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Cose dell'Altro Mondo: Da Trieste alla Guerra del Vietnam, passando per l'Australia
Cose dell'Altro Mondo: Da Trieste alla Guerra del Vietnam, passando per l'Australia
Cose dell'Altro Mondo: Da Trieste alla Guerra del Vietnam, passando per l'Australia
E-book1.036 pagine16 ore

Cose dell'Altro Mondo: Da Trieste alla Guerra del Vietnam, passando per l'Australia

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Info su questo ebook

E’ il 1960 quando Luciano lascia la sua amata Trieste per emigrare in Australia, seguendo il sogno di un lavoro e il desiderio di realizzarsi. Il nuovissimo continente lo accoglie con una ospitalità abbagliante, ma non è facile trovarsi dall’altra parte del mondo senza amici, senza conoscere la lingua e senza sapere ancora cosa fare della propria vita. Si rischia di fare delle scelte avventate, soprattutto quando si ha vent’anni e si è attratti dall’avventura. Luciano, in alcune occasioni, commetterà questo errore.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2017
ISBN9788826455419
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    Anteprima del libro

    Cose dell'Altro Mondo - Luciano Simeoni

    Luciano Simeoni

    Cose dell'Altro Mondo

    Da Trieste alla Guerra del Vietnam, passando per l'Australia

    UUID: 8807f84c-5119-11e7-9fdf-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Ringraziamenti

    Un particolare ringraziamento a mio figlio Giorgio per l’aiuto che mi ha dato nel correggere il testo, per i suggerimenti e le ricerche fatte, per aver dato una struttura al libro e averlo impaginato, ma soprattutto per avere contribuito nel farmi ricordare eventi e situazioni che da anni avevo cancellato dai miei ricordi.

    Grazie, Papà.

    Indice dei contenuti

    Ringraziamenti

    1 - Oceano

    2 - Down Under

    3 - Swangman

    4 - Sudore

    5 - Sangue

    6 - Scelte

    7 - Radici

    Epilogo

    Note dell’Autore

    " Dei nostri affanni tristi possiamo ora parlare, ricordandoli.

    Perché anche dei mali, passato il tempo, può ormai parlare serenamente

    chi molto ha dovuto soffrire e molto vagare."

    Omero.

    Al mio nipotino Leonardo.

    Quando guardo nel profondo dei suoi occhi,

    vedo la bellezza e lo scintillio del cielo stellato del Queensland.

    1 - Oceano

    1

    L’aria era limpida come un cristallo trasparente. Il Sole proiettava una luce argentea sulla superficie lievemente increspata del mare. Era il primo Febbraio del 1960, l’orologio della vicina Piazza Unità d’Italia batteva le ore 10,00 e nonostante fosse pieno inverno la temperatura si aggirava intorno ai 10 °C. .

    Il golfo di Trieste era disseminato di un gran numero d’imbarcazioni. Si notavano dei mercantili in rada che aspettavano l’attracco ad uno dei cinque moli del porto commerciale per scaricare e caricare le loro merci. Innumerevoli altre piccole vele erano visibili all’orizzonte, di cui molte di imbarcazioni da pesca o da diporto.

    Alla destra della nave potevo vedere la magnifica Piazza Unità D’Italia, affacciata sul mare, e il molo Audace. Mi aveva sempre incuriosito il nome di questo pontile, così particolare, fu mio padre Giorgio a raccontarmi che inizialmente il molo Audace si chiamava molo San Carlo: il nome proveniva dalla nave San Carlo affondata proprio nel porto di Trieste, il cui relitto fu utilizzato come base per la costruzione di un nuovo molo, a metà del XVII secolo. Alla fine della prima guerra mondiale il cacciatorpediniere Audace fu la prima nave della Marina Italiana ad entrare nel porto di Trieste. Per ricordare questo evento il molo cambiò nome, diventando molo Audace, e alla sua estremità venne eretta una colonna in pietra bianca con in cima una rosa dei venti in bronzo a memoria dell’approdo, e una dicitura sul fianco che recita " Fusa nel bronzo nemico".

    Con il tempo il molo perse la sua funzione mercantile diventando meta di passeggiate suggestive dentro il mare, e punto di attracco per semplici imbarcazioni di passaggio o per splendide barche a vela, signorili partecipanti di importanti regate veliche.

    Anche Piazza Unità d'Italia, il salotto di Trieste, era stata oggetto della mia curiosità infantile. La più estesa piazza d’Europa ad affacciarsi sul mare si chiamava inizialmente Piazza San Pietro, poi divenne piazza Grande. Il nome Piazza Unità lo assunse quando Trieste fu annessa al Regno d'Italia dopo il 1918. Nel 1955, quando Trieste tornò un'altra volta all'Italia con lo scioglimento del territorio libero di Trieste, la Piazza prese il nome attuale.

    La trasparenza dell’aria di quella giornata era tale che potevo scorrere con lo sguardo tutta la costiera Triestina. Vedevo la riviera di Barcola, dove andavo a fare il bagno d’estate. Con il caldo la riviera è sempre affollata di bagnanti, poiché da qui si gode la vista del golfo di Trieste e del castello di Miramare. Al tramonto, poi, offre gratuitamente lo spettacolo del Sole che si tuffa in mare.

    Un poco più su, in collina, scorgevo il faro della Vittoria. Allora non sapevo molto di questo edificio, ho scoperto solo recentemente qualcosa in più, tipo la sua funzione commemorativa dei Caduti in Mare nel primo conflitto Mondiale, ma il faro mantiene comunque ancora oggi la sua funzione di segnalazione marittima segnalando il golfo di Trieste.

    Spingendo la visuale fino all’estrema punta vedevo nitidamente il Castello di Miramare. Non serviva essere degli storici per conoscere la storia di questo castello, ben nota a tutti i triestini per la sfortuna che procurò a tutti quelli che lo abitarono. Leggendo la storia del castello si scopre di fatto che tutti quelli che l’hanno abitato sono morti di morte violenta. All'interno, il castello è suddiviso in numerose stanze: il piano terra era destinato a residenza dell'Imperatore Massimiliano I e della consorte Carlotta, mentre quello superiore venne in periodo successivo adibito a residenza del Duca Amedeo d'Aosta, che vi abitò per circa sette anni. La zona più interessante di tutte, però, è sicuramente quella collocata nel parco del castello, il cosiddetto Castelletto, un edificio di dimensioni minori che funse da residenza per i due sposi durante la costruzione del castello stesso, ma che divenne di fatto una prigione per Carlotta quando perse la ragione dopo l'uccisione del marito in Messico. Lo stesso duca Amedeo morì in prigionia durante una delle sue innumerevoli missioni.

    2

    La nave era attraccata al molo numero uno della stazione marittima. Era bianca, grande ed imponente. C’era molto fermento a bordo, i marinai si accingevano a staccare le grosse cime che dalla nave andavano ad abbracciare le bitte d'attracco, ovvero quegli enormi funghi bronzei nati su tutta la lunghezza del molo.

    I passeggeri erano assiepati sui due ponti della nave. Sotto, sulla banchina, una folla di persone, amici, parenti, e curiosi, si sbracciavano per salutare i partenti ed i conoscenti. Alcuni passeggeri lanciavano verso la banchina stelle filanti variopinte tenendone tra le dita un’estremità, mentre l’altra era tenuta dalle persone a loro care che stavano per lasciare. Allorché la nave si fosse staccata dal molo, la leggera strisciolina di carta colorata si sarebbe spezzata, a simboleggiare l’interruzione che si veniva a creare di un rapporto familiare, di un’amicizia o di un amore.

    La mia nave si chiamava motonave Flaminia, e apparteneva alla società CO.GE.DAR (Compagnia Genovese d'Armamento). Accusava una stazza di 17.000 tonnellate ed una lunghezza di 164 metri. Il volantino diceva che poteva imbarcare 1024 passeggeri, ed era servita da 195 persone d’equipaggio. La sua velocità di crociera era di 14 – 17 nodi, un po’ poco rispetto ai colossi moderni che viaggiano tranquillamente sopra i 20. Era suddivisa in tre classi, però quando era adibita al trasporto d’emigranti si tramutava in classe unica.

    Due grossi rimorchiatori d’alto mare l’avevano già agganciata, e il pilota della Capitaneria di Porto di Trieste era a bordo della Flaminia, pronto a pilotare la nave al di fuori del golfo.

    Accanto a me due belle ragazze stavano piangendo disperate. Le ricordo con chiarezza, una era bionda e dalla carnagione molto chiara, i tratti del volto mi suggerivano che fosse di origine Slava. Trieste, come tutte le città di confine, ha generato un miscuglio tra le etnie confinanti. La ragazza agitava il braccio destro in un continuo saluto, mentre nella mano sinistra teneva stretta l’estremità della sua stella filante. All’altro capo della strisciolina di carta c’era un giovanotto bruno che a sua volta salutava con trasporto.

    «SCRIVIMI! Io ti scriverò tutti i giorni!», gridava il ragazzo.

    «Ti voglio bene!», rispondeva lei. «Ci vediamo l’anno prossimo!», continuava.

    La seconda ragazza era bruna e anch’essa molto carina, nonostante qualche chilo di troppo. Aveva un bel viso ovale, un nasino un po’ all’insù e una bocca perfetta, un’opera d’arte, carnosa al punto giusto, con labbra bellissime che socchiuse facevano intravedere una fila di denti candidi e perfetti. Portava un rossetto che, sebbene di color rosso, era di una tonalità sobria che non risultava né appariscente né volgare, e che le conferiva invece un tocco di nobiltà e di classe. All’estremità della sua stella filante c’era un bel ragazzo biondo che la salutava calorosamente.

    «Ti sei ricordata di prendere tutto?» le chiedeva.

    Lei annuiva e rispondeva: «Si, credo, di si!». Poi sempre piangendo gli gridava: «Mi mancherai tanto! Ti amo! Ti voglio bene!»

    La sirena della nave sovrastò ogni altro suono, era il saluto del transatlantico a chi rimaneva a terra, ed un primo avviso ai passeggeri in partenza. Quel suono, atteso e benaugurante per chi sta per intraprendere una crociera di piacere, quel giorno era invece un suono triste. Per ognuna delle persone in partenza c’era una storia e degli affetti che si stavano assottigliando e forse perdendo. Per tutti c’era la grande incognita del futuro.

    I marinai ritirarono a bordo della nave le cime. I rimorchiatori cominciarono a muoversi lentamente.

    Io non avevo voluto che mia madre mi accompagnasse alla Stazione Marittima. La salutai nella cucina di casa, abbracciai mia sorella ed uscii dalla porta portandomi appresso quella grande valigia con dentro tutta la mia vita.

    3

    Iniziò tutto l’11 Ottobre 1959, ricordo bene la data perché era il giorno del mio ventesimo compleanno.

    Come ogni mattina da mesi, mi diressi fuori di casa diretto all’ufficio di collocamento. Abitavo in centro a Trieste, in Via Milano. A quel tempo c’erano degli uffici rionali, chiamati appunto Ufficio di Collocamento, dove pervenivano eventuali domande e offerte di lavoro. In quegli anni in Italia non c’era molto lavoro, specialmente per i giovani, ed i pochi fortunati che avevano un’occupazione se la tenevano stretta. Per questo motivo il fenomeno dell’emigrazione aveva assunto una certa importanza, e fiumi di uomini, donne e famiglie intere lasciavano la loro terra per tentar fortuna in paesi in via di espansione. Le destinazioni più gettonate erano gli Stati Uniti d’America, l’Argentina e l’Australia.

    Quella mattina mi diressi al solito ufficio in Piazza Oberdan, mi misi in fila ed attesi il mio turno. L’impiegato allo sportello aveva qualche anno più di me, si chiamava Mario.

    «Sono pronto a scommettere con te una sigaretta che oggi non c'è nemmeno un’offerta di lavoro per me, vero?», sdrammatizzai.

    Lui rispose con un sorriso: «Ti serve una sigaretta?.» Era un ragazzotto rotondo e pacioccone dai capelli castano chiaro ed una bella facciona amichevole, priva di vivacità. Era uno dei fortunati, infatti da più di un anno era stato assunto come impiegato presso quell’ ufficio, che dipendeva dal Comune di Trieste.

    «Ancora una volta ti sei fatto una passeggiata per niente, Luciano!», sentenziò, consultando il suo archivio.

    Io avevo fatto qualche lavoretto negli anni passati: barista, cameriere, sempre impegni stagionali, mai un posto stabile, importante, dove poter dimostrare le mie capacità e il mio impegno. Non avevo un titolo di studio, poiché nel Maggio dell’anno 1957 papà moriva di tumore ai polmoni, e l’unico sostentamento della famiglia era diventata mia sorella, commessa in un panificio, poiché l’assegno di invalidità che era versato mensilmente a mia madre era ora dimezzato. Durante gli ultimi due anni di scuola di geometri, però, mi ero iscritto ad un corso per radiotecnico per corrispondenza con la scuola Radio Elettra. Riuscii anche a costruire una radio ricevente, e mi fu inviato un diploma di Radio Riparatore. Quel pezzetto di carta allora risultò provvidenziale.

    Stavo per andarmene dall’ufficio di Mario quando questi mi disse: «In realtà avrei una richiesta per radiotecnici...»

    Mi sta prendendo in giro!

    Lo guardai sorridendo, ma lui continuò, fissandomi e pronunciando quella magica parola.

    «Australia.»

    Lo guardai e mi sorpresi di sentire la mia voce che diceva: «Io vado anche in Australia, se è il caso.»

    Mario sorrise, e mi spiegò che c’erano delle offerte di lavoro che venivano direttamente dall’Australia. Potevo provare a fare domanda, e se questa fosse stata accolta il costo del viaggio sarebbe stato sovvenzionato dalle autorità Australiane, in accordo con quelle italiane. Non mi sarebbe costato nulla, ed avrei avuto un contratto di lavoro sicuro per due anni.

    «Io ci provo.», conclusi.

    Mario mi dette una cartellina che teneva in un cassetto della sua scrivania, sulla quale capeggiava la fotografia di un bellissimo canguro. Era piena di fogli di carta stampati, tutti scritti in lingua Inglese. Mi dette i ragguagli per compilarli e le indicazioni per trasmettere i documenti alle autorità Australiane.

    La prima cosa da fare era andare all’ospedale Civile di Trieste per prenotare le molteplici visite mediche. Nel plico che mi era stato consegnato c’era l’elenco delle visite da eseguire, poi dovevo raccogliere i soliti documenti personali quali lo stato di famiglia, l’estratto del certificato di nascita e il certificato di residenza. Dovevo inoltre richiedere il Certificato Penale presso il Tribunale, ed infine il congedo militare, già in mio possesso in quanto ero unico figlio maschio di madre vedova. Poi, con tutto il malloppo e quattro foto formato tessera, avrei dovevo portare i documenti alle autorità australiane, previa richiesta di un colloquio presso il consolato Australiano a Trieste in via Ginnastica, motivando la richiesta per eventuale immigrazione.

    Uscii dall’ufficio di collocamento speranzoso. La prospettiva di quel viaggio mi affascinava, più ci pensavo e più mi convincevo che, forse, avevo trovato la mia strada.

    Il giorno dopo avevo già fatto le visite mediche, e nei giorni successivi raccolsi i certificati presso il Comune di Trieste. Attesi dodici giorni per il Certificato Penale.

    Non era ancora concluso il mese d’Ottobre 1959 che avevo già tutto nelle mie mani.

    Mi fissarono l’appuntamento per il colloquio con un vice console per il 7 Novembre, e io mi presentai all’appuntamento vestito a festa con mezz’ora di anticipo, tenendo stretta la mia lucida cartellina colma di scartoffie.

    Il vice console era un elegante signore molto alto e dall’aspetto giovanile nonostante i capelli completamente bianchi. Era un tipo gentilissimo, volle sapere tutto di me e della mia famiglia, se ero iscritto a partiti politici, quali fossero le mie ambizioni, esperienze ed aspettative. Mi parlò della vita in Australia, dei costi e degli stipendi. Ero estasiato, mi si aprivano possibilità che non avevo mai concepito, mi sentivo attratto dall’avventura che mi si prospettava.

    Dopo quasi un’ora il colloquio giunse al termine ed il vice console, di cui non ricordo il nome, si alzò e mi tese la sua mano destra, informandomi che avevo i requisiti richiesti. La mia destinazione sarebbe stata Melbourne, e poteva già dirmi il nome dell’azienda dove avrei lavorato come radiotecnico. Era la società Astor of Australia. Sarei stato informato con almeno quindici giorni d'anticipo sulla data di partenza.

    Firmai una specie di contratto, ovviamente tutto scritto in lingua Inglese, che in sostanza confermava il mio impegno a presentarmi alla partenza al momento della convocazione, ed a rimanere in territorio Australiano per un tempo non inferiore a due anni. Il vice console prese da un cassetto della sua scrivania una busta in finta pelle con la solita fotografia del canguro, la aprì e ne estrasse delle banconote e degli spiccioli. Mi spiegò che la moneta Australiana era appunto la Lira Sterlina. La sterlina si divideva in venti scellini, e a sua volta uno scellino si divideva in dodici penny. Mi consegnò dieci banconote da 2 Sterline e mi lasciò cadere in mano otto monete molto belle e lucenti, due monete da 2 scellini, una da 1 scellino e cinque monete da 1 penny. Era un regalo che mi faceva l'Ambasciata Australiana, con tanti auguri di buona fortuna.

    Le stelle filanti cominciarono a rompersi. La nave si era distanziata dalla banchina già di un paio di metri. I saluti, le grida ed i pianti iniziarono ad accentuarsi, c’era un baccano d’inferno. Si sentì il suono della terza sirena, l’ultimo, che percepii con una nota più lugubre delle due precedenti. Le due ragazze vicino a me erano dilaniate dal pianto, riuscivano a malapena a salutare muovendo le braccia mentre dalla loro gola non usciva più alcun suono.

    Nel cielo sopra di noi volavano frotte di colombi e gabbiani spaventati dall’urlo della sirena della nave, ora tirata lentamente ma inesorabilmente verso il mare aperto dai rimorchiatori. Quei rimorchiatori mi stavano strappando alle mie certezze, scagliandomi verso l’ignoto. E’ stato uno dei momenti più difficili della mia partenza, senza dubbio.

    Al Pilota servì circa mezz’ora di tempo per portare la nave fuori dal porto, dopodiché l’avrebbe lasciata nelle mani del suo Capitano che l’avrebbe condotta sulla rotta da seguire per i prossimi 28 giorni, con destinazione Melbourne, Australia.

    4

    Non era la prima volta che salivo a bordo di una motonave come la Flaminia. Non avevo mai viaggiato prima, ma ero di casa sulle navi che attraccavano al porto di Trieste. Molti triestini lavoravano come marittimi, specialmente sulle navi della compagnia di casa, il Lloyd Triestino. Le banchine in quegli anni erano piene di giovani della mia età che volevano guadagnare qualcosa, così ero arrivato a conoscere tanti di questi ragazzi e mi ero creato un piccolo giro d'affari. Compravo dai miei amici a bordo delle navi, previa ordinazione, le prime radioline a transistor immesse sul mercato (quasi tutte di produzione giapponese), e riuscivo a rivenderle a parenti ed amici, e agli amici degli amici. In questo modo guadagnavo qualche soldino per pagarmi l’unico vizio che potevo permettermi, quello di fumare qualche sigaretta, ma data la scarsità di denaro che guadagnavo la mia salute era salva, perché potevo fumare pochissimo. A quei tempi le sigarette si potevano comprare anche sciolte, e così quando il tabaccaio mi vedeva entrare in negozio, conoscendo i miei gusti, già prelevava dal pacchetto cinque Diana con filtro e me le consegnava arrotolate nelle schedine scadute della Sisal.

    Andando a bordo delle navi che arrivavano in porto avevo avuto anche l'occasione per visitarle. Negli ultimi sei mesi avevo già avuto modo di salire a bordo della Neptunia, della Aurelia, e della stessa motonave Flaminia, ero pertanto abbastanza a mio agio a bordo e non completamente spaesato come molti tra i passeggeri che vedevo. In quelle prime di ore di viaggio regnava infatti una certa confusione, sembrava che tutti girassero senza meta. Tutti chiedevano indicazioni a tutti, non si trovavano tra loro, non sapevano da che parte andare, ignoravano la loro posizione nonostante avessero tutti una mappa della nave e la pianta ingrandita con la localizzazione della loro cabina e delle zone di interesse, come il ristorante, i bar, la sala giochi adulti, quella dei bambini e la parte riservata all’equipaggio.

    Mi diressi alla mia cabina per recuperare la mia valigia, portata dal personale di bordo, e per conoscere i miei compagni di viaggio. Le cabine erano da otto persone, disposte su quattro letti a castello, due per ogni lato della cabina. Lo spazio centrale era appena sufficiente per far passare una persona. Fortunatamente in cabina avevamo un oblò, lusso di cui non tutte le cabine disponevano. Il posto letto era di circa 70 centimetri più lungo di un letto normale, questo perché dietro il guanciale c’era lo spazio per mettere la valigia. Era un piccolo ripostiglio, corredato di cinghie per fissare il bagaglio e contemporaneamente avere la possibilità di mettere un lucchetto per essere relativamente tranquilli che nessuno ficcasse il naso nelle cose altrui.

    Le cabine erano per soli uomini o per sole donne. Nella cabina dove mi trovavo c’erano quattro giovani ammogliati e quattro scapoli. Nella cabina accanto si trovavano le relative quattro compagne e quattro ragazze nubili. Dall’altra parte del corridoio c’era il bagno con la doccia, mentre la porta accanto ospitava i servizi igienici con una sola tazza per tutti. La terza e ultima porta corrispondeva ad una lavanderia con due vasche per lavare, il posto per posare il sapone (senza sapone) e una macchina asciuga-biancheria.

    In cabina conobbi i miei compagni di viaggio, tutti indaffarati nel sistemare i loro preziosi bagagli. Ci presentammo l’un l’altro, in un vorticante concerto di domande che ognuno di noi esternava, ed a cui nessuno era in grado di dare risposte.

    Dagli altoparlanti arrivavano continui annunci, udibili da qualsiasi parte della nave. Erano trasmessi dal personale di bordo, ed in quel momento erano per la maggior parte costituiti da ricerche di passeggeri, oppure indicazioni di carattere operativo.

    Sistemata la mia valigia decisi di andare a visitare la nave per prendere confidenza con quella grande barca che, con una parolona grossa, era chiamata anche Transatlantico. Mi sentivo bene, nel fisico e nello spirito, inoltre per la prima volta mi ritenevo ricco: oltre alle sterline che mi erano state donate presso il consolato a Trieste dal vice console, i parenti avevano fatto una colletta e mi avevano donato 45.000 lire. Anche gli ex colleghi di mio padre mi fecero un prezioso dono.

    5

    Mio padre Giorgio era stato un militare di carriera. Era un ufficiale dell'esercito italiano nel corpo dei Granatieri di Sardegna. Quando finì il liceo si arruolò nell’esercito, e studiò a Roma in una Università i cui studenti erano chiamati Milizia Universitaria. Erano a tutti gli effetti dei militari, ma la loro unica attività era lo studio nelle diverse facoltà, alla pari di qualsiasi altro studente. Suo commilitone e compagno di stanza, quando c’era, fu il principe Umberto II di Savoia, anche lui Granatiere. Nel 1945, a fine conflitto, la Repubblica Italiana non riconobbe né gradi né titoli di studio per questi soldati, rei di aver studiato in regime fascista. A mio padre fu concesso solo il massimo grado disponibile per i Sottoufficiali, quello di Maresciallo, e non gli riconobbero la Laurea in Medicina. Papà la ritenne un'umiliazione e quindi si congedò, trovò un posto da impiegato presso la centrale del latte a Trieste, in Via Crispi, dove lavorò fino a che la malattia non se lo portò via. Aveva molti amici ed era segretario regionale al commercio con la Camera Confederale del Lavoro. I suoi colleghi, saputa la notizia che partivo per l’Australia, fecero anche loro una colletta: mi convocarono e mi consegnarono commossi una busta contenente 200.000 lire. Non avevo mai visto tanti soldi tutti assieme in vita mia. Nelle poche occasioni di lavoro riuscivo a guadagnare 4.000 lire a settimana, solo in rare occasioni 5.000. Mia sorella per una settimana di lavoro percepiva 4.500 lire.

    6

    Alle 10,40 la nave lanciò alto il suo ultimo saluto, suonando con la sirena per tre volte consecutive. Dal ponte di prua, davanti a me, vedevo il mare ed un enorme orizzonte. La Flaminia cominciava a portarsi alla velocità di crociera, quindi oramai era fatta, non si poteva più tornare in dietro, nemmeno se l’avessi veramente voluto.

    Alle ore 13,00 circa i passeggeri furono chiamati dagli altoparlanti per il primo turno pranzo. Gli addetti si scusarono per l’orario, annunciando che dall’indomani i turni avrebbero ripreso l’orario regolare, e cioè alle 12,00 per il primo turno e alle 13,00 per il secondo. Questo significava che ci sarebbero state circa cinquecento persone a turno. La cena era servita alle 19,00 e alle 20,00, e la colazione era dalle 7,00 alle 9,00 con ingresso libero.

    Dalla documentazione che mi era stata consegnata all’imbarco verificai che ero stato assegnato al secondo turno, quel giorno quindi andai a mangiare alle 14,00. C’erano dei lunghi tavoli numerati da ventiquattro posti ciascuno. Il pasto era composto da un primo, un secondo con contorno, acqua e pane a volontà. Chi voleva del vino poteva comprare la bottiglia che desiderava in ristorante, cui veniva applicata una cravattina con il numero del passeggero, per recapitarla al posto corretto sia a pranzo che a cena.

    Seppi, parlando con i miei commensali, che la nave non aveva ancora completato il carico dei passeggeri. Avrebbe fatto scalo a Bari, dove sarebbero saliti altri emigranti che provenivano dal sud Italia, principalmente Sicilia, Calabria e Puglia. La tappa successiva completava l’imbarco dei passeggeri con una sosta all’isola di Malta.

    Sapevo che nell’atrio principale della nave era situato l’ufficio del Commissario di Bordo, e sulla parete esterna del suo ufficio c’era una grande carta geografica metallica dove era tracciata la rotta che si doveva seguire, e sulla quale era posizionata una piccola nave dotata di calamita, che veniva regolarmente spostata ogni dodici ore. Trovai la mappa, così ebbi modo di vedere che oltre allo scalo di Bari e di Malta avremmo fatto scalo anche a Port Said, nel basso Egitto, e poi ad Adem nello Yemen.

    Quella nave offriva un’infinità di cose da vedere. Trovai l’ufficio del Capitano D’Armi, che solitamente era un sottoufficiale dei Carabinieri. Sulla nave era l’Autorità Giudiziaria riconosciuta. Casualmente arrivai anche davanti alla piscina, bella grande anche se coperta: nel mese di Febbraio non si sentiva certo il bisogno di fare un tuffo.

    A bordo c’era gente di tutti i tipi, ma è facile immaginare che l’estrazione sociale dei passeggeri fosse medio bassa. Ricordo comunque una cordialità abbastanza diffusa, quasi ci fosse uno spirito di fratellanza e condivisione di questo momento così importante della vita, ma ricordo anche atteggiamenti maleducati ed incivili in taluni personaggi, come quel signore sul ponte che prese a violenti ceffoni un bimbo che avrà avuto non più di cinque anni, quasi sicuramente colpevole di quelle marachelle che fanno tutti i bambini di quell’età. La violenza che quell’uomo usò sul bambino per poco non fece cadere a terra l’infante. Il piccolino, atterrito e tremante, piangeva in silenzio sotto l’autoritaria stazza di quell’uomo, che dall’alto gli intimava urlando uno stizzito «Stai ZITTO!»

    C’era una gran ressa ovunque, i corridoi erano pieni di gente in continuo movimento, molti cercavano solo la via d’uscita per i ponti superiori. Io mi diressi verso il primo ponte con l’intenzione di visitarli tutti nella giusta sequenza. Era pomeriggio, e prima che scendesse la sera avevo molto tempo per vagabondare in quell’ insolito anche se bellissimo ambiente.

    Gli spazi della nave si dividono in vari locali, situati in aree definite Ponti. Ogni piano della nave era percorribile con dei lunghi corridoi che si dividevano in più Ponti, separati tra di loro da porte spesso a tenuta stagna.

    Dal Ponte 1, ovvero il primo piano emerso, tramite delle scale si scendeva nella pancia della nave, dove erano collocate le stive, la sala macchine, i serbatoi di acqua potabile e carburante, i magazzini, le cabine del personale di servizio, le cucine e ogni altro ambiente necessario al servizio della nave. Proseguendo verso la prua della nave c’erano le cabine passeggeri e i servizi.

    Si scendeva alle cabine da più punti, dai saloni e dai corridoi di passaggio.

    La parte della nave emersa era distribuita su due piani e mezzo, ed ospitava le cabine di prima classe (quando il tragitto le prevedeva) e tutti i servizi come i ristoranti, gli uffici, i bar e le varie sale conviviali.

    Percorrendo il Ponte 4 superai le cabine dell’equipaggio e mi trovai davanti alle cucine. La porta era spalancata, e dentro c’erano degli uomini che spazzavano il pavimento immersi in un forte odore d’aceto. Ricordai dalle mie poche esperienze lavorative che i cuochi utilizzavano l’aceto per pulire e lucidare i ripiani d’acciaio inox.

    «Finalmente sono riusciti a liberarsi di te a Trieste?»

    Era stato uno dei ragazzi che lavoravano all’interno della cucina a parlare.

    Lo guardai. Non mi sembrava di averlo mai visto, così gli chiesi: «Ci conosciamo?»

    «Certo Luciano che ci conosciamo!», mi rispose subito. «Eravamo nello stesso banco a scuola, al Guido Brunner. Sono Federico Barbarella!»

    Si! Ora lo ricordavo! Era stato il mio compagno di banco per un anno intero. Ovviamente era cambiato molto. Erano passati sei anni dalle scuole medie, all’epoca avevamo quattordici anni, ma si sa che a quell’età la fisionomia galoppa su binari ad alta velocità.

    «Federico! Ora ricordo! Sei stato bravo a riconoscermi, io sinceramente non ti avrei riconosciuto!»

    Ci abbracciammo come vecchi commilitoni che si ritrovano dopo anni di separazione.

    «Hai deciso di cambiare aria? Te ne vai in Australia?», mi chiese subito.

    «Provo», risposi. «Tu come mai sei qui?»

    Sorrise, ma senza allegria. «Sono tre anni che navigo su queste bagnarole.», disse, e aggiunse subito: «E’ un lavoro come un altro, c’è molto sacrificio ma almeno quando sono a casa ho i soldi per portare a ballare la mia fidanzata, se ne ho voglia.» Poi continuò: « Ti ricordi del nostro professore di tecnologia, il professor Pino Sangiacomo, quello che ci prendeva a schiaffi per ogni stupidaggine? L’anno scorso l’ho portato fino in Sudamerica con la motonave Aurelia, abbiamo parlato dei vecchi tempi, ed anche di te che gli facevi i modellini in legno delle case che progettava.»

    Mi venne da sorridere sentendolo dire L’ho portato, sembrava fosse lui il Comandante della nave. Ricordavo bene quel professore, Pino Sangiacomo era un ingegnere severo, ma anche molto in gamba.

    Ricordare quell’uomo oggi mi fa riflettere su quanto sia cambiato l’ambiente scolastico. I miei figli a scuola venivano chiamati per nome, oggi probabilmente i professori danno del Lei ai giovani per mantenere le distanze.

    All’epoca il professor Sangiacomo si rivolgeva a noi chiamandoci Ceffi.

    Parlando in classe, non ricordo in quale occasione, gli avevo detto che mi divertivo a fare dei lavoretti con il legno, in particolare con il compensato. Un giorno mi chiese se fossi disposto, ovviamente specificando a pagamento, di costruire il modellino di una casetta che aveva progettato, seguendo un suo disegno in scala. Non mi sono mai tirato indietro dove si poteva guadagnare qualche soldino, così accettai e ricevetti il progetto di una graziosissima baita di montagna. Dopo la prima arrivò la seconda, e via via ce ne furono altre.

    Federico mi spiegò che era imbarcato come inserviente di cucina, mi confermò che era impegnato per molte ore al giorno. «Devo lavare tanti di quei piatti e tante di quelle pentole che la notte le vedo anche nei sogni!», mi raccontava ridendo. «Però ci pagano bene, sono soddisfatto, anche se a volte sto in mare per quattro o cinque mesi di seguito.»

    Ci salutammo e mi assicurò che se avessi voluto trovarlo sarebbe stato sufficiente chiedere di lui in cucina.

    Sperai che Federico fosse solo il primo incontro gradito a bordo, sapevo che c’erano altri ragazzi che conoscevo sulla motonave, e mi ripromisi di rivederli.

    Continuai il mio giro al Ponte 5.

    Tutto era una novità per chi non era abituato alla realtà di una nave come lo ero io, e la folla che prima si aggirava confusa ora si aggirava incuriosita. Passando davanti alla sala da pranzo degli ufficiali vidi piccoli tavoli rotondi piacevolmente apparecchiati con bicchieri a calice e posate rovesciate sulla tovaglia immacolata. Non potevo definire la sala lussuosa, ma sicuramente era bella, elegante, ordinata e arredata con gusto.

    Il mio orologio segnava le 18,30, così decisi di interrompere il mio tour e di trasferirmi all’aperto ad ammirare il mare, cosa che mi ha sempre affascinato. Sbucai sulla passeggiata lato babordo (parte sinistra della nave) e mi resi conto che il Sole era appena sceso oltre l’orizzonte, e un timido crepuscolo rischiarava ancora il mare. Ogni segno della terraferma era scomparso, non si vedevano luci all’orizzonte, stavamo scivolando in silenzio nella mia prima notte da emigrante, da solo con il resto del mondo. Molti passeggeri erano all’aperto, assorti come me nel guardare il calare della notte. Sentii una signora confidare al marito la sua paura per l’avanzare dell’oscurità. Io sorrisi a quel timore, immaginando il terrore che avrebbe provato quando saremmo stati soli in mezzo all’oceano.

    Procedendo sulla passeggiata passai davanti alla vetrina di un bar, così decisi di spendere i miei primi soldi per bere qualcosa. Il portafoglio pieno mi faceva sentire come un giovane altolocato che fa il suo ingresso nella bella società, e mi conferiva una certa sicurezza. Entrando fui subito affascinato dalla soave musica che vi si diffondeva, una melodia classica che non conoscevo, appena udibile. Chiesi un Bitter Campari al bancone davvero considerevole che era piazzato in mezzo al bar, pagai e mi girai ad osservare la gente che era presente a sorseggiare i loro drink. In quell’ambiente aleggiava qualche cosa di strano, il mio cervello lo aveva intuito ma non ancora focalizzato. Fu solo dopo un po’ che capii che all’interno di questo bar c’erano solamente uomini. Dove erano sparite tutte le donne? Finii il mio aperitivo ed uscii.

    Dovetti aspettare le 20,00 per andare a cena. Rispetto alla mia precedente visita, il ristorante era bene illuminato, e i piani dei tavoli in formica erano ora coperti da tovaglie, tutte bianche e stirate di fresco. I tovaglioli erano arrotolati e tenuti da un portatovagliolo rotondo in plastica sul quale c’era stampato il numero corrispondente al passeggero. In sottofondo si sentiva suonare la musica. Il menù esposto dichiarava un pasto piuttosto frugale: un piatto di pasta al pomodoro o al ragù o in bianco, e dell’affettato misto di secondo con verdure lesse e crude. La cosa positiva era che i camerieri passavano con il carrello e servivano direttamente in tavola quanto richiesto, così potevo dedicare la mia attenzione ai miei commensali.

    Al tavolo quella sera eravamo in sedici persone, tutti adulti, ne mancavano pertanto altri otto. Avevo già visto a pranzo quelle persone, ci fu un rinnovato saluto rapido, fatto più per dovere che per piacere.

    C’era Antonio, che viveva da quindici anni a Trieste, ma era originario di Brindisi, con la moglie Maria sua concittadina. Erano tutti e due sulla trentina, e non avevano figli perché Antonio non si sentiva sicuro di poter offrire un avvenire ad un eventuale bambino. Di professione facevano i sarti a Trieste, ma quando non c’era lavoro si arrangiavano a fare piccole riparazioni e lavori per la casa. Il loro sogno era aprire una piccola sartoria a Melbourne: i cugini che li avevano preceduti raccontavano delle opportunità che i sarti italiani, molto apprezzati in città, potevano avere, e dei guadagni per chi praticava quel mestiere.

    Giorgio ed Arturo erano meccanici, rispettivamente di ventisei e ventotto anni. Avevano dei parenti a Sydney, e anche per loro il viaggio era una risposta alla notizia di grandi possibilità per la loro professione. Anche per loro il sogno nel cassetto era di aprire una attività in proprio, in questo caso un’officina.

    Filippo e la moglie Anna erano giovanissimi (in realtà io lo ero più di loro, ma mi sono sempre visto come un adulto in questa esperienza), ventiquattro anni lui e due in meno lei, erano sposati da quattro mesi. Avevano deciso di unirsi in matrimonio dopo avere fatto le visite mediche e l’intervista con il console, quando in pratica furono sicuri di essere stati accettati dall’ufficio Immigrazione Australiano. La professione di Filippo, quando trovava lavoro, era quella di barista. Lei lavorava in Via del Corso a Trieste come commessa presso la UPIM, un bellissimo negozio che sembrava la miniatura degli odierni centri commerciali.

    Francesco e la moglie Federica mi furono antipatici da subito. Erano entrambi impiegati alle Poste a Trieste, sostenevano di non avere problemi economici e che vivevano dignitosamente in un appartamento in centro di proprietà della madre. Andavano a Melbourne con l’idea di fare degli investimenti ed aprire qualche non ben precisata attività. La mia istintiva antipatia verso questa coppia di trentenni viziatini nasceva dal fatto che se avessi avuto un posto da impiegato presso le Poste non avrei avuto bisogno di lasciare la mia città per cercare di più, e non avrei dovuto lasciare i miei affetti. Scegliere di lasciare la sicurezza per l’incertezza non faceva parte del mio essere.

    Pino e la moglie Rosa erano di tutt’altra pasta. Pino lavorava al porto di Trieste come occasionale, quindi il lavoro era garantito solo quando arrivavano navi mercantili da scaricare. Non aveva difficoltà ad ammettere che tiravano avanti a stento, e si diceva disposto a qualsiasi tipo di lavoro per potersi finalmente sistemare. Una volta superata la difficile fase di insediamento avrebbe fatto il richiamo a sua sorella sposata, che l’avrebbe raggiunto con il suo bambino. Fare il richiamo significava invitare un parente stretto in Australia, e provvedere per lui fintantoché non si fosse sistemato.

    C’erano anche due belle ragazze, Marisa e Sara, erano giovanissime, credo avessero al massimo ventidue o ventiquattro anni. Si erano conosciute il giorno del colloquio in Consolato, avevano chiacchierato del più e del meno mentre aspettavano di essere ricevute dal Console e si erano tenute in contatto.

    Marisa era una bella ragazza, ed essendo io molto sensibile al fascino femminile lei mi colpì parecchio. Alta circa come me (io sono alto 1,74 m.), capelli scuri dai naturali riflessi rossi, occhi neri lucenti e pelle chiara e perfetta. La bocca era ben disegnata, con labbra carnose coperte da una leggera patina di rossetto dal colore di pesca matura. Il corpo era armonioso, con forme piacevoli e poco accentuate. Il seno piccolo ma ben visibile le conferiva un aspetto molto elegante e composto, e anche la voce era molto gradevole. Ci raccontò che era fidanzata da tre anni con Marco, partito per l’Australia l’anno prima. Lui le aveva fatto il richiamo, e ora lei lo raggiungeva. L’avrebbe incontrato a Sydney, dove si sarebbero sposati ed avrebbero vissuto felici e contenti.

    L’amica di Marisa, Sara, sfoggiava una bellezza più mediterranea. Portava i capelli scuri come l’ebano lunghi fino alle spalle, ondulati e ariosi. Nonostante i pesanti abiti invernali che tutti portavamo il bel corpo di Sara non passava inosservato. Indossava delle calze velate color carne, di quelle con la cucitura dietro che possono portare solo donne estremamente sicure di sé, e che le disegnavano con precisione le gambe nel loro salire fino al di sotto della gonna, unendosi in un sedere tondo e tonico. Il suo punto forte però era indubbiamente il prosperoso seno, costretto a fatica in strati di stoffa di lana, e che speravo di poter ammirare meglio più avanti quando, navigando verso Sud, avremmo trovato temperature più gradevoli e indossato abiti più leggeri.

    Vicino a me sedeva Carlo, un ragazzo molto timido che parlava pochissimo e faceva fatica ad entrare nei discorsi. Durante tutte le conversazioni non trovò mai il tempo ed il modo di esprimersi, di raccontare la sua storia. Aveva circa la mia età, era di figura molto esile, un naso importante e capelli eccessivamente lunghi che non facevano che esaltare ancor di più la sua magrezza.

    Il tavolo era molto lungo per ospitare dodici persone per lato, quindi la conversazione a tavola si divideva in due gruppi, e in alcuni momenti anche in tre. Tipicamente le signore si isolavano subito e avviavano interminabili discorsi criticando questa o quella signora, il modo di vestire, il portamento, il linguaggio.

    I discorsi dei maschi avevano solitamente per protagonista la nave e l’equipaggio. Quella sera Pino ci informò che un suo amico, che faceva parte dell’equipaggio, gli aveva indicato il tavolo del Comandante della nave, un tavolo rotondo apparecchiato per dodici persone. Il Comandante tutte le sere cenava a quel tavolo con sette dei suoi collaboratori: il primo ufficiale di bordo, il Commissario, il Capitan d’armi e i due medici facevano presenza fissa al suo tavolo. A turno invitava altri ufficiali. Quattro posti rimanevano liberi a disposizione dei passeggeri che avevano l’onore di essere invitati dal Comandante al suo tavolo.

    A cena conclusa uscii dal ristorante, non senza pensare ancora una volta all’avvenente Sara.

    La notte sull’Adriatico era limpida, l’aria era fredda, con un leggero venticello che soffiava da nord. Sapevo che era da nord perché mi soffiava sul collo e sulla schiena e noi stavamo navigando verso sud. Era arrivata mezzanotte, il cielo brillava di migliaia di stelle e la Luna in fase crescente illuminava la superficie del mare che scintillava sotto una luce un po’ sinistra.

    Era il primo giorno della mia avventura appena iniziata. Non mi sentivo stanco, piuttosto scombussolato ed euforico. I miei vent’anni non mi facevano realizzare a pieno quel particolare momento della mia vita.

    Non so dire quante volte percorsi i ponti della nave quella sera. Fino a quel momento le domande che mi ponevo più spesso erano legate alla nuova città che andavo a conoscere, e a come avrei fatto a muovermi senza conoscere la lingua. Quella sera, improvvisamente, mi balenò nella mente un interrogativo ben più spiazzante.

    E se per qualche motivo non fossi andato bene nel lavoro che mi offrivano?

    La mia esperienza come radio tecnico era molto limitata, costruire un apparecchio radio seguendo le istruzioni fornite dalla scuola non è una cosa particolarmente difficile. Sarei stato in grado di fare quanto mi avrebbero richiesto? Continuai a camminare, cercando di dare risposte alle mille domande che mi assillavano.

    Era ora di chiudere la giornata ed andare a letto, mi avviai quindi verso la mia cabina. L’interno era illuminato da una tenue luce azzurra che permetteva una discreta visibilità. Contai velocemente i miei compagni di cabina, che erano già tutti coricati. La mia branda era quella in alto a sinistra, appena entrati. Carlo dormiva nel letto sotto il mio, e sul letto a castello dietro dormivano Giorgio ed Arturo. Sui letti a destra riposavano Filippo e Francesco, e sull’altro lato c’era Pino che dormiva sopra, mentre il lettino sotto era ancora libero.

    Misi abiti e scarpe sopra la valigia, mentre il portafoglio lo infilai dentro alla fodera del cuscino sul quale mi coricai. Non fu però la paura di essere derubato a tenermi sveglio, bensì la consapevolezza di essere partito, e di essere su una nave diretta all’altro capo del mondo.

    7

    Le lancette fosforescenti del mio orologio da polso segnavano le 6,20, ma guardando fuori dell’oblò notai che era ancora buio. Sapevo che non avrei più dormito, così mi alzai cercando di non svegliare nessuno. Certo di non essere visto recuperai il portafoglio, presi dalla valigia la busta di plastica contenente il necessario per radermi, il sapone e il pettine, e andai alla toilette.

    La colazione era servita in sala ristorante dalle 7,00 in poi. Sui tavoli erano appoggiate delle brocche di acciaio inox piene di caffè caldo, di thè e latte. Dai panieri si diffondeva il fragrante profumo del pane fresco, e lungo il tavolo erano servite mini confezioni di burro e di marmellata. Davanti ad ogni posto era posata una brioche su un piattino, io divorai la mia e presi la mia immancabile tazza di caffè.

    Fuori la giornata era bellissima, il Sole stava già iniziando la sua corsa attorno alla volta del cielo e l’aria si stava riscaldando. Il mare era leggermente mosso, non c’era più il venticello freddo che la sera prima mi aveva soffiato sul collo. La Flaminia navigava sicura verso il porto di Bari, dove avevamo in programma di attraccare per le 10,30.

    Non c’erano molte persone in giro a quell’ora, quei pochi che si vedevano facevano parte dell’equipaggio, ed erano intenti a ramazzare il pavimento, lavare il ponte, le scale e gli oblò.

    Mi diressi verso il ponte numero 6, volevo vedere la mappa dove era segnato l’itinerario della nave. Il controllo della posizione della nave sulla mappa diventò presto una quotidiana abitudine che mi inventai per avere qualcosa da fare nelle interminabili ore di navigazione. Già dalla passeggiata del giorno prima mi era sembrato di vedere nelle vicinanze un cartello che diceva Banca, infatti lo ritrovai e seguii le indicazioni. Alla gentilissima signora bionda che mi accolse spiegai che volevo depositare dei soldi.

    «Ho sentito dire che c’è stato qualche sporadico caso di furto di denaro a bordo.», inventai, per giustificare la mia intenzione di non girare con tutti i soldi addosso.

    L’impiegata mi spiegò che ogni passeggero poteva disporre di una cassetta di sicurezza, messa a disposizione dall’amministrazione della nave. «Puoi trovarle presso l’ufficio del Commissario di Bordo, proprio qui di fronte. »

    All’ufficio del Commissario trovai un giovane marinaio che stava scrivendo a macchina.

    «Buongiorno», gli dissi. «Sono stato informato che posso usufruire di una cassetta di sicurezza.»

    Lui mi guardò, mi chiese il cartellino di riconoscimento con foto che mi avevano dato all’imbarco, documento che oltre ai miei dati personali conteneva l’importantissimo numero del passeggero. Dopo la parte burocratica di registrazione della domanda, mi restituì il cartellino e mi chiese di seguirlo presso un’altra stanza. Sulla parete di fronte si trovavano due porte affiancate, una aveva una targa che indicava: Commissario di Bordo Signor Ettore Mansueto, mentre l’altra recitava Cassette di Sicurezza. Entrammo nell'ampia stanza, fitta di paretine che da terra andavano fino al soffitto, cesellate di centinaia di porticine in metallo numerate e dotate di serratura. Molto gentilmente l’addetto mi spiegò che ogni cassetta aveva due chiavi necessarie per aprirla. Una chiave era data al passeggero, l’altra era tenuta nell’ufficio. Quando si chiedeva di entrare nella stanza delle cassette di sicurezza, l’incaricato segnava la data e l'ora sul registro, poi accompagnava il passeggero alle cassette, apriva una serratura con la sua chiave, poi si metteva in disparte per permettere alla persona di agire con una certa privacy. Finita l’operazione, il passeggero chiudeva la cassetta e il funzionario faceva la stessa operazione completando la procedura.

    Depositai le mie 200.000 lire, chiusi e ringraziando me ne andai.

    La nave arrivò puntuale a Bari, e subito il personale di bordo eseguì le solite manovre per l’attracco alla banchina. Fu calata la rampa d’accesso a bordo.

    Dalla passeggiata del Ponte 1, sul quale mi trovavo lato babordo, godevo di una visuale completa. Potevo vedere attraverso la vetrata della Stazione Marittima la calca di gente che si affollava con il naso incollato al vetro per guardare la grande nave. Sulla banchina c’era il frenetico via vai di gente che si occupava di servire la nave. Arrivarono una fila di carrelli colmi dei bagagli dei passeggeri in partenza, montagne di valige, bauli e casse in legno. Mi piaceva pensare che quei bagagli non contenessero solo vestiti e oggetti personali, ma sogni, aspettative e speranze. Il prezioso carico veniva posto su una rampa d’accesso che entrava in un’apertura sulla fiancata della nave, e da qui i bagagli venivano caricati a mano dal personale che lavorava all’interno della stiva. Quelli contrassegnati da un cartoncino color rosso venivano stivati nell’ampia pancia della nave, mentre quelli con cartellino verde venivano portati direttamente nelle cabine. Ad ogni passeggero era consentito un unico bagaglio da portare in cabina, nemmeno una borsa in più.

    Le operazioni d’imbarco dei passeggeri e dei loro bagagli si stavano svolgendo regolarmente, e nel giro di tre ore tutti i nuovi passeggeri erano stati imbarcati. Ritirate le passerelle di accesso, il personale aprì le porte a vetri della Stazione Marittima per consentire agli accompagnatori ed ai parenti dei passeggeri di avvicinarsi nella zona sottostante alla nave. Si ripeté la manifestazione dei saluti, degli addii. Non mancarono naturalmente le stelle filanti, la commozione tra le persone in partenza e quelle che rimanevano a terra.

    La sirena della nave salutò, le gomene furono ritirate e rimorchiatori tornarono a corteggiare la nave per poterla accompagnare fuori dal porto.

    Il giorno seguente fui testimone anche dello scalo a Malta, in perfetto orario, dal mio invidiabile punto di osservazione, quasi sopra alla passerella d’imbarco. Per la terza volta furono ripetute tutte le operazioni d’approdo, di imbarco e partenza.

    Notai con piacere che un gran numero tra i passeggeri maltesi erano giovani donne, allegre ed emozionate, che salutavano non solo parenti ed amici a terra ma anche noi che eravamo sul ponte della nave ad osservare. Una bella morettina mi salutò e mi disse qualcosa, ma io ovviamente non capii nulla poiché parlò in Inglese.

    Il tempo migliorava ogni giorno, le giornate si allungavano, e man mano che navigavamo verso Sud il Sole aumentava il suo protagonismo. Poco prima dell’arrivo in Egitto la temperatura si aggirava intorno ai 24 °C, e diventava obbligatorio liberarsi delle maglie di lana ed indossare abiti più leggeri.

    Passeggiando sopraccoperta sul Ponte 7 mi accorsi che la piscina era stata scoperta, e dei marinai la stavano pulendo. Era una buona cosa, ci sarebbe stato un diversivo in più per passare le lunghe e monotone giornate che dovevano ancora venire.

    8

    Il 6 Febbraio alle ore 5,00 la nave approdava a Port Said, nel basso Egitto, ovvero all’imboccatura del canale di Suez. Si trattava di uno scalo tecnico, non dovevamo imbarcare nessuno. La sera prima, durante la cena, fummo informati che durante la sosta prevista di 10 ore era possibile scendere a terra per fare delle escursioni.

    Il gruppo di cui facevo parte si organizzò per visitare un po’ la città. Non ero entusiasta di accompagnarmi ad Antonio con la signora Maria, o ai due fratelli Giorgio e Arturo per tutto il giorno, ma quando venni a sapere che anche Sara e Marisa sarebbero scese a terra mi unii al gruppo senza pensarci due volte. All’ultimo momento si aggiunse anche Carlo.

    Le operazioni d'attracco si completarono quando la nave ancora dormiva. I più mattinieri poterono vedere la Flaminia che veniva pian piano circondata da decine e decine di piccole imbarcazioni, trasformate dagli arabi che le occupavano in piccoli Bazar dove si poteva comprare qualunque cosa, dal cibo ai souvenir. Tiravano a bordo una cordicella cui era legato un cesto di paglia con dentro in visione quanto i passeggeri interessati chiedevano. Chi comprava metteva l’importo pattuito nel cesto e lo calava, dopo essersi trattenuto quanto richiesto. La somma di denaro richiesta in partenza per le loro merci era solitamente il triplo del valore reale: ancora oggi in questi popoli il ruolo della trattativa ha una certa importanza.

    Alle 8,30 io e il mio gruppo eravamo sulla passerella per scendere a terra. Ci fu dato un cestino da viaggio con il pranzo, visto che chi scendeva non aveva la possibilità di usufruire del ristorante. Niente di sofisticato, solo dei tramezzini, frutta ed una bottiglia da mezzo litro d’acqua minerale.

    Port Said si presentava ai nostri occhi come la tipica città araba, un paesaggio di casette bianche tutte squadrate che ricalcava perfettamente l’immagine che molti di noi avevamo di quelle terre, magari solo per averne visto un film al cinema o un documentario alla televisione. Dalle cupole degli snelli minareti giungeva l’eco di lingue musicali e sconosciute, una atmosfera che aveva un ché di rilassante e quindi in forte contrasto con il caotico movimento della gente per strada. Sembravano tutti in ritardo! Noi cercavamo di stare uniti, eravamo timorosi e ci muovevamo con incertezza principalmente perché non sapevamo dove andare poiché nessuno di noi aveva una guida o una mappa della città. Seguendo le indicazioni ci trovammo in centro città, ma la condizione delle strade era talmente degradata che veniva da pensare in quale stato di abbandono dovesse trovarsi la periferia. Il leggero venticello che veniva dal mare alzava nuvole di polvere dalla strada in terra battuta, e pezzi di carta veleggiavano per le vie come farfalle impazzite.

    La maggior parte degli uomini per le strade indossava il galabeya, che non è altro che un camicione lungo fino ai piedi, con in testa il classico turbante arabo. Le donne portavano il velo oppure il burka. L’impressione era quella di una diffusa povertà. La gente in circolazione indossava vesti perlopiù sporche, l’immondizia era sparsa dappertutto così come ovunque si trovavano le feci abbandonate dagli animali da soma, usati ancora come mezzo principale per il trasporto merci. Lo scarso traffico era costituito soprattutto da vecchie vetture, perlopiù italiane, e vetusti autobus ricoperti di ruggine ma comunque affollati.

    Anche in centro, come attorno alla nave, si ripresentò la scena dell’assalto dei venditori ambulanti, ma la vera curiosità, quello che non poteva non essere notato ed attirava la nostra attenzione, erano delle strane macchie di colore rosso che letteralmente ricoprivano la pavimentazione della strada. Antonio approfittò per fare il saputello della situazione: un passeggero che un tempo faceva il marittimo ed aveva già soggiornato a Port Said gli aveva raccontato della tradizione che quella popolazione aveva di masticare le foglie di Betel avvolte in uno spicchio della noce della palma di areca. Si trattava di un’abitudine antichissima, diffusa in moltissime parti del mondo anche se a noi completamente nuova. Questo boccone così preparato, detto appunto noce di betel, aveva delle proprietà stimolanti alla pari di una droga leggera, creava dipendenza ma soprattutto aumentava la produzione di saliva, che si tingeva di rosso come le gengive dei masticatori. Quando le signore del nostro gruppo capirono che avevano a che fare con metri quadri di espettorazioni non persero tempo per esternare la loro meravigliata indignazione, cercando contemporaneamente vie più sgombre sulle quali poter camminare con maggior tranquillità.

    Da quando scendemmo dalla nave Sara era marcata stretta da Giorgio ed Arturo, con Carlo che trotterellava subito dietro nel tentativo di gettarsi nella conversazione. Io mi trovavo subito dietro di loro e conversavo con Marisa, che mi raccontava del suo fidanzato, Marco, partito un anno prima per Sydney, dove aveva trovato lavoro presso un’impresa edile di proprietà di due fratelli italiani. Le scriveva tutte le settimane, poiché la Domenica si sentiva solo e scriverle delle lettere lo faceva sentire meno lontano. La stavo aspettando con ansia, aveva affittato una casetta tutta per loro, era soddisfatto del lavoro che faceva e dello stipendio che percepiva.

    Io ascoltavo Marisa che mi raccontava di Marco con gli occhi lucidi, e delle accese liti di lei con i suoi genitori a Trieste che non approvavano che lei lo raggiungesse in Australia senza essersi prima sposata con matrimonio per procura. Quella strada comportava una prassi lunga e anche costosa, mentre Marco era impaziente d’averla con lui. Aveva convinto i proprietari dell’impresa ad assisterli per riuscire a smaltire le pratiche necessarie il prima possibile, così da potersi sposare lì, nel Nuovissimo Mondo, purtroppo senza lo sfarzo e la festa tipicamente italiana ma con una semplicissima cerimonia.

    Il tempo per la passeggiata stava per scadere. Erano le 12,00, e la partenza per Suez era prevista per le ore 14,00. Sulla strada del rientro Giorgio e Arturo si fermarono ad una bancarella per acquistare una decina di banane, simili a quelle piccoline note come banane delle Canarie. Ora camminavano ad una decina di passi dal gruppo e si ingozzavano di banane senza porsi il problema di offrirne anche agli altri. A me quella scelta stava benissimo, perché la bellissima Sara ora camminava da sola ed ebbi così modo di affiancarla.

    «Quanto sporco vero Sara? Non ho girato molto il mondo, ma non credo che ci possa essere posto più lercio di questo.»

    Un avvio di conversazione assai penoso, lo riconosco, ma era la prima cosa che mi era venuta in mente.

    Lei mi guardò, sorrise lievemente e rispose: «Perché ti sono antipatica Luciano?»

    La guardai sorpreso per quanto aveva appena affermato. Cercai di dare alla mia voce un tono calmo e sorpreso. «Che dici? Cosa ti fa pensare di essermi antipatica?»

    «Mah, non lo so… Ho l’impressione che mi eviti, anche a tavola.», disse, poi continuò: «Parli e scherzi con tutti, meno che con me. Non sono tanto vecchia sai, ho solo ventitré anni!»

    Ero emozionato da quella conversazione: «Sara, ti garantisco che tu non mi sei per niente antipatica, sei una bellissima ragazza e una piacevole compagnia. L’età non conta niente, anzi mi piacerebbe averti per amica.» Per darmi un tono aggiunsi: «Ho avuto amiche anche più grandi di te, sai!», e me ne pentii immediatamente, temendo di aver compiuto qualche gaffe. «Sono certo che a casa tua a Trieste avevate degli specchi: pensi veramente che un ragazzo sano di mente possa disprezzare tutto quel Ben di Dio che ti porti addosso?»

    La feci ridere, avevo fatto centro.

    Eravamo quasi giunti alla nave, così approfittai per continuare il discorso: «Io ti ho notato subito, sai, non passi certo inosservata, pensavo però che un ragazzo della mia età non ti avrebbe interessato, di solito voi ragazze guardate sempre gli uomini un po’ più grandi di voi...»

    Sara rispose con un tono di voce deciso e quasi seccato: «Ora sei tu che dici stupidaggini, del resto penso che anche tu abbia avuto gli specchi a casa, no?»

    Mi fece piacere sentirla parlare così.

    «Pensi che io non abbia notato che hai addosso gli occhi di tutte le donne che t’incontrano?», continuò imbronciata.

    Sorrisi senza rispondere, mi sembrava che quell’accenno di gelosia fosse quanto di meglio avessi potuto sperare. Saliti sulla nave rimanemmo d’accordo che ci saremmo visti a cena, così ebbi un po’ di tempo per starmene sdraiato in cabina a pensare a quanto mi aveva appena detto la bella Sara.

    Approfittai per farmi una doccia, ne facevo tantissime perché per me era una novità avere questa disponibilità. A Trieste non avevamo la stanza da bagno, ci si lavava una volta alla settimana in cucina, tirando una tenda sulla porta a vetri ed usando una tinozza in metallo zincato come vasca, che riempivamo con acqua calda. Durante la settimana ci si lavava a pezzi, compatibilmente con le presenze in cucina.

    Mi pettinai e mi spruzzai sul viso un pochino di lozione dopobarba, un regalo della mia sorellina prima della partenza, uno tra i migliori After-shave che si trovavano sul mercato: il Tabacco D’Harar.

    9

    Mi rendevo conto di possedere un qualcosa che piaceva alle donne. Non avevo mai fatto palestra e nessuna attività fisica, ugualmente avevo un personale evidentemente piacevole. Ero alto un metro e settantaquattro centimetri per 74 chili di peso, castano scuro di occhi e capelli, di fisico asciutto e tonico, con spalle larghe e vita da ballerino classico. Poteva sembrare il fisico di un pugile dei Pesi Medi, come il mio illustre concittadino Nino Benvenuti, campione del mondo proprio in questa categoria, ma quello che un pugile non si poteva permettere era il mio problema alla vista, per la quale dovevo usare gli occhiali sia per leggere che per scrivere. Portavo i capelli un po’ lunghi pettinati con la riga in parte, un vezzo poco mascolino per quegli anni ma che alle donne mi sembrava piacesse, come piaceva la forma accentuata delle mie labbra.

    Ho sempre posto molta attenzione nel conversare con una ragazza, cercando per quanto possibile di risultare simpatico e di non annoiare, e sapendo anche dosare la giusta dose di discorsi seri e sensati, sempre rivolti con gentilezza e cavalleria. Mi piaceva adulare le donne, farle sentire belle, desiderate ed importanti. Le coprivo di complimenti, a volte veritieri e altre un po’ di circostanza. Mia madre, vistomi in azione, mi definiva semplicemente con una parola: Ruffiano.

    Il mio problema alla vista venne diagnosticato subito dopo la fine della guerra, quando avevo sei anni e frequentavo la prima classe elementare. La maestra fece chiamare mia madre e la informò che a suo avviso era opportuno che mi sottoponessi ad una visita oculistica perché scrivevo con il naso attaccato al foglio. In quell’occasione la maestra raccontò a mia madre come andavo a scuola, definizione che mi accompagnerà per tutta la mia vita: «Se non avesse quella maledetta furia sarebbe un bambino meraviglioso.»

    Non sono mai stato un tipo paziente, in effetti. Neanche a sei anni.

    Gli anni del dopoguerra sono stati anni di povertà, come è logico immaginare non c’era molto da mangiare, e in attesa che il mondo ripartisse e che il lavoro si stabilizzasse i ceti medio bassi non avevano accesso ad una alimentazione particolarmente ricca. C'erano molti bambini denutriti, gracili e alimentati male. Forse un’alimentazione più curata, con un maggior contenuto di proteine e con più vitamine, avrebbe permesso alla mia vista di rinforzarsi da sola senza bisogno di dover ricorrere gli occhiali, che poi avrei dovuto indossare per tutta la vita.

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    Il transito attraverso i 161 chilometri del canale di Suez richiedeva circa 15 ore di navigazione a bassa velocità. A Port Said avevamo imbarcato un paio di piloti che avevano la responsabilità di mantenere il rispetto e l’ordine dei convogli in transito, nonché della puntualità dei passaggi ai vari semafori o posti di segnalazione, presenti ogni 10 chilometri circa. Fu soprattutto il controllo da parte delle autorità egiziane a farci perdere molto tempo, infatti avevano voluto controllare i passaporti di tutti i passeggeri e dell’equipaggio presente sulla nave. Anche all’epoca erano in atto delle tensioni con il vicino stato d’Israele, e per questo motivo i controlli erano scrupolosi. Finalmente la nave imboccò l’ingresso del canale, procedendo molto lentamente attraverso lembi di terra che sembrava fossero stati letteralmente tagliati con il coltello.

    La navigazione attraverso il canale era di una lentezza esasperante. Erano circa le 15,00 di Domenica 7 Febbraio 1960, e la nave era ferma dove il canale si allargava, facendo scomparire le coste che la opprimevano. Eravamo fermi nel Grande Lago Amaro, probabilmente in attesa del convoglio di navi che provenivano dalla parte opposta del canale. A quel tempo il canale di Suez era una delle vie d’acqua più trafficate e spettacolari al mondo. La sabbia finissima del deserto era sospesa intorno a noi, leggera e impalpabile, ma che tingeva il cielo di una sfumatura rossiccia. La temperatura non era eccessivamente calda, ma prometteva di esserlo l’indomani.

    Si seppe di un infortunio a bordo, un bambino maltese di circa dieci anni si era rotto un braccio cadendo da

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