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Il serenissimo borghese
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E-book287 pagine

Il serenissimo borghese

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Info su questo ebook

"Il Serenissimo borghese" è il racconto dell'ascesa dell'ultimo Doge, Lodovico Manin, e della sconfitta della Serenissima per mano di un giovanissimo e spregiudicato Napoleone Bonaparte attraverso le vicende del nobiluomo e della sua famiglia. Le residenze cittadine, quanto quelle di campagna, sono muti e affidabili testimoni di una società che lotta per mantenere i suoi privilegi, cercando disperatamente quanto inutilmente di non cambiare. Elisabetta, moglie di Lodovico e perciò chiamata la Dogaressa, emerge come il personaggio più complesso, più vero, in aperta antitesi e quasi in opposizione, a volte, con le sue crescenti e a tratti imbarazzanti crisi emotive, a una Venezia corrotta e persino vigliacca, ma certamente intenzionata a non perdere neppure un centimetro del terreno guadagnato nei secoli. È la storia di una vita lunga e per certi versi difficile pur nella levità dell'essere patrizi e di averne piena coscienza, ma anche di scelte obbligate e di altre, non meno forzose, ma più libere e mature, perché in fondo solo esse permettono all'uomo, prima che al politico, di riconciliarsi con se stesso e con la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2017
ISBN9788868511623
Il serenissimo borghese

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    Il serenissimo borghese - Alberto Frappa Raunceroy

    Alberto Frappa Raunceroy

    Il serenissimo borghese

    Prima Edizione - dicembre 2017

    ISBN 9788868511623

    © arkadia editore

    Noi fummo i Gattopardi, i Leoni;

    quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti,

    le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore,

    continueremo a crederci il sale della terra.

    Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo

    27 dicembre 1788

    Lo sciabordio dei remi si disfaceva in un disordine di tonfi sordi al diminuire dell’andatura del burchiello, che procedeva a scatti, ostacolato dal ghiaccio sulla superficie della laguna: lo scafo gemeva, come raschiato da lame di rasoi. Nell’ultima ora era avanzato di poche centinaia di passi e il sole tramontava, lasciando il cielo sovrastato da un velario scuro. Elisabetta Grimani rimosse la visione tirando la tendina di velluto dello sportello e volgendosi all’interno della cabina.

    I lumi erano stati accesi e rischiaravano l’ambiente di legno, con pareti imbottite e foderate di damasco. La donna guardò il marito seduto di fronte, con accanto la cognata Caterina Pesaro assopita: il Procuratore di San Marco esaminava fatture spuntando interminabili elenchi di conti come un modesto contabile. Indifferente e placido, quasi dimesso, biascicava sottovoce somme, sottrazioni e moltiplicazioni che esalavano dal labbro inferiore sporgente e umido.

    Terminati i calcoli, sollevava la testa per un istante e, illuminandosi, alzava la voce, sibilando i risultati: «In totale saldate lire 115 al fontanista Marzio Bianchi!»

    La Procuratessa non si rassegnava: come era possibile che, in una situazione del genere, l’uomo che aveva sposato riuscisse a restare così concentrato sugli affari, senza percepire pericolo e nemmeno accorgersi del suo disagio?

    Avvilita, si volse a cercare lo sguardo di don Pietro, intento all’esame di versi del quarto libro del Paradiso Perduto: il cappellano avvertì gli occhi di lei e un po’ imbarazzato accennò un sorriso. Da poche settimane aveva firmato un contratto di assistenza spirituale con i Manin e, trasferendosi nel loro palazzo presso Rialto, si era trascinato dietro casse di libri e faldoni che avevano iniziato a lievitare quando, due anni prima, si era fisso in testa di preparare una traduzione tutta sua dell’opera di Milton. Aveva recitato alcuni versi al Procurator Manin, che se ne era dichiarato entusiasta e lo aveva esortato a proseguire. La concentrazione del prete frenò in Elisabetta l’impulso di parlargli: non aveva sufficiente confidenza con quell’ecclesiastico friulano, rosso di capelli e alto come un pioppo le cui fronde si agitavano per il vento delle elaborazioni letterarie, ma che gli scrupoli delle coscienze lasciavano inerte e, in fondo, si vergognava di dovergli confidare paure quando tutti erano tranquilli.

    Alla sua sinistra i nipoti Lodovico Anchise e Ottaviano dormivano profondamente, come si fossero trovati nelle alcove di San Salvador invece che nel mezzo di una laguna oscura e gelida.

    Sopraffatta da una sensazione di soffocamento, Elisabetta si sollevò dal divano, si sistemò sulle spalle la stola di pelliccia e aprì lo sportello della cabina. Appena fuori, fu investita da una raffica di vento gelido; gemette e aderì alla parete della cabina fino a quando la vista si abituò al buio e riuscì a scorgere gli uomini intenti a vogare: il lavoro aveva perso ritmo e i remi penetravano a fatica nel sottile strato di ghiaccio che, lacerandosi, lasciava presagire l’abisso che si spalancava sotto di loro. A prua, un marinaio sporgeva dallo scafo di tutto il busto e, con lo sforzo della torsione unito a quello del tenersi in equilibrio, era intento a spaccare lo spessore con una lunga mazza ferrata. Fu percorsa da brividi mentre il fiato fumante del respiro l’avvolgeva.

    In quel disagio, le si delineò in mente il divario che correva tra lei e i membri della famiglia cui si era legata tanti anni prima: la loro imperturbabilità rispetto a eventi che la sconvolgevano era pari all’indifferenza che provava di fronte al loro attaccamento agli affari, alle attività economiche e, in generale, a tutto ciò che sapeva di profitto. Aveva le mani gelate, prese a sfregarsele velocemente; a dire la verità, si era pentita di aver accondisceso alla richiesta di suo marito Lodovico di accompagnarlo assieme alla cognata e ai nipoti al funerale di sua suocera, Pisana Basadonna, nel palazzo di famiglia di Passariano. Non amava il Friuli, ma, soprattutto, non amava la villa dove aveva trascorso giorni tristissimi prima e dopo la perdita della sua unica figlia.

    Lo scafo beccheggiò, emanando scricchiolii cui seguirono urla e bestemmie dei marinai: venne nuovamente assalita dalla paura. Il pensiero di trascorrere la notte in un barcone immobile sulla laguna ghiacciata e perso nell’oscurità le dava il terror panico. Iniziò a respirare con affanno, ma intercettò la figura dell’uomo che con la sua prepotente fisicità le aveva sempre fornito sicurezza. Lo chiamò.

    «Alvise, la prego, mi dica, manca ancora molto all’approdo di Mestre?»

    L’uomo, che sovrintendeva al lavoro, ansimava sudato e si voltò sorpreso. «Eccellenza, cosa fa qui fuori al freddo? Torni dentro o si prenderà un malanno!»

    «Alvise, mi dica quanto manca alla terraferma!», insistette.

    «Sua Eccellenza non si deve preoccupare di nulla, le luci dell’abitato di Mestre sono brillanti. Tra un’ora dovremmo essere al porto.»

    Si sentì sollevata: si fidava del gondoliere che serviva la famiglia di suo marito da anni e che, prima ancora, aveva prestato servizio da sua suocera; rientrò all’interno.

    Afferrò il manicotto di ermellino e vi infilò le mani tremanti; incredula, guardò la cognata che dormiva con la bocca aperta e la testa reclinata contro la testiera di velluto. Anche dal suo posto riusciva ad avvertire il sentore di una digestione pesante. Avvicinò il fazzoletto di batista al naso e cercò di trattenere la rabbia. Aveva un impellente bisogno di parlare, di allentare la tensione.

    «Ve l’avevo detto che era meglio celebrare il funerale a Venezia! Che cosa ci andiamo a fare in Friuli con questo tempo, lo sa solo Iddio… E poi, lo sapete, non amo quelle terre.»

    Il marito sollevò lo sguardo dalle carte. «È proprio perché le odiate che non ci andiamo mai. Vi ho forse mai portata in villeggiatura laggiù, negli ultimi anni?»

    «Ma perché il funerale a Passariano? Perché andare, quando pare che tutto il mondo stia gelando? Gli altri sono rimasti a Venezia e…»

    «Elisabetta, queste sono le ultime volontà di mia madre… Lei ha voluto essere sepolta accanto a nostra figlia, sapete quanto ha sofferto nel non vedere giungere eredi da parte nostra…»

    La donna non riusciva a scalfire il guscio di imperturbabilità del marito e rinunciò a controbattere a repliche costruite su placidi e stringenti ragionamenti. Cercò di calmarsi aprendo il suo livre de chevet in quei giorni: si intitolava Del governo dell’anima. Operetta del Serafico dottore San Bonaventura tradotta dal latino.

    Era un testo devozionale destinato alle donne sposate, che le aveva regalato il patriarca Giovannelli. Si sforzò di concentrarsi su alcuni passi. «Nella modestia degli affetti, col moderare il silenzio e la favella.»

    Le frasi che esortavano all’obbedienza maritale, invece di calmarla, la disgustarono.

    Un senso di ribellione la sovrastò e riappoggiò il libro aperto in grembo.

    «Non si è mai vista una cosa del genere! Mai! La laguna, i canali gelati e i pesci morti! È un cattivo presagio. Lo sento!»

    Gli occhi della donna iniziarono a inumidirsi; le sfuggì un singhiozzo.

    Il Procuratore perse la pazienza e additò la cognata assopita. «Calmatevi! Vedete Caterina, come dorme serena? State tranquilla, stanotte dormiremo a Treviso e partiremo per Passariano solo domattina.»

    Aveva perso la sua calma. «Cossa gh’aveu mo adesso, che pianzè? Posso saver cossa ve manca in casa Manin?»

    La donna parve quietarsi a quelle parole e, estratta una corona del rosario, iniziò a sgranare le perle biascicando sottovoce le Ave in latino.

    Cercava di trattenere con la preghiera la rabbia che sobbolliva nei confronti del consorte. Mai, da quando erano sposati, aveva fatto obiezioni a quello che il Procuratore aveva deciso, ma ora cominciava a provare un cupo senso di ribellione nei confronti dell’uomo che, con la sua calma e la sua educazione, le aveva sempre imposto tutto. Quel nuovo sentimento la spaventava e le provocava sensi di colpa e scrupoli morali, al punto che aveva sentito il bisogno di riferirne a don Pietro. Qualche giorno prima aveva superato la mancanza di confidenza e ne aveva accennato in confessione, ma il religioso aveva sorriso a quell’autoaccusa, che aveva immediatamente qualificato come esagerata: che pericolo poteva correre il matrimonio di due persone oramai avanti nell’età? Erano certamente lontani gli anni in cui avrebbe potuto essere minacciato dal fuoco di passioni pericolose.

    La Procuratessa si era scandalizzata della superficiale sottovalutazione dei suoi tormenti e dall’ironica bonarietà con cui il cappellano l’aveva congedata. «Non c’è da preoccuparsi. Preghi! Reciti il rosario! La Vergine Santissima saprà consigliarla!», e, allontanandosi, si era seduto in salotto versandosi un bicchiere di porto da una bottiglia di cristallo.

    La tensione, mai sfociata in litigi, gorgogliava ora nel suo petto; si ripromise che non avrebbe desistito e gliene avrebbe riparlato appena giunti a destinazione, quando, inaspettati, avvertì i sintomi che lei conosceva come premonitori di una delle sue crisi.

    Rifiutò quella possibilità: non poteva essere, non in quel posto, non in quel momento. Sbiancò come uno straccio e sentì le mani gelare. Percepì un distacco dalla realtà e l’arrivo di una lieve frustata, poi un’altra più forte le scosse il corpo dalle gambe fino al petto. Lanciò un urlo. Il marito sollevò il capo, la cognata e i nipoti si svegliarono di soprassalto e don Pietro si scostò spaventato.

    Caterina Pesaro balzò in piedi. «Santa Vergine, è una delle sue crisi!»

    Chinatasi sulla cognata, ordinò al cappellano e al figlio Anchise di farsi da parte. Le cinse il busto mentre Elisabetta, persi i sensi, abbandonava il peso sopra di lei. I nipoti e don Antonutti, colti di sorpresa, si erano raccolti in un angolo e osservavano con raccapriccio. Il loro disgusto rivelava tutta la maschile impotenza al soccorso, che, soprattutto nel prete, confliggeva con l’imponenza della statura. Spasmi e convulsioni ripresero: le gambe, le braccia e la testa della Procuratessa furono scosse da contrazioni violente. Il Procurator Manin, abituato a quel tipo di episodi, non perse la calma e si avvicinò, cavando un fazzoletto dalla tasca; appena prima che la mascella della moglie iniziasse a chiudersi violentemente, glielo infilò in bocca, dove fu istantaneamente serrato dallo sbattere delle arcate dentarie. La crisi epilettica non terminò che a Mestre. Elisabetta, caduta in un sonno profondo, fu teneramente sollevata da Alvise, che, rifiutato l’aiuto di tutti, la trasportò fino alla camera di una locanda.

    I

    Il Procuratore e sua moglie entrarono per ultimi nella cappella palatina e si avvicinarono alla cognata, all’ombra delle nicchie laterali del presbiterio. Elisabetta era spossata dai postumi della crisi; lasciato il braccio del marito si abbandonò sul sedile di legno scolpito. Appoggiò il viso a una panciuta grata rococò, attraverso la quale mise a fuoco il catafalco nero sollevato da teschi dorati che presidiava il cadavere di sua suocera. Il volto ceruleo dal naso aquilino era coperto da un velo di bisso nero. Anche da morta quella donna pareva dominare tutti, e di certo faceva impressione vedere un cadavere incorrotto a tre giorni dal decesso: il freddo era talmente intenso che avrebbe potuto preservarsi per giorni. L’incombente installazione funebre le impediva la visuale dell’interno della cappella, che si elevava su un’aula ottagonale attraversata da tre altari, mossi da statue scolpite in un marmo burroso e marezzato di venature grigio-verdi. Tra quelle volute barocche, germogliate in foglia d’oro e avviluppate come tralci di un’edera voluttuosa alla possanza di un palazzo cresciuto per errore in mezzo a distese di grano e sorgoturco, venivano officiati i battesimi, le cresime e le comunioni dei poveri. Per disposizione di sua suocera, se ne occupava il cappellano dei Manin tranne quando, risiedendo a Venezia, veniva sostituito dal curato della vicina parrocchia di Lonca.

    Don Pietro iniziò a celebrare la messa ed Elisabetta fu investita dall’intenso profumo di incenso che sbuffava da un turibolo d’argento cesellato, che un ragazzino faceva oscillare violentemente con mani luride; sorrise pensando che suo cognato, il canonico Lauro, ne sarebbe inorridito.

    Si volse verso l’aula e i fedeli: centinaia di persone erano arrivate da tutti i paesi vicini. Contadini, artigiani e notabili locali volevano rendere omaggio alla donna che aveva governato la famiglia e un patrimonio incommensurabile con pugno di ferro per quarant’anni. Da Venezia non era giunto nessuno: impossibile affrontare un viaggio in condizioni di tempo così proibitive.

    In fondo alla chiesa i ritardatari sgattaiolavano dentro, si cavavano il cappello e avevano cura di chiudere la porta, lasciando all’esterno le sferzate del vento gelido. Le campagne attorno a Passariano e Codroipo erano coperte da uno strato di brina spesso come un manto nevoso.

    Nei primi banchi si era sistemato il Mantoani, l’agente che veniva dal vicino villaggio di Bertiolo con la sua famiglia; subito accanto, il fattore, sua moglie e i tre figli, tutti risplendenti della gloria riflessa e dell’onore di poter rivolgere la parola direttamente alla famiglia del Procuratore di San Marco, cosa che facevano quando erano certi di essere osservati da tutti.

    Dietro, discosti, sedevano gli artigiani che dimoravano temporaneamente a Passariano o nella vicina Codroipo per i lavori che il paron commissionava per la Villa. In quel periodo dormivano sopra le stalle e le rimesse anche carpentieri e muratori assunti per la realizzazione di una cartiera, che doveva, secondo le ambizioni del Procuratore, stare al passo con le tecniche e le più recenti acquisizioni delle scienze applicate francesi. I contadini del villaggio stavano in fondo, vicino alla porta, flagellati da spifferi gelidi.

    Terminata la messa da requiem, Lodovico abbandonò il posto di famiglia, materializzandosi nel presbiterio con i due nipoti per salutare e ricevere l’omaggio e le condoglianze dell’agente, del fattore e dei capomastri con le rispettive famiglie. Madama Betta, come la chiamavano a Venezia, osservò la scena immalinconita, si sollevò dalla panca e allargò il cordone della sacca di velluto con le sue iniziali ricamate in filo d’oro, vi infilò la corona del rosario e si voltò verso Caterina, porgendole il braccio: nessuna delle due desiderava assistere alla tumulazione nella cripta. Infilarono un angusto passaggio che conduceva alla villa dalla barchessa di levante. Scomparvero, coperte dal sipario di seta delle sottane gonfiate d’aria per l’improvvisa compressione.

    La Procuratessa amava la serenità della campagna, ma preferiva quella dell’antica villa dei Barbaro a Maser, che Lodovico aveva ricevuto in eredità proprio dalla madre.

    La suocera, che lei aveva un tempo chiamato la Cardinala per il carattere austero, aveva protetto quella casa, elaborata dalle divine geometrie del Palladio, come uno scrigno di gioie e l’aveva restaurata preservando gelosamente gli affreschi del Veronese. Qualche anno prima della sua morte, fatti trasportare migliaia di libri e codici, aveva assunto un cappellano e vi si era rinchiusa, come una Caterina Cornaro senza corte.

    Durante i primi anni del suo matrimonio, la convivenza con la Basadonna era stata difficile; sua suocera non l’aveva mai combattuta e in società l’aveva lodata, ma nei suoi silenzi, nel suo sguardo aveva decifrato un costante e silenzioso rimprovero: quello per non averle dato nipoti ed eredi. In quegli occhi di sfinge lei aveva sempre letto una sola parola: «Sterile!»

    Il tempo aveva sedato reciproche aspettative e illusioni e, con l’arrivo dei figli di Caterina Pesaro, avevano iniziato a frequentarsi e conoscersi; alla fine era stata raggiunta la sopportazione. La stima, mai. Da quella donna aveva comunque assorbito la passione discreta per la letteratura, la pittura e, infine, qualche anno prima, era giunto inaspettato il dono della casa sovrastata da colline coperte da boschi di castagni, ciliegi e ulivi secolari che, proteggendola dai venti settentrionali, le regalavano un clima più mite anche durante l’inverno.

    Quando si ritirava nella casa di sua suocera, non si stancava di passeggiare lungo i sentieri dei primi rilievi, le montagnole che conducevano alla rocca di Asolo o a Cornuda: tra alberi e manti erbosi come tappeti di muschio, i suoi pensieri, i suoi sensi di colpa galoppavano liberi. A distanza di anni, tuttavia, avvertiva ancora quello sguardo di pietà e compatimento: l’unica cosa che non sarebbe mai riuscita a perdonarle.

    Sapeva rinunciare a quella ricercata solitudine solo per la colonia di case sul Terraglio che univa Mestre a Treviso, di gran lunga la vacanza più popolare e movimentata tra i veneziani, dove le ville, le visite, gli incontri e i giochi si susseguivano ininterrottamente. Lì poteva distrarsi e dimenticare, perché quello era il suo mondo, non la piattezza agricola di Passariano, dove non si materializzavano amici ma solo estranei nobili udinesi.

    La distanza e l’evidenza che nessun veneziano avrebbe mai trascorso la villeggiatura in Friuli avevano fatto della villa dei Manin una superba cattedrale senza vicini e senza termini di paragone. Certo, la solitudine ne esaltava la magnificenza e la grandiosità, ma nessuna festa, nessuna frequentazione assidua rallegrava i saloni costruiti a misura di sovrano piuttosto che di privato gentiluomo. Passariano era una Versailles spuntata nel mezzo di un oceano lunare; nessuna Parigi a poche miglia avrebbe fatto da valvola di sfogo al tedio agreste, nessuna corte allegra, nessuna aristocrazia spensierata. Il Friuli sarebbe rimasto, per Elisabetta Grimani, una necropoli: una landa di morti, esasperata da distese brumose di terra che in primavera lievitavano in oceani di mais. Tale uniformità sarebbe riuscita ad annientare, annichilire e a precipitare nell’oblio qualsiasi passione umana.

    Non aveva mai compreso la lingua dei friulani e ciò le impediva di fermarsi a scambiare due parole con la gente che incontrava durante le passeggiate sui prati attorno alla villa e al suo parco. Gli sguardi da bestie spaventate che le gettavano addosso, uniti al loro stolido silenzio, la inquietavano. Se la incrociavano, i contadini si cavavano il cappello, chinavano la testa e, voltati, continuavano il lavoro, mugugnando espressioni in un idioma che le ricordava la lingua dei soldati schiavoni. Le bestemmie sole, quelle sì, erano uguali in tutti i territori della Serenissima.

    Elisabetta intuiva che il silenzio e la chiusura in cui i contadini della provincia del Friuli erano costretti fossero indotti dall’arroganza dei feudatari locali che non avevano mai rinunciato a una visione dispotica delle prerogative confermate loro dal governo veneziano. Giurisdicenti, si proclamavano, ebbri di superbia per il diritto di promulgare leggi e di farle rispettare, come in un perenne medioevo.

    Manin non dava peso alle rimostranze della moglie: conosceva troppo bene la terra dei suoi antenati e sapeva che quei crudeli nobili di confine altro non erano che gli oramai imborghesiti discendenti di una cinquantina di famiglie feudali che da mille anni lottavano per perpetuare privilegi conferiti da imperatori germanici nelle nebbie dei secoli bui. I veneziani, spensierati e giocosi, guardavano a questi severi nobili alpini come a capi tribali dai blasoni inquartati con serti di pino e ghiande, e venivano ricambiati dal disprezzo di chi, a propria volta, si riteneva superiore per sangue e quarti di nobiltà; nobiltà imperiale, sangue denso e pesante rispetto a quello di qualsiasi patrizio mercante lagunare. Genio longobardo contro genio bizantino: era così da sempre!

    Lodovico si fingeva distratto, sorrideva e non dava peso alle proteste della polpa veneta che si scontrava con la corteccia friulana, ma quando sua moglie, otto anni prima, aveva dichiarato che non avrebbe più messo piede a Villa Manin né in Friuli si era visto costretto ad appaltare i lavori per un nuovo restauro della villa di Maser. Da quel giorno non vi erano più tornati insieme in villeggiatura. Ora, con la morte di sua madre, la sofferenza repressa e decantata negli anni pareva ritornare a galla, come se un’antica fiala di vetro fosse stata dissotterrata e agitata violentemente. Tutto era nuovamente causa di lamentele e gemiti.

    Anche la capitale di quella provincia al confine con l’impero, su cui incombeva il nembiforme fantasma di Maria Teresa d’Austria, dava noia a Elisabetta.

    Udine, o come ironizzava solitudine, non aveva teatro, ridotti o casini. Le cene e le rare feste si davano in case private ed erano talmente episodiche da costituire esse stesse degli eventi.

    In città non esisteva un albergo, tanto che quando, nel gennaio del 1782, lo zarevic Paolo Petrovic e sua moglie Maria Feodorovna avevano fatto tappa in città sotto le mentite spoglie di Conti del Nord, i notabili udinesi, constatata la mancanza di un albergo degno di tale nome, avevano dovuto sistemare i futuri sovrani presso il palazzo del Patriarca di Aquileia, sul cui portale era stato inchiodato un improbabile cartello con richiamo a un Hotel Imperiale. La coppia aveva accettato con sovrano distacco, ma l’episodio aveva suscitato non poco sarcasmo a Venezia dove, invece, i Conti del Nord erano scesi all’albergo del Leon bianco ed erano stati ricevuti con disinvolto sfarzo al casino dei nobili con feste al Teatro San Benedetto, cortei in piazza San Marco e ricevimenti nei più sontuosi palazzi.

    Elisabetta detestava la vita mondana e non frequentava salotti à la page come quelli della Procuratessa Tron o della greca di Corfù, tale Elisabetta Teotochi, che attiravano gli scalatori sociali, ma da vera veneziana si concedeva il lusso e l’eccentricità di giudicare le città che non fossero la Dominante con un criterio tutto suo.

    Erano capricci episodici che non scalfivano agli occhi del Procuratore la stima per quella donna, la cui sensibilità particolare e la cultura superiore alle sue pari rango si amalgamavano a un amore per la vita e al bisogno di essere circondata

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