli che commettono, ma ai sovrani e al Papa romano fa troppo comodo qualche bagno di sangue, e l’oblio scende su azioni scellerate ben più gravi che quel furto di una moneta d’oro.

    Tutto questo per una mano tagliata, quando si è visto ben altro: bimbi impiccati, vecchi straziati, donne gravide con il ventre squarciato e il feto preso a bastonate, scheletri rinchiusi nelle gabbie appese alle cattedrali perché fossero di monito a quelli che non obbedivano al potere papale di Roma. Sigiboto è l’occhio di Barbarossa, per fortuna deve solo fare l’inventario di tutte le vettovaglie, sarebbe stato incapace di mantenere l’ordine con punizioni cruente, come quel taglio della mano appena avvenuto. Eppure Sua Maestà Federico primo di Hohenstaufen è solito dire che il tesoriere Sigiboto vale più di cento, mille cavalieri. Non solo per come amministra il denaro – bontà sua, sono proprio le sue parole – ma per come capisce la gente e intuisce le azioni altrui, per come prevede la giusta dotazione di biada del cavallo o di carne secca del cavaliere, studiando le stagioni e i prodotti di ogni terra attraversata, i campi coltivati o incolti, gli alberi da frutta o gli orti da verdura, i corsi d’acqua per soldati e cavalli da abbeverare.

    Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames. Ben dice Virgilio nell’Eneide, a cosa non costringi i petti mortali, o esecranda fame dell’oro. La gloria scolpita sulle lapidi è una cosa, la miseria umana degli interessi materiali un’altra. Non

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