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La società della neve
La società della neve
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E-book492 pagine7 ore

La società della neve

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Info su questo ebook

La storia mai raccontata dei sopravvissuti al terribile disastro aereo sulle Ande

Su Netflix il film evento più atteso dell’anno

Il 13 ottobre 1972, un aereo Fokker di nazionalità uruguaiana si schianta contro i crinali rocciosi della cordigliera delle Ande, forse per un errore del pilota.
Delle quarantacinque persone a bordo, tra passeggeri ed equipaggio, dodici muoiono nell’impatto. Per i sopravvissuti, comincia un’odissea che solo pochi di loro riusciranno a superare. Con temperature che di notte raggiungono i -30°C, vessati da valanghe e dalla mancanza di cibo e acqua, i superstiti dello schianto affrontano un inferno ghiacciato nell’attesa dei soccorsi.
Dopo settimane di stenti, alcuni di loro decidono di intraprendere una difficilissima marcia attraverso le montagne, per chiedere aiuto in qualche zona abitata.
Pablo Vierci, in contatto diretto con i superstiti del disastro, racconta con crudo realismo la loro lotta per la sopravvivenza: una storia impressionante sulla capacità dell’essere umano di restare aggrappato alla vita anche nelle situazioni più estreme

I sedici sopravvissuti al famoso disastro del 1972 raccontano la loro storia

«Il libro sorprende per la sua chiarezza e precisione nel ricostruire ciò che è fuori e ciò che è dentro: la narrazione e l’orrore. È saggio, romanzo e, a volte, poesia.»
El Mundo

«La società della neve è un libro magnifico. I 16 sopravvissuti raccontano ciò che è accaduto, dando alla narrazione una struttura circolare che, per la sua crudezza, per il suo insieme di tragedie e colpi di fortuna, ma anche per le sue riflessioni sulla vita e la morte, è impossibile togliersi dalla testa.»
Ideal
Pablo Vierci
È un acclamato scrittore e giornalista uruguaiano, i cui romanzi sono stati tradotti in moltissime lingue. È stato compagno di scuola della maggior parte dei sopravvissuti del disastro aereo delle Ande, e ha cominciato a scrivere La società della neve nel 1973.
LinguaItaliano
Data di uscita19 gen 2023
ISBN9788822768018
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    Anteprima del libro

    La società della neve - Pablo Vierci

    1

    Marzo 2006: ritorno alla montagna

    Salire fino al ghiacciaio nella Valle delle Lacrime nel marzo del 2006, dov’è sepolta la fusoliera dell’F571 caduto nel 1972 sulla falda di Sierra San Hilario, in mezzo ai vulcani Tinguiririca e Sosneado, è un’esperienza temeraria.

    Richiede un lungo tragitto, con una lenta ascensione di due giorni a cavallo lungo sentieri improvvisati dagli stessi cavalli o dalle capre, largo meno di mezzo metro, al fianco di un precipizio, su una cordigliera dove paesaggi e altezze mutano in continuazione, ma dove le vertigini per il rischio imminente sono sempre presenti. Si avanza lentamente, passo dopo passo, che sia sul terreno di montagna o quando si attraversano i torrenti di acqua impetuosa e gelida che scendono dalla cordigliera e al loro passaggio trascinano via tutto con sé. Sembrano persino volersi portare via i cavalli e i muli, che barcollano ma non cadono, poiché puntano gli zoccoli tra i ciottoli sul fondo prima di compiere il passo successivo. Alcuni cavalcatori procedono a occhi chiusi per scacciare la paura, affidandosi all’istinto degli animali.

    Di tanto in tanto, spunta un’immagine o un imprevisto che spaventa. Tempeste di vento e di neve irrompono all’improvviso. Un mulo scivola giù per diversi metri, scalciando in un polverone che non permette di vederne l’esito, finché non riesce a incastrare gli zoccoli in una sporgenza del pendio, con il fantino rannicchiato e aggrappato alla criniera. Un cavallo inciampa, appoggia un ginocchio sul sentiero e rimane con le zampe posteriori in equilibrio a mezz’aria, sopra il precipizio. Un mulo da soma si spaventa per una raffica di vento e corre all’impazzata tra le rocce, galoppando giù dalla montagna e sballottando i bagagli lungo il tragitto, mentre una guida locale lo insegue al gran galoppo. Le regole stanno cambiando; le vertigini si assimilano al paesaggio. Il gruppo sta per raggiungere la preistoria.

    Quando due giorni dopo si arriva alla Valle delle Lacrime, a quasi quattromila metri di altezza, nel cuore della cordigliera delle Ande, sul confine tra Cile e Argentina, il panorama è spettacolare e terrificante. Sembra un imponente anfiteatro: al centro, sopra un ammasso di rocce, si erge una croce di ferro, dove sono seppelliti i resti delle vittime dell’incidente. A sud si scorge un’interminabile successione di montagne e vette che arrivano fino al Cabo de Hornos, all’estremità del continente. A nord, un paesaggio simile si estende fino a Panama, dispiegando i suoi 7240 chilometri di estensione e modellando una catena montuosa più lunga dell’Himalaya; a ovest, la vista si infrange contro una parete di rocce e ghiaccio di 3820 metri d’altezza, Sierra San Hilario, così imponente da impedire anche solo di immaginarsi l’orizzonte. Dalla parte opposta, a est, si ritorna in Argentina, da dove è arrivato il gruppo a cavallo. Le sconfinate vette innevate terminano, nella nebbiosa lontananza dell’est, con la più alta di tutte: il vulcano Sosneado, di più di cinquemila metri di altezza. In mezzo a questo scenario da fine del mondo, regna un silenzio inorganico, lacerato di tanto in tanto dalla violenza del vento e dal crepitio del ghiacciaio.

    È necessario abbandonare i cavalli, che devono scendere di mille metri prima che il sole si nasconda tra le montagne per non morire assiderati. Dopodiché, il gruppo deve camminare per altri ottocento metri a ovest della croce di ferro fino al punto esatto in cui è sepolta la fusoliera del Fairchild, in mezzo al ghiacciaio. Manca l’ossigeno, ogni passo richiede uno sforzo superiore al precedente. Nausea, confusione ed emicrania, il mal di montagna comincia a insinuarsi tra i meno abituati all’alta quota.

    Nel gruppo sono presenti quattro sopravvissuti dell’incidente del 1972: Roberto Canessa, Gustavo Zerbino, Adolfo Strauch e Ramón Moncho Sabella. Li accompagna Juan Pedro Nicola, i cui genitori morirono nello schianto. Come tutti i componenti, anche lui ha portato suo figlio, per fargli vedere la tomba dove riposano i resti dei nonni e di tutti gli altri mai tornati. Il figlio osserva suo padre, che è assorto, con lo sguardo perso sulle cinque guglie di pietra dove si schiantò l’aereo.

    Quando il ghiacciaio è vicino, e la parete di neve della Sierra San Hilario aumenta di dimensione, i membri del gruppo devono legarsi l’uno all’altro in cordata e agganciare i ramponi alle suole degli scarponi prima di continuare la scalata. Il ghiacciaio, con la fusoliera al centro, è proprio lì, attraversato da parte a parte da crepe di venti e trenta metri di profondità, nascoste da sottili strati di ghiaccio. Tre alpinisti esperti delle Ande aprono la fila, tastando il terreno con lame e bastoni. I quattro superstiti li seguono a qualche metro di distanza.

    Il paesaggio che Gustavo Zerbino vide il 13 ottobre del 1972 alle 15:35, qualche istante dopo l’incidente, quando la fusoliera sfasciata si arrestò in mezzo al ghiacciaio dopo essere scivolata a gran velocità, zigzagando, schivando cumuli di rocce che spuntavano dalla neve sopra il pendio, è cambiato poco in questi trentaquattro anni. La prima cosa che vide, a sud, furono le chine scoscese ricoperte di neve e sormontate in cima dalle punte di pietra che Juan Pedro Nicola aveva appena osservato. Le più alte sono quelle alle estremità, l’ala sinistra andò a sbattere contro una di esse, e contro quelle centrali la pancia dell’aereo, mentre questo avanzava con i motori alla massima potenza nel disperato tentativo di sottrarsi a una collisione che, a quell’altitudine, una volta smarrita completamente la rotta, risultava inevitabile. Verso ovest, la parete rocciosa coperta di neve, osservata dal punto in cui si trova la fusoliera, sembra conficcata in posizione verticale, umanamente irraggiungibile, tranne che non si tenti un’impresa al di là di ogni logica, o a meno che non si viva in una società sconosciuta.

    Il 13 ottobre del 1972, alle 15:37, Gustavo Zerbino, all’epoca diciannovenne e appartenente al gruppo dei più giovani, provava lo stesso che prova adesso. Gli mancava l’aria, non aveva forze, l’emicrania lo tormentava ed era molto confuso. Ne era uscito illeso, e doveva aiutare il suo amico Roberto Canessa, della stessa età, a uscire dalla trappola in cui era bloccato, immobile, sotto due sedili sradicati che lo tenevano incastrato fra lamiere taglienti e appuntite. Subito i due iniziarono a rimuovere i sedili che immobilizzavano sia i feriti, sia quelli rimasti incolumi. Per spostare alcuni cadaveri incastrati tra le lamiere accartocciate e le macerie della fusoliera, dovettero legarli per i piedi con le cinture di sicurezza e trascinarli in quattro fin fuori sulla neve, per disporli a pancia in giù, appena a tre metri dal disastro.

    Gustavo si lanciò con determinazione per aiutare dove poteva. Non c’era tempo per pensare, ma solo per collaborare con Roberto che, mentre si prendeva cura di un ferito, tastava il polso di un moribondo, poco prima di realizzare un laccio emostatico di fortuna per evitare che Fernando Vázquez morisse dissanguato, lo stesso Fernando a cui l’elica dell’ala destra, che era schizzata fuori di colpo e aveva urtato contro il velivolo, aveva reciso una gamba. Dopodiché raddrizzò la tibia rotta di Álvaro Mangino, la rimise al proprio posto e lo allontanò dal luogo dell’incidente: era già stato soccorso. Adesso toccava al prossimo, un compagno rannicchiato tra le lamiere, tremante, con una ferita allo stomaco. D’un tratto si scostò per mostrare a Gustavo il tubo di metallo conficcato nelle viscere.

    «Non mi fa male, ho solo freddo», gli disse Enrique Platero.

    Oggi è tutto intatto. Come se il tempo si fosse congelato. Non c’è ruggine sui resti dell’aereo sparpagliati sul posto. L’ala sinistra, spezzata a metà nel punto esatto in cui si trovava l’elica, sfoggia con nitidezza le scritte di un tempo, il luogo di fabbricazione, la data, le indicazioni tecniche. Il cielo tutt’a un tratto si rannuvola e il gruppo decide di ripercorrere gli ottocento metri fino all’ammasso di pietre dove si trova la croce di ferro, accanto alla quale sono state montate due tende da alta montagna.

    Nubi scure avanzano minacciose, presagio di vento e bufere di neve, che scuotono le tende come se volessero sradicarle dal suolo. Adolfo Strauch, che nel 1972 con i suoi ventiquattro anni faceva parte del gruppo dei più grandi, annuncia l’imminenza di una valanga. Osserva con attenzione e in seguito all’avvertimento spiega a sua figlia, Alejandra, come si verifica una gigantesca frana di neve accumulata sulla grande parete a ovest, che al suo passaggio lascia un fragore e una scia di vapore. Ma ora sono al sicuro, a ottocento metri dal punto in cui si trovavano i resti dell’aereo nel ’72.

    In piedi, accanto alla croce di ferro, con il braccio appoggiato sulla spalla di Roberto Canessa, Gustavo Zerbino trema come se vivesse in un presente continuo. La notte precedente, al campo base El Barroso, in una tenda da alta montagna che ha condiviso con uno dei suoi figli, a metà strada per la Valle delle Lacrime, non è riuscito a dormire, tormentato dalla nausea e dagli incubi. Al sorgere del sole, monta sul suo cavallo e sale in silenzio, addentrandosi nel tempo. Quando giunge alla Valle delle Lacrime, è già a bordo dell’F571. Il suo racconto, adesso, è soffocato dai sospiri, incrinato da ricordi così vividi da arrivare a compiere un passo indietro, come fece nel 1972 per uscire dai resti spettrali dell’aereo sfasciato.

    Nell’istante in cui il velivolo andò a sbattere contro la punta di pietra, alle 15:30, dopo un vuoto d’aria interminabile, si slacciò la cintura di sicurezza in modo inconscio e si alzò in piedi in mezzo al corridoio, impugnando con tutte le sue forze i supporti metallici che separavano le cappelliere, per non volare via con il colpo. Avvertì l’impatto, poi le raffiche di vento gelido e neve che lo colpivano sulla testa, sulla schiena e sulle gambe, e contò i secondi interminabili in cui la fusoliera spezzata dell’aereo slittò sul ghiaccio, fino ad arrestarsi di colpo, scaraventando sedili e passeggeri contro le cappelliere e la cabina di pilotaggio.

    Roberto Canessa sentì l’impatto dell’ala contro le rocce e si aggrappò con tutte le sue forze al sedile davanti. Gli affiorano con violenza alla mente immagini sconnesse, confuse, che lo condussero a un unico epilogo: era protagonista di un incidente aereo sulla cordigliera delle Ande. Da un momento all’altro si sarebbe schiantato contro la montagna e avrebbe scoperto cosa si nasconde dall’altra parte della vita.

    2

    Abbandonati

    Roberto Canessa

    Non so se fu un qualche scienziato pazzo e dannato ad aver detto: «Invece di mandarci dei porcellini d’India, mandiamo degli esseri umani tra i ghiacci. Che siano giovani, in modo da resistere più a lungo e non morire a causa delle malattie che si portano dietro. Togliamo loro l’ossigeno nell’aria, così che vacillino e soffrano di allucinazioni. Saranno per la maggior parte universitari, per vedere se riescono a ingegnarsi, per vedere come si organizzano, come lavorano in gruppo, come pianificano e risolvono i problemi in maniera creativa. Mettiamoci degli sportivi, e vediamo se sono in grado di resistere settantadue giorni, mentre prima tre e poi due di loro provano a camminare per dieci giorni evitando l’abisso, arrampicandosi su e giù per la montagna fino a raggiungere la vallata. Scopriamo, in questo inquietante laboratorio, come si crea la società della neve. Per vedere fino a che punto resistono, quanto riescono a sopportare. E se resistono fin qui, intirizziti dal freddo, prossimi al panico, allora aggiungiamoci un’ulteriore trappola, ancora più crudele, se possibile più umiliante, affinché scendano fino al fondo stesso dell’abisso, e più si addentreranno in profondità, peggio sarà».

    La cosa più perversa di questo esperimento è che so riferire cosa pensava quel porcellino d’India sottoposto a un simile castigo. Io, e gli altri quindici sopravvissuti.

    La prova risulta ancora più sinistra perché possiamo osservare come la cavia sperimenta, per tentativi ed errori, come commette errori, come trova la casella sbagliata e, piena di speranza, crede di intravedere l’uscita, crede di sentire gli aerei di soccorso, e invece è solo un miraggio. La vediamo dirigersi a sud e per poco non morire stremata, diventare quasi cieca; poi scende a est e per poco non congela. Che imparino dai loro errori, con la peculiarità di provarci e riprovarci, ostinati, senza perdersi d’animo, continuando ad avanzare, foss’anche dalla parte sbagliata.

    Continuiamo a umiliarli, tendendo la corda fino all’impensabile. Che inizino a mangiare per prima cosa i muscoli dei cadaveri e poi si vedano obbligati a procedere con le viscere, fino ad arrivare ad aprire i crani per raggiungere il cervello.

    Vediamo quanti rimangono indietro lungo la strada, a chi toccherà andare in cerca dell’ultima via d’uscita, nel cammino improvvisato verso ovest.

    Nella società della neve, le norme erano completamente diverse dalla società dei vivi, in quanto ciò che si apprezzava non era qualcosa di materiale, bensì di intangibile, come l’essere tutti uguali, pensare al gruppo, essere solidali, elargire affetto o alimentare illusioni. Per questo ciò che più desidero compiere nella vita è riscattare quella società di montagna, quel singolare esperimento sul comportamento umano che ha avuto successo basandosi sui cinque concetti più semplici che possa immaginare: squadra, perseveranza, affetti, intelligenza e, soprattutto, speranza. Tuttavia, per riprodurre il modello, devo conoscerne la chiave, decifrarne i misteri.

    Non riesco a immaginare miseria né umiliazione più grande di quella che vivemmo sulla montagna. Eppure abbiamo fatto ritorno dalla morte, ed eccoci qui. Ci chiedete di raccontare. Sono in molti oggi a scalare quella stessa cordigliera, e noi possiamo prestare loro le scarpe che ci hanno aiutato a uscire da quella trappola.

    Siamo tornati nella società convenzionale, ma l’abbiamo fatto attribuendo alla vita un valore diverso, sapendo che un bicchiere d’acqua può equivalere a parecchie ore di duro lavoro per sciogliere la neve con i raggi del sole che filtrano tra le nuvole. Che qualsiasi pezzo di pane raffermo è infinitamente meglio di ciò che avevamo da mangiare sulla montagna; che il materasso più duro e sudicio è di gran lunga più morbido del pavimento di metallo sfasciato e ammaccato di una fusoliera ghiacciata. E che se ho tutte queste cose, sono una persona ricca, ho quanto serve per vivere e il resto dipende da me, perché l’aereo può cadere in qualsiasi momento, e a quel punto ti rendi conto di tutto ciò che avevi e che hai perso.

    Il mondo ci credeva morti, e a ragione. Ma noi avremmo provato in tutti i modi a tornare e, se ci fossimo riusciti, avremmo chiesto alla società di lasciarci entrare. E quando poi spuntammo dalla bruma, si sentì colpevole o ignorante, perché quanto aveva previsto si era rivelato sbagliato, e per questo ci accolse e accettò malvolentieri i nostri racconti.

    Eravamo stati abbandonati dalla società, e tuttavia le nostre famiglie, con un’ostinazione irrazionale, ci cercavano. Io, per esempio, inviavo messaggi con la mente alla mia fidanzata Lauri perché andasse avanti con la sua vita, perché non soffrisse, perché non credesse nel mio ritorno e si liberasse dalla tristezza di amarmi e rimanere ancorata a quell’impossibilità.

    Mio padre mi cercava perché sapeva che se fosse stato lui a perdersi, io avrei fatto lo stesso fin sotto all’ultima pietra, fino all’ultimo giorno della mia vita. Mia madre mi cercava perché sapeva che ero vivo, e il padre di Lauri, Luis Surraco, mi cercava per consolare sua figlia, per dirle la stessa cosa che le dicevo io: «Non piangere più, Lauri, ricostruisci la tua vita, il tuo fidanzato non esiste più, se non nelle fotografie e nei ricordi». Quando mio padre e Luis vennero a cercarci sulla montagna, la mia ragazza diede a suo padre un paio di calze di lana molto spessa, un giubbotto e delle medicine per lo stomaco, e gli disse: «Roberto ha molto freddo, e con le lamiere dell’aereo che si è schiantato contro la montagna si sta costruendo un riparo». Perché lei, proprio come mia madre, è sempre stata convinta che fossi vivo, e che fossi intirizzito dal freddo, il che era vero; sarà per questo che durante i settantuno giorni sulla montagna indossai il maglione di lana spessa che lei aveva realizzato per me un anno prima. Mia madre, ancora oggi, quando è con me, segue con lo sguardo ogni mio movimento, perché non vuole perdermi una seconda volta. Dunque, cos’era giusto? La verità razionale di mio padre e Luis Surraco, o il sentimento irrazionale di mia madre e della mia fidanzata? Era tutto così scombussolato che la razionalità si intrecciava con l’impossibile, e l’utopia superò la realtà.

    Poiché non era mai accaduto prima, per la società era impossibile che ci fossimo schiantati contro la montagna e fossimo ancora vivi, era impossibile che potessimo sopportare il freddo, era impossibile attraversare quel muro di neve, rocce e ghiaccio, e ancora più impossibile era proseguire il cammino, quando ci ritrovammo alle spalle un’infinità di monti bianchi invece delle vallate verdi che ci eravamo immaginati. Era impossibile, sì. Ma la storia delle Ande è un susseguirsi di chimere, di situazioni inammissibili.

    Quando saltò fuori l’idea di nutrirci dei cadaveri, non mi risultò nuova. La base teorica mi era già familiare, perché avevo letto qualcosa sul metabolismo a Medicina, la facoltà che frequentavo. Conoscevo il ciclo di Krebs, sapevo che le proteine si possono trasformare in zuccheri e il grasso può diventare proteina, e che avremmo potuto sopravvivere con un’alimentazione a base di sola carne senza cedere all’inedia. E lì c’erano le proteine dei corpi dei nostri amici, ma non avevo il permesso di toccarli, con l’ulteriore disperazione di non poterlo chiedere a loro, perché ormai erano morti.

    Questo finché non trovai pace per le nostre coscienze, quando venne spontaneo dire che, se fossi morto, avrei donato il mio corpo agli altri affinché se ne servissero, affinché le mie braccia aiutassero e le mie gambe camminassero e i miei muscoli si muovessero e partecipassero al progetto di vivere.

    Nel rendermi conto che io stesso avrei potuto diventare parte del capitale di cibo per quelli ancora vivi, non mi restava altro da fare che tagliare un pezzo e inghiottirlo. Era il momento di passare all’azione che tutti continuavamo a rimandare e schivare, e io sentii di far parte del gruppo che avrebbe dovuto eseguire l’atto, insieme a Adolfo Strauch e Gustavo Zerbino. Era una staffetta, in quel momento toccava a me correre e portare il testimone, perché un giorno o l’altro avrei potuto ritrovarmi tra coloro che non potevano più proseguire, nel qual caso avrei sì proseguito, ma nel corpo degli altri, come quasi mi successe nella valanga.

    Compiere quel passo fu gigantesco, sebbene dovemmo percorrere solo qualche metro per arrivare alla parte posteriore della fusoliera spezzata, perché le conseguenze sarebbero state irreversibili, non saremmo mai più stati gli stessi. Un passo difficile da comprendere in tutte le sue sfaccettature. A partire dal fatto di slacciare i vestiti che spesso uno riconosceva e incidere un taglio impossibile nella carne congelata. Un salto nel vuoto. Fu una tragedia perfino più grande dello schianto dell’aereo, perché quando quest’ultimo andò a sbattere contro la montagna fu un’aggressione esterna, mentre tagliare i corpi fu una nostra iniziativa.

    In quel momento mi sentii la persona più miserabile del mondo e mi chiesi cosa avessi fatto di male per vedermi costretto ad assumere un comportamento così umiliante. Quelli che ci osservavano dalla fusoliera condividevano con noi quella profonda tristezza. Tutti vivemmo quel momento di degradazione: mangiarsi la morte. E per questo tutti noi morimmo un po’ quel giorno.

    Pensai a mia madre, la quale poco tempo prima, in seguito all’incidente di altri tre compagni di scuola morti annegati per il ribaltamento di una canoa nel Río de la Plata, di fronte alla spiaggia di Carrasco, aveva affermato con grande convinzione che lei non avrebbe mai potuto sopportare la perdita di un figlio, che non sarebbe riuscita a tollerare la tragedia che quelle tre madri stavano vivendo, percorrendo le spiagge in sogno, giorno e notte, illuminate dalle lanterne, sperando nel ritorno dei figli. Non potevo deluderla. Ciascuno dei miei compagni aveva una motivazione forte quanto la mia, o persino di più, che lo spingeva a mangiare il primo boccone. Smettemmo di essere quei giovanotti allegri per trasformarci in quegli esseri antichi, giovani-vecchi, con lo stigma dell’antropofagia, per continuare a scivolare giù fino a scoprire che il limite non ha fondo, perché quest’ultimo compare solo quando muori.

    Iniziammo a conoscere la montagna, come quando scoprimmo che se il vulcano chiamato Sosneado, a est, si copriva di nubi, quella notte sarebbe arrivata una tempesta e avremmo tremato di freddo e paura, perché la montagna avrebbe ruggito all’impazzata. Imparammo che le valanghe che vedevamo cadere qua e là non ci avrebbero raggiunti, ma ci sbagliavamo, perché una valanga ci seppellì e ci toccò ricominciare tutto da capo.

    Continuavamo a precipitare a poco a poco in un pozzo senza fondo. Perché nelle prime ore dopo la valanga dovemmo nutrirci dei corpi dei compagni che ci giacevano accanto. Sapevo che se non avessi compiuto quel passo e non avessi mostrato ai miei compagni che quella era la strada da seguire, saremmo rimasti paralizzati. Sentivo di dover procedere e fare cose che mai nella mia vita mi sarei immaginato di fare, il tutto sommato al dolore che ciò avrebbe causato alle famiglie di quelli che non sarebbero mai tornati. Forse la medicina mi ha permesso di vedere la situazione dal punto di vista di un chirurgo, il quale sa che nell’aprire il ventre ed estrarre un organo riesce a separare la parte fisica da quella spirituale.

    Sepolti vivi imparammo ad aspettare. Come una regressione così intensa che tornammo a essere semi: una potenziale vita che non sai se davvero germoglierà. Ancora una volta le regole del gioco erano cambiate bruscamente, senza consultarci. Dall’essere la nostra casa e il nostro rifugio, la fusoliera si trasformò in una trappola mortale che aspettava in agguato per tradirci da un momento all’altro.

    A un certo punto, pensai che in quella terra di nessuno stavamo regredendo a bestie selvagge, che stava predominando la nostra parte animalesca, la quale avrebbe annichilito l’altra. Ma mi sbagliavo. Perché, sebbene sia vero che fummo costretti a compiere un atto inusuale per qualsiasi animale, ossia mangiare esemplari della propria specie, lo facemmo tramite un patto di nobile generosità, essenzialmente umano e che ancora oggi mi commuove: io potrei essere il tuo cibo di domani. E sulla montagna assistetti a gesti di generosità e devozione come non ne ho mai più visti in vita mia. E quei gesti, in particolare quelli dei feriti gravi, i quali sapevano che sarebbero morti, ti obbligano a dare tutto te stesso, fino all’ultima goccia del tuo sangue.

    Quando facevo ritorno alla fusoliera dopo le spedizioni alla coda dell’aereo e vedevo quanto deperiti e stravolti fossero i miei amici, con i capelli lunghi e ispidi, la sporcizia accumulata e i volti così emaciati, caratterizzati dalle occhiaie, con l’osso dell’arcata sopraccigliare sporgente e le guance scavate, mi tornavano alla mente le illustrazioni di quel libro di Charles Dickens, Racconto di due città, in cui i bambini avevano la faccia da vecchi. Eravamo scheletri viventi ricoperti di pelle, con le labbra secche e screpolate e un odore di cimitero sempre addosso.

    Conosco entrambi i gruppi, perché all’inizio facevo parte della comunità dell’aereo, aiutavo in tutto ciò che mi era possibile, ero addirittura quello che curava i feriti con la collaborazione di Gustavo Zerbino e Diego Storm. In seguito, potei osservare com’era quell’altro mondo al di fuori dell’aereo, quando dovetti accudire Gustavo il giorno in cui tornò distrutto dall’escursione verso la montagna a sud. Aveva perso la vista, si sentiva la sabbia negli occhi; dovevo masticare la carne e mettergliela in bocca già sminuzzata perché i suoi denti si erano indeboliti, dovevo strofinargli i piedi perché erano congelati e non se li sentiva più.

    Uno degli amici, Arturo Nogueira, con le gambe rotte, mi disse: «Che fortuna la tua, Roberto, che puoi camminare per gli altri». Fu allora che mi resi conto di essere la persona giusta per farlo. E una volta abbracciata quell’idea, piano piano diventi i sogni e le speranze degli altri, cammini per te e perché il resto del gruppo ha riposto in te una fiducia che nemmeno tu stesso hai, perché gestisci un insieme di informazioni e una realtà che loro non possono conoscere né percepire.

    Iniziarono così i preparativi per la spedizione finale, una cosa materialmente possibile, seppur all’apparenza impossibile. Allora pensai: Farò la mia parte e chiederò a Dio, qualora voglia aiutarci, che lo faccia. Se mi mette davanti una parete, che almeno abbia delle fessure per poterci piantare le unghie e scalarla. Se piazza una trappola lungo il cammino, che almeno mi lasci un passaggio per schivarla.

    Poco dopo arrivò il momento della verità, quando non ci furono più candidati per attraversare la cordigliera. Nando si era preso l’impegno di andarsene di lì, aveva l’impellente necessità di tornare da suo padre e dirgli che non tutto era perduto dopo la morte di sua madre e sua sorella. Tintín era già partito per altre spedizioni e si sentiva a suo agio e forte in quegli spostamenti, avanti e indietro. Gli piaceva spingersi oltre i propri limiti, e per questo quell’ultima camminata, quei sessanta chilometri, o centomila passi, Tintín non esitò a intraprenderla, perché era disposto a dare tutto se stesso, nonostante quei due litri di sangue persi nel momento dell’incidente, che formarono un gigantesco coagulo dal quale non si riprese mai del tutto.

    Quella società della neve era colma di attimi sublimi, che da un momento all’altro avrebbero potuto gettarti nuovamente nell’incertezza profonda. La notte migliore, e allo stesso tempo una delle peggiori, fu quella del sessantunesimo giorno, il primo della spedizione finale, quando io, Nando e Tintín stavamo scalando il gigantesco pendio. Ci eravamo arrampicati per tutto il giorno, con un’inclinazione che ci provocava le vertigini. Continuammo a salire nel pomeriggio, ma si fece buio di colpo e iniziò a soffiare un vento gelido. Avevamo i pantaloni bagnati, che presero a congelarsi, e non riuscivamo a trovare un posto in cui ripararci per riposare e, nel caso, dormire. La notte stava ormai calando e con essa non avremmo più visto dove mettevamo i piedi, in mezzo alle crepe e alle scarpate. Ma proprio quando lo sconforto ci aveva sopraffatti e piangevamo dalla frustrazione perché non saremmo riusciti a mantenere la nostra promessa di vivere e portare la vita ai nostri amici, ecco che in un angolo nascosto della montagna, inaspettatamente, trovammo un piccolo spiazzo di pietra, due metri per due, con ghiaccio e neve, dove potemmo stendere il sacco a pelo sopra i cuscini che ci isolavano dal freddo. Non riuscivamo a crederci, e faticammo a crederci anche quando il vento si calmò all’istante, spuntò la luna e davanti a noi si aprì quella valle di bianco infinito in cui si trovava l’aereo, le stelle erano così vicine, e io pensai: Non è possibile che tutto questo sia così bello, che io mi stia godendo questa vista, con la Cintura di Orione e la luna così vicine. Eppure era vero, quella notte mi sentii privilegiato perché mi trovavo in quel posto, sentivo di essere l’unica persona, insieme ai miei due compagni, in grado di vedere l’universo da quella prospettiva. Pensai alla luna come a uno specchio in cui vedere casa mia, e sentii che sarei riuscito a vederla di nuovo a Montevideo, mentre solo pochi minuti prima avevo creduto che la vita stesse per finire.

    Imparai una volta per tutte che quando ti senti perso nell’immensità, è solo una sensazione.

    Esistono uomini per ogni circostanza. In tal senso, Nando, Tintín e io costituivamo una squadra di montagna. Loro facevano molto affidamento sulle mie opinioni, e io sulla volontà irrefrenabile di Nando di proseguire e sull’approccio senza riserve di Tintín di fronte alle decisioni prese, il che diede vita a una efficiente simbiosi. In seguito, io e Nando formammo una coppia ben assemblata e complementare. A essa si aggiunse, alla fine, il mulattiere Sergio Catalán, che in estate portava le vacche a pascolare alla veranada, come la chiamavano i pastori, una zona dove qua e là, tra il ghiaccio, crescevano verdi e freschi pascoli, dove gli animali si riproducevano. Per questo lui li conosceva da generazioni, le madri e i cuccioli, e doveva badare costantemente a loro perché i puma li perseguitavano. Come poteva abbandonare una mucca o un vitello che allevava da tutta la vita? Aveva un attaccamento agli animali difficile da comprendere per chi non sta sulla montagna. E non riesco a smettere di ricollegare questo fatto alla sua reazione di fronte a noi. Come poteva abbandonare due giovani cenciosi, che avanzavano incespicando dopo aver attraversato la cordigliera, quando lui stesso era un uomo di montagna, un sopravvissuto? Per questo ebbe la nobiltà e la misericordia di aiutarci, e di compiere lui stesso una traversata per salvarci. Ho sempre creduto che non ci sia stato nulla di casuale nell’incidente. E che se quello stesso episodio fosse accaduto nelle vicinanze della civiltà, e non sulla precordigliera andina dimenticata da Dio, se avessimo provato a fermare qualcuno su un qualche sentiero per chiedere aiuto, è probabile che non avremmo avuto tanta fortuna. Invece incontrammo un uomo buono e semplice come Sergio Catalán, che fu capace di lasciare il proprio lavoro, abbandonare le vacche alla mercé dei puma, viaggiare per otto ore a cavallo, salire su un camion del Ministero dei Lavori Pubblici per arrivare, cinquanta chilometri dopo, a Puente Negro, dove si trovava un posto di blocco di carabineros, al solo scopo di aiutare degli sconosciuti.

    A volte mi capita di vedere i filmati che ripresero me e Nando quando arrivammo a Los Maitenes dopo essere stati salvati dal mulattiere. Ho uno sguardo curioso, che prima si focalizza sul mio interlocutore, ma subito dopo si perde e si astrae, rivolto a un punto diverso. Sto rispondendo alle domande e d’un tratto mi guardo intorno e non ascolto più cosa mi stanno dicendo. Non bisogna solo ascoltare la voce di Nando quando dice: «Sì, stiamo bene», ma bisogna osservare tutto il discorso parallelo del suo viso, dei suoi occhi, che dicono una cosa totalmente diversa. E nell’istante in cui gli chiedono quanti sono in famiglia, la telecamera mi inquadra e il mio sguardo si perde di nuovo.

    Arrivammo a Los Maitenes a piedi come fantasmi, e la società caduca e disorientata che non ci aspettava più ci ricevette con voracità, perché tornavamo dalla morte. Quella era la sua unica motivazione e la sua grande curiosità.

    Ci eravamo tanto abituati a fare tutto da noi che pensavamo, una volta fuggiti dalla montagna, di dover arrivare a Santiago e cercare una stazione ferroviaria, e per questo avevamo messo da parte dei soldi per il biglietto di un treno che valicasse la cordigliera fino a Buenos Aires, e da lì attraversare il Río de la Plata su una qualche barca e arrivare, magari a piedi, fino alle nostre case per suonare il campanello, aprire la porta e dire alle nostre famiglie che eravamo vivi. Ma non ci aspettavamo di incontrare il mulattiere, né che il mondo avesse tanto bisogno di rimediare al proprio torto.

    Sembra un’allegoria: se quei giovanotti inesperti e ingenui sono sopravvissuti all’incidente del ’72 e hanno superato la barriera delle Ande, la vita non può essere così difficile. Questo è il ragionamento di tutta quella gente bisognosa di coraggio, di credere in se stessa, che viene in questa Valle delle Lacrime in cerca di qualcosa che non conosce, a quasi quattromila metri di altezza, dove il vento soffia inesorabile, l’ossigeno non basta per respirare e il corpo non si riscalda mai del tutto. Vengono qui per chiedersi come abbiamo fatto a sopravvivere e se ne vanno con una risposta così semplice da lasciarli sorpresi: non abbiamo mai abbandonato il progetto di fuggire, abbiamo sempre creduto con tutte le nostre forze che qualcosa di straordinario era possibile. Invece di ancorarci ai ricordi, siamo andati avanti.

    Attualmente non vivo in montagna, anche se non riesco a liberarmi di lei. A uno dei miei figli hanno chiesto, in un programma televisivo, se ammirasse suo padre per la vicenda delle Ande, e lui ha risposto: «Non lo so, perché all’epoca non ero ancora nato, però lo ammiro perché va a lavorare ogni giorno per evitare che a noi manchi il necessario per vivere».

    Abbiamo la possibilità di vivere la vita di coloro che non hanno avuto l’opportunità di farlo, tutti quelli sepolti qui vicino a questa croce di ferro. E per rendere loro giustizia devo condurre una vita dignitosa, in modo che quando morirò, dopo i tanti errori commessi, possa dir loro: «So che non è stato sufficiente, ma ho fatto del mio meglio».

    Chi eravamo? Un gruppo di giovani disgraziati. Chi siamo? Un gruppo di adulti che cerca di dare un senso a una grande tragedia che ci è capitata. Non ho mai creduto di avere un dono speciale per il solo fatto di raccontare questa storia. Sono andato all’Università di Harvard a parlare di medicina e lì ho ottenuto una risposta, giusta, ponderata: mi hanno ascoltato e basta. Ma se parlo delle Ande, li commuovo, piangono, domandano, mi abbracciano. Perché è una storia che chi la ascolta si porta nell’anima: se ne va con molto di più di ciò con cui è venuto. Io non sono altro che la voce narrante, con l’aggiunta di essere stato lì, sono la prova vivente che è successo davvero.

    Sulla montagna è rimasta una forma di sopravvivenza che abbiamo dovuto sviluppare e mettere in pratica. Mi ricordo chiaramente come crepitava la neve sotto i nostri piedi o quando ci sprofondavamo dentro fino al ginocchio durante le spedizioni fallite, o in quella finale, esausto, quando i miei muscoli ormai non erano più in grado di rispondere. È rimasto il freddo dei pomeriggi, il vento gelido quando il sole tramontava, il ruggito delle valanghe, l’impotenza.

    È rimasto sulla montagna l’impegno a non lasciarci contagiare dall’orgoglio e dalle vanità della società convenzionale da cui provenivamo. Quella comunità incontaminata di amici che si abbracciavano e si chiedevano scusa quando qualcuno alzava la voce, o si arrabbiava, perché lo stress che vivevamo era insopportabile ma ci addolorava di più l’angoscia di esserci comportati male. È rimasta la filosofia degli uomini di montagna, quel codice dei mulattieri di darsi una mano anche se ciò significa mettere a rischio la propria vita.

    Tornare sulla montagna è come ritornare ai miei diciannove anni. Osservo da questa altezza ciò che mi è toccato di vivere e mi dispiace molto che non sia stato possibile tornare qui tutti insieme oggi, che loro non abbiano potuto compiere il proprio destino, che siano rimasti intrappolati così presto in questa insidia. E così, mi sembra che ciò che loro non hanno potuto fare, noi facciamo in modo che si compia. Hanno fatto molti sforzi per sopravvivere. Si sono impegnati a fondo per fuggire dalla montagna e noi ci siamo fatti in quattro per farli sopravvivere, ma non abbiamo avuto la forza sufficiente per tirarli fuori di qui. Vi chiedo perdono, e di accettare, in pace, che viviamo per voi.

    Roberto Canessa è nato nel 1953. Si è laureato in Medicina come suo padre, percorso di studi iniziato nel 1971, e si è specializzato in cardiologia pediatrica. Ha ricevuto due volte il Premio Nazionale per la Medicina. Si è sposato con la fidanzata di allora, Lauri, con cui ha avuto tre figli: il maggiore, Hilario, è stato chiamato così in onore della montagna di più di cinquemila metri che scalarono. Il secondo, Roberto, studia Medicina come suo padre, e Laura Inés lo accompagna nei suoi viaggi sulla montagna con il suo stesso impeto e la stessa audacia.

    Ha costruito una casa simile a un labirinto che si ramifica in varie direzioni. La porta che dà sulla strada non è mai chiusa a chiave, motivo per cui c’è gente che entra ed esce di

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