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Dante enigma
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E-book348 pagine4 ore

Dante enigma

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N°1 in classifica
Tradotto in 40 Paesi
Il romanzo evento dell’anno

Dall'autore della saga bestseller I Medici
Un romanzo evento che svela i segreti e i misteri del sommo poeta

Firenze 1288. 
Una città cupa, fosca, nelle mani di Corso Donati, capo dei guelfi, assetato del sangue dei nemici, quei ghibellini che hanno appena sterminato i senesi – alleati dei fiorentini – nelle Giostre di Pieve al Toppo. In questo teatro d’apocalisse si muove il giovane Dante Alighieri: coraggioso, innamorato dell’amore e consacrato a Beatrice, ma costretto a convivere con la moglie, Gemma Donati; amico di Guido Cavalcanti e di Giotto, amante della poesia e dell’arte ma chiamato dal dovere sul campo di battaglia. Firenze infatti si prepara a un ultimo, decisivo scontro, e Dante dovrà dar prova del proprio coraggio impugnando le armi a Campaldino. Quando Ugolino della Gherardesca, schierato coi guelfi e imprigionato nella Torre della Muda a Pisa, morirà di fame fra atroci tormenti, Corso si deciderà a muovere guerra ai ghibellini. Il giovane Dante si unirà allora ai feditori di Firenze, affrontando il proprio destino in una sanguinosa giornata che ha segnato il corso della storia d’Italia. E che segnerà necessariamente anche lui, come uomo e come poeta. Guerriero, appassionato, avventuroso. Un Dante inedito.

Lo scrittore italiano di romanzi storici N°1 in classifica più venduto nel mondo 
Tradotto in 20 lingue e 40 Paesi
Vincitore del Premio Bancarella

Hanno scritto dei suoi romanzi: 

«Guerre, passioni, congiure, tradimenti e intrighi: la ricetta di Strukul, tra storia e invenzione, piace e diventa bestseller.» 
la Repubblica 

«Uno scrittore contemporaneo che sa raccontare grandi personaggi del passato vendendo valanghe di copie.» 
La Lettura - Corriere della Sera 

«Strukul è un autore eclettico e accattivante, che sa raccontare la grande Storia con la leggerezza e la velocità dei nostri tempi. Un Dumas 2.0.» 
La Stampa

Dall’autore del bestseller I Medici, il caso editoriale ai vertici delle classifiche italiane
Matteo Strukul
È nato a Padova nel 1973. È laureato in Giurisprudenza, dottore di ricerca in Diritto europeo e membro della Historical Novel Society. Le sue opere sono in corso di pubblicazione in quaranta Paesi e opzionate per il cinema. Per la Newton Compton ha esordito con la saga sui Medici, che comprende Una dinastia al potere (vincitore del Premio Bancarella 2017), Un uomo al potere, Una regina al potere e Decadenza di una famiglia. Successivamente ha pubblicato Inquisizione Michelangelo, Le sette dinastie, La corona del potere e Dante enigma.
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2021
ISBN9788822750297
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    Anteprima del libro

    Dante enigma - Matteo Strukul

    Prima parte

    L’inquietudine

    (Estate 1288)

    1

    Premonizione

    Sentiva dentro di sé un dolore profondo, acuminato. Come se il respiro gli si fosse mozzato sotto il filo d’una lama. Guardò il cielo: una lastra azzurra che virava all’indaco. Di lì a poco sarebbe scolorata nel grigio. Il vento si stava alzando e i pennacchi dei cipressi si piegavano sotto il suo soffio freddo, quasi spietato. Il grano del campo pareva sferzato da un’invisibile frusta e l’oro del suo colore si corrompeva con il sopravanzare dell’ombra che andava spegnendo la luce d’estate.

    Ben presto sarebbe scoppiato il temporale. Ne percepiva l’odore nell’aria, quel sentore d’acqua piovana che avrebbe cancellato ogni profumo.

    Avvertì in quel mutamento repentino un’oscura premonizione, un amaro auspicio di morte, quasi una creatura demoniaca stesse allungando i propri artigli lucenti per lacerare la realtà e precipitare il mondo in una forra di sangue e dolore.

    Sapeva che Corso Donati bramava la guerra. E con lui tutta Firenze. Arezzo si era fatta troppo spavalda. Arezzo, prostituta dell’imperatore, ghibellina, aveva provocato Firenze in ogni modo. I guelfi avevano atteso solo una scusa, uno sciocco capriccio per scendere in campo e annichilire i nemici di sempre. Sapeva che, mentre contemplava quel cielo ormai di stagno, i senesi erano sul punto di ripiegare dopo aver assediato Arezzo. Insieme ai fiorentini avevano perfino organizzato un palio sotto le mura della città, così da farsi beffe del nemico.

    Siena la superba, pensò. Siena che credeva di poter mettere alla catena i lupi dell’imperatore.

    Avvertiva un senso di fatalità in quella tracotanza. I ghibellini di Arezzo si erano chiusi dentro le mura della propria città. E ora, molto probabilmente, covavano una vendetta atroce. Non erano uomini pronti ad accettare un affronto come quello. Tante volte erano stati dati per sconfitti per poi, invece, rivelarsi fieri avversari.

    Meno di trent’anni prima, Manfredi aveva annientato i guelfi a Montaperti, divenendo signore di Firenze. Il leone di Svevia aveva trucidato i nemici come agnelli, sterminando gli avversari. Solo sei anni dopo, gli Angiò erano riusciti ad avere ragione di lui. E anche allora, quel principe fiero e invincibile si era battuto fino alla morte, cadendo con le armi in mano, a Benevento. Tanto era stato il suo valore che gli stessi francesi avevano raccolto le pietre per seppellirlo e onorarlo sul campo di battaglia.

    E ora Firenze e Siena avevano risvegliato la bestia ghibellina e la bestia fiutava il sangue. Dante non aveva dubbi in merito, per questo, in quel momento, un sudore freddo gli gelava la pelle.

    Pensò a Beatrice: al suo sorriso, a quegli occhi di luce e tormento, al suo sguardo capace di ghermirgli il cuore. Sospirò. Quanto avrebbe voluto urlare il suo amore. Ma non poteva. Non avrebbe mai potuto. Gli era concesso solamente di affidarlo alle parole. Nella sua mente, vide quei piccoli segni neri, vergati con l’inchiostro, simili a gocce di sangue scuro, destinati a riempire le pagine gialle di carta pergamena. Formule segrete di un amore segreto.

    Si sentiva imprigionato. Era un uomo in catene: incapace di vivere appieno il proprio sentimento. E quell’impotenza lo consumava. Nell’aspettare la propria fine, sentiva che il suo amore per Beatrice si faceva ogni giorno più forte, più violento, perfino intollerabile. E anche quando le nozze avevano ridotto quella basilica della passione a un mero ammasso di lacerti, egli ne aveva cullato il rogo fumante fra le proprie braccia. Non aveva alcun dubbio. Poiché quel sentimento era la sua unica ragione di vita.

    Si alzò in piedi, avvicinandosi alla sua magnifica cavalla. Aveva il manto lucido e bruno come la polvere di cannella e una stella bianca in mezzo agli occhi. Dante le prese il muso fra le mani, carezzandoglielo. Sentì la lingua ruvida della giumenta leccargli il palmo della mano. Sorrise. Lasciò scivolare la destra lungo il collo possente dell’animale: la grande vena giugulare pulsava, fremente di vita. Attraverso le dita percepì quel fluire caldo, bollente, sotto la pelle scintillante. Rimase ammirato dalla nobiltà di quella puledra: docile e formidabile insieme, attendeva paziente che il suo padrone decidesse di montare in sella.

    Dante le spettinò la folta criniera. Voleva un gran bene a Nemesi.

    Attese ancora.

    Aspettò di udire il primo tuono e poi i suoi occhi videro il fulmine squarciare il cielo, divenuto ormai color carbone.

    Le prime gocce caddero e gli bagnarono il viso.

    Montò in sella.

    Diede di sprone.

    2

    Pieve al Toppo

    Buonconte sapeva che sarebbero passati di lì. Ebbri del loro successo, resi incauti dal vino e dal palio consumato sotto le mura d’Arezzo, i senesi avevano affrontato il ritorno per la Val di Chiana. Marciavano ordinati sulla strada: i fanti al centro e i cavalieri ai lati in una formazione ordinata ma non certo temibile. Procedevano rapidamente giacché sapevano d’essere incalzati da Guglielmo de’ Pazzi di Valdarno – detto il Pazzo per la sua indole rabbiosa e sanguinaria – con un proprio contingente. Ne sentivano il fiato sul collo fin da quando erano partiti da Arezzo.

    Buonconte, invece, aveva preso la via di Battifolle fino a Mugliano. Obbligando i suoi uomini a marciare a tappe forzate, giorno e notte, era riuscito a giungere con il proprio contingente all’altezza di Pieve al Toppo, in corrispondenza dell’unico guado della palude e degli acquitrini della Val di Chiana, resi ancor più insidiosi dalla pioggia degli ultimi due giorni.

    Se il Pazzo avesse mantenuto la parola, sopraggiungendo con i suoi, sarebbero riusciti a chiudere gli uomini di Ranuccio Farnese in una manovra a tenaglia.

    Buonconte aveva fatto schierare i propri soldati su un lato del guado, nascosti fra tronchi e arbusti.

    Avevano incoccato i dardi nelle balestre e stringevano i verrettoni. Erano pronti a scagliarli sulla colonna senese così da morderne il fianco e farla a pezzi in un’infilata di proiettili di ferro.

    Quel giorno il caldo era insopportabile. Il sole era uscito da dietro le nuvole e ora incendiava l’aria. I suoi erano armati alla leggera per essere più pronti e agili nei movimenti e anche per aver sollievo dal sole. Dopo aver scagliato dardi e verrettoni si sarebbero ritratti in buon ordine, lasciando a lui e ai suoi feditori il compito di annientare quanto rimasto del nemico, confidando che il Pazzo, giungendo alle spalle dei senesi, avrebbe saputo condurre al meglio il massacro.

    Grandi gocce di sudore gli imperlavano la fronte, incollandogli i lunghi capelli castani alla pelle. Nascosto dietro la vegetazione, in armatura leggera, Buonconte aspettava. Vestiva i colori a bande d’oro e d’azzurro della sua casata.

    Infine, vide giungere la colonna senese.

    Ranuccio avanzava alla testa dei suoi. La retroguardia gli aveva comunicato che il Pazzo non mollava e che i ghibellini li avrebbero inseguiti fino a Siena, se fosse stato necessario. Le beffe guerresche che lui e i fiorentini avevano inscenato sotto le mura d’Arezzo li aveva resi idrofobi. Dentro di sé si maledisse per tanta stupida arroganza. Sapeva di non poter rifiatare anche se quel giorno, con il sole a picco e l’umidità delle paludi che pareva soffocarli, fermarsi sarebbe stata la prima cosa da fare.

    Ma non ce n’era alcuna possibilità.

    Erano giunti all’altezza di Pieve al Toppo, si erano lasciati il villaggio alle spalle e procedevano fra gli acquitrini. La mota e le acque limacciose li avevano costretti a rallentare. Ora erano arrivati a una piccola palude. Fece controllare che potesse essere guadata facilmente. L’acqua stagnante era alta a malapena un braccio. Poco più di una pozza, insomma, ma estesa abbastanza da togliere la voglia d’aggirarla. Se non altro, pensò mentre l’attraversavano, si sarebbe potuto rinfrescare la testa con l’acqua.

    Diede l’ordine di guadarla mentre i suoi lo seguivano.

    Rimanendo a cavallo, si era tolto l’elmo e si stava giusto sporgendo di lato per raccogliere l’acqua verde quando udì, improvviso, un rumore che riconobbe immediatamente: il fischio di dardi che rompevano l’aria.

    Ebbe appena il tempo di tornare in sella, per vedere che un’infilata di quadrelli falciava i suoi guerrieri come spighe di grano.

    Un dardo gli passò a meno di un palmo di distanza per andare poi a conficcarsi nell’occhio di uno dei fanti che avanzavano. L’uomo lanciò un urlo disperato e finì in avanti nell’acqua della palude. Contemporaneamente, altre grida si levarono alte nel cielo.

    «Presto», urlò Ranuccio ai suoi, «raggiungiamo la riva». E così dicendo, piantò gli speroni nei fianchi del suo cavallo che, con uno scarto improvviso, aumentò l’andatura fino a giungere dall’altra parte. Ma non appena si trovò sulla terra, Ranuccio s’avvide che una pioggia di quadrelli tracciava nell’aria umida una rete di linee, fino a quando le punte di ferro si piantavano nella carne o, in qualche caso, cozzavano contro le corazze. Ma per la maggior parte esse andavano a segno, aprendo vuoti spaventosi nelle file di cavalieri e fanti. La mattanza era tanto più sanguinosa e impressionante poiché molti dei soldati si erano tolti gli elmi, per via del gran caldo e perché i balestrieri erano incapaci di rispondere a quella grandine di ferro che li falciava, avendo appeso i loro strumenti di morte alle selle dei muli.

    Ranuccio vide un cavaliere portare le mani al collo mentre due frecce gli tranciavano la giugulare in punti diversi. Poi, l’uomo scivolò giù di sella. Il suo cavallo, ferito a un quarto, prese a galoppare, trascinandolo prima nell’acqua e poi nel fango della riva.

    Un fante alzò le braccia al cielo e cadde nell’ultima tesa d’acqua della palude con due dardi piantati nel costato.

    Ranuccio urlò ancora all’indirizzo dei suoi, nella disperata speranza che potessero trascinarsi fino a riva, e in effetti i primi cavalieri giunsero a fatica vicino a lui. Ma già sull’altra sponda, egli vedeva arrivare le insegne di Guglielmo il Pazzo, gli stendardi a fiamme gialle e rosse. Il capitano ghibellino stava per ingaggiar battaglia con l’ultima parte della sua colonna, quella che ancora doveva impegnare il guado.

    Nel frattempo, un boato formidabile si levò al cielo e, per la prima volta da quando era riuscito a porsi in salvo, Ranuccio si rese conto che l’aver attraversato la piccola palude non lo aveva affatto messo al riparo da nulla, poiché, dietro un filare di alberi sventolavano le insegne a bande oro e azzurro di Buonconte da Montefeltro.

    «Attenti!», gridò a quanti fra i suoi erano riusciti ad arrivare a riva, uscendo dall’inferno di dardi e verrettoni. «Ci stanno aspettando!».

    Senza poter aggiungere altro, Ranuccio vide che da quel filare usciva la cavalleria aretina, armata alla leggera. Almeno duecento feditori stavano muovendo contro di loro, veloci come folgori.

    Gli andarono addosso con tutta la rabbia della vendetta a lungo attesa. Non si sarebbero fermati per niente al mondo.

    «Buon Dio!», esclamò Ranuccio. «Abbi pietà di noi!».

    «Annientiamoli!», urlò Buonconte. Digrignò i denti, poi sguainò la spada e lanciò il proprio destriero al galoppo.

    Dietro di lui, cavalcava l’inferno.

    Fu una manovra perfetta, una carica di cavalleria astutamente preparata e guidata nell’istante esatto in cui gli uomini di Ranuccio si trovavano alla sua completa mercé. Un pugno di senesi era infatti riuscito a guadagnare la riva. Ma era del tutto impreparato a sostenere un simile assalto.

    L’impatto fu devastante. Buonconte e i suoi si infilarono come un cuneo di ferro nelle schiere disordinate e raccogliticce di Ranuccio, facendone strame.

    Il capitano ghibellino sollevò la spada, poi menò un fendente terribile, tranciando un braccio. Attorno a lui deflagrò un unico tuono di morte. Le lame mutilarono arti. Mulinarono nell’aria per poi abbattersi come falci, mietendo vite. Cavalieri senesi finirono nel fango, destrieri stramazzarono, fanti caddero, inzuppando di sangue la terra.

    Buonconte si muoveva in quell’inferno con la spietata grazia di un angelo sterminatore. Portava i colpi in modo perfetto, annientando chiunque gli si parasse innanzi. Giunse infine di fronte a Ranuccio e, senza indugio, incrociò la spada con lui. Le lame, sfregando l’una sull’altra, mandarono scintille bluastre, ma tale era la foga di Buonconte che il capitano dei senesi dovette fare appello a tutta la propria volontà per rintuzzare quegli attacchi che parevano condotti da una mano divina.

    Buonconte sentì che quello era il momento della verità. Aveva predisposto l’attacco con tutte le astuzie e le precauzioni del caso. Mentre la sua spada picchiava sullo scudo del Farnese, egli vide il Pazzo abbattere gli avversari come alberi stanchi.

    Menò dunque un fendente talmente insidioso che Ranuccio si ritrovò completamente sbilanciato. Fu allora che lo colpì con lo scudo alla spalla, per poi tracciare un arco nell’aria con la lama e raggiungerlo infine al fianco. Quell’ultima botta rovesciò il nemico sulla sella e lo fece rovinare a terra, nel fango della riva.

    Ranuccio strisciò disperato, appoggiandosi alla spada per rimettersi in piedi. Si muoveva con passi incerti, per via della mota che lo avviluppava come melassa. Infine, esasperato, si tolse l’elmo e lo scagliò via, facendolo rotolare lontano.

    Buonconte smontò di sella e si liberò a sua volta del casco di ferro. Non si sarebbe avvantaggiato del colpo inferto all’avversario, ma non gli avrebbe nemmeno concesso quartiere. Era deciso a farla finita per sempre in quella palude maledetta. Sentiva il sangue ribollire per l’onta subita ad Arezzo e ora bramava la morte dell’avversario.

    Ranuccio pareva spaurito. «Messere», disse infine, «mi rimetto alla vostra clemenza».

    Ma quelle sue parole erano destinate a cadere nel vuoto.

    «Troppo tardi, amico mio, scoprite il significato di questa parola», gli rispose Buonconte con un’ombra di sarcasmo. «Voi che con i vostri uomini vi siete fatti beffe d’Arezzo e dei ghibellini! Mettetevi in guardia e vediamo chi fra noi prevarrà». E senza perdere altro tempo, menò un gran colpo che Ranuccio parò a stento. Ne seguì un altro e un altro ancora, fino a quando il capitano dei senesi non finì con un ginocchio a terra, la lama alta sopra la testa, le braccia tese a sostenere l’impatto dell’ultimo fendente di Buonconte.

    Ormai, però, il duello era finito.

    Le mani di Ranuccio cedettero. La sua spada finì nel fango.

    Con un ultimo formidabile fendente, Buonconte gli mozzò il capo e la testa del capitano dei senesi andò a rotolare nella mota.

    Buonconte l’afferrò per i capelli, mostrandola come un macabro trofeo ai guerrieri sul campo di battaglia.

    «Ecco come finisce chi sfida l’impero», urlò con quanto fiato aveva in corpo. In risposta ricevette il ruggito dei suoi che levarono gli stendardi d’oro e d’azzurro. Poi, con gli occhi di un lupo, cercò il Pazzo nella mischia. «Guglielmo!», gridò Buonconte. «Guglielmo!», ribadì con foga. E come al richiamo del proprio padrone, il gigante si liberò d’un avversario e incatenò il suo sguardo a quello di Montefeltro.

    «Nessuna pietà, amico mio», urlò Buonconte. «Inseguite gli avversari come foste cani neri! Stanateli ovunque si nascondano, cacciateli come i segugi fanno con le lepri, alitate il vostro fiato di demoni e fateli a pezzi. Non uno deve sopravvivere! Voglio le loro teste conficcate sulle picche».

    Per tutta risposta, il Pazzo alzò la spada e i suoi gridarono invasati.

    Cominciò a piovere. Gocce grandi presero a cadere, diluendo il sangue che incrostava la terra oltre la riva.

    Poi, mentre gli ultimi nemici finivano impalati sulle lance, Buonconte rimontò a cavallo.

    Sapeva di aver scatenato una guerra.

    Era quello che cercava.

    3

    A casa

    San Pier Maggiore era un unico intrico di vicoli bui e stambugi, di torri merlate, severe e terribili, un’eruzione di case in pietra e legno sorte l’una sull’altra, dominata dalle famiglie di Corso Donati e Vieri de’ Cerchi.

    Mentre rincasava, portando la sua puledra nella stalla, Dante credette di scorgere qualcuno nel buio. Fu solo un istante. Poi si rese conto che doveva aver sognato a occhi aperti. Si sentiva strano fin da quando era partito, alle prime gocce di pioggia, per rientrare a Firenze, lasciandosi la campagna alle spalle. Quel senso di imminente tragedia gli parve lo accompagnasse fin sulla porta di casa.

    Quando entrò, vide il chiarore rossastro del focolare. La luce, come di sangue, arrugginiva l’aria e la stanza dal soffitto basso, e ingombra dei mobili e delle mille diavolerie usate da Gemma, sembrava a malapena capace di offrire riparo e spazio sufficiente a una coppia. Senza contare che fino a poco tempo prima, oltre a loro, sotto quel tetto aveva vissuto anche Lapa, la sua matrigna. Ora vi abitava solo quando non era al podere degli Alighieri nei pressi di Fiesole.

    Lambita dalle fiamme, una pentola. Un odore di stufato gli ricordò che aveva fame. Gemma sedeva al proprio posto. La tavola era apparecchiata. Sapeva che lui sarebbe rincasato tardi ma quel fatto non pareva recarle alcun conforto. Si alzò in piedi e raggiunse il camino. Con uno straccio afferrò il coperchio e lo sollevò, come a voler controllare un’ultima volta lo stufato. Infine prese la pentola e la mise in tavola.

    Una brocca di vino stava davanti a una tozza coppa di legno. Gemma riempì una ciotola di carne e sugo fumante. Versò il vino. Poi guardò suo marito.

    «Dove siete stato?», domandò con un tono che rivelava impazienza e preoccupazione insieme.

    «A trovare Lapa e a controllare il podere».

    Gemma sospirò. Dante avvertì tutta la frustrazione accumulata da sua moglie in quegli anni. «Lo dite come se avessimo chissà quali terre…».

    «Niente affatto!», esclamò. La voce gli uscì più aspra di come avrebbe voluto. Era così stanco di dover affrontare per l’ennesima volta quell’argomento. «E tuttavia almeno quello ancora lo abbiamo. E poi vedo che c’è della carne nel piatto».

    «È un dono di vostra sorella».

    Dante tacque. Non voleva aprire una discussione. Non quella sera.

    «Se solo vi decideste a lavorare…», lo incalzò Gemma.

    «Ancora con questa storia? Credevo ne avessimo già parlato».

    Lei gli prese la mano nelle sue. «Perdonatemi, marito mio. Conosco le vostre ambizioni. La pretesa, giusta e che rispetto, di vivere come un nobile. Ma non lo siamo. O per lo meno, non abbastanza. So anche quanto poco vi importi della vita politica ma provate a capire come posso sentirmi io, una Donati, in questi giorni d’incertezza, mentre voi uscite con i vostri amici, affrontate sfide poetiche, scrivete e studiate, lasciandomi sola in un mondo che vi rifiutate di frequentare perché continuate a volervi rinchiudere in un’immaginaria torre di carte e inchiostro…».

    «Ora basta!», tagliò corto lui. «Sono stanco di queste lamentele. Non avete un po’ di fiducia nel mio talento?».

    Gemma scosse la testa. «Ne ho fin troppa! Ma non posso nemmeno negare il tumulto che mi riempie il cuore. Di cosa vivranno i nostri figli, un giorno, quando li avremo? Dei magri raccolti di quel podere? Dei premi garantiti dalla fortuna letteraria? Volete davvero affidare a una simile fragile navicella il nostro avvenire?».

    Ora quello stufato gli sembrava il più amaro che avesse mai mangiato. Ancora quei dubbi, ancora quelle accuse.

    «Qualcosa di terribile sta per accadere», disse Gemma.

    «Già», replicò lui. «Almeno su questo siamo d’accordo».

    «Mio cugino Corso è stato qui, oggi».

    Dante si rabbuiò in volto. «Che cosa ha detto?»

    «Che qualcosa di tremendo è accaduto nelle paludi di Pieve al Toppo e prima che mi chiediate ulteriori dettagli, già vi dico che non so altro. Tuttavia mi ha avvertito che domattina dovrete raggiungerlo a casa sua».

    «Come mai non è venuto Vieri?»

    «Perché i Cerchi devono restare al loro posto. Mentre voi ve ne state a ragionar di versi, quegli avidi usurai hanno comprato il palazzo dei conti Guidi e tramano di far loro l’intero sestiere di Porta San Piero. A ogni modo non v’è altro da aggiungere», concluse Gemma.

    Dante la guardò: era bella e altera. Ormai stanca per la lunga giornata, aveva sciolto i lunghi capelli castani. I suoi occhi color nocciola parevano scintillare nella penombra. Era alta e slanciata ma aveva fianchi forti, perfetti per dar figli. E poi c’era in lei uno sguardo spavaldo che mai si arrendeva agli occhi altrui. Avvenente, certo. Ma anche pronta a pretendere rispetto. In Gemma c’era un’arroganza congenita, figlia del suo lignaggio che spesso lo faceva sentire in difetto. E una simile tacita accusa lui proprio non riusciva a perdonargliela.

    «Rimanete qui?», lo incalzò lei.

    Lui annuì.

    «Non vi aspetterò».

    «Riposate pure», concluse Dante, «io resto ancora un po’».

    «Come vi pare».

    E senza aggiungere altro, Gemma salì al piano superiore.

    Rimasto solo, Dante si versò un po’ di vino. Aveva completamente perso l’appetito. La serata era fredda. Strinse la coppa fra le mani, interrogandosi su quanto grave potessero essere i fatti avvenuti presso Pieve al Toppo.

    Forse il presagio di quel pomeriggio si stava avverando.

    L’odio strisciava per le strade di Firenze.

    E quel giorno pareva proprio essere arrivato anche alla sua porta.

    4

    Fiamme e sangue

    Non sapeva come vi fosse giunto, eppure camminava sul bordo di un pozzo. All’inizio fu la vertigine. Poi, scivolando, cadde all’infinito nel nero più profondo fino a quando, perduta la cognizione del tempo, gli parve di ruzzolare giù per una collina. Quando si alzò in piedi, dolente e ammaccato, si ritrovò in un bosco atro, impenetrabile, fitto di piante, rovi e alberi. L’intrico di rami, aghi e sterpi gli rendeva difficile non solo orientarsi ma perfino avanzare.

    Stecchi e spine gli lasciarono graffi dolorosi sul viso, lacerandogli la pelle, scorticandogli le mani e i piedi. Il sole affogò nel sangue del tramonto. Udì il gracchiare acido dei corvi mentre il frullio d’ali pareva riempire il bosco. Nella losanga di rami, scorse più avanti una radura. La vide perché una croce in fiamme ardeva al centro di essa, diffondendo una luce intensa abbastanza da illuminargli la via.

    Aiutandosi con le mani, tentò di farsi strada attraverso il fitto sottobosco. Si sentiva spiato da decine, centinaia di occhi rossi ma non appena si voltava, tentando di catturare almeno uno di quegli sguardi scintillanti, quello scompariva nel buio.

    Il fruscio dei suoi passi, attutiti da terra e muschio, era l’unico rumore che riusciva a percepire. A mano a mano che si avvicinava alla radura, le fiamme ardenti diffondevano il loro respiro fremente.

    Quando infine giunse alla spianata, la vista della croce lo impressionò ma la sua sorpresa andò aumentando quando notò che una scintilla si staccava da essa e poi un’altra e un’altra ancora in quella che divenne una sorta di pioggia di lucciole.

    Ogni particella di fuoco si sommava all’altra e ben presto un serpente luminoso e ondeggiante si formò ai piedi della croce. Prese a propagarsi lentamente fino a superare il limite circolare dello spiazzo, quasi qualcuno avesse lasciato una traccia di resina o pece fra i cespugli. Qui, d’improvviso, un’altra fiamma si alzò maestosa. Alla sua base, Dante scorse quello che gli parve un tumulo. Poco più tardi, lo stesso avvenne in un altro punto della radura, fino a quando i roghi divennero quattro poi cinque, infine sei, otto e dieci.

    Indietreggiò, senza però riuscirci. Era come se i rami degli alberi avessero creato un intrico impenetrabile, approfittando della sua distrazione. Rapito da ciò che vedeva, non si era accorto di quanto il bosco fosse avanzato. Non era possibile, naturalmente, eppure, contro ogni logica o legge, era avvenuto. E ora quel bosco maledetto lo sospingeva in avanti.

    Proseguì, superando la spianata, seguendo le fiamme che infine illuminarono di fronte a lui una palude e, oltre quella, le mura alte di una città. Per via della luce rossa del fuoco e del nero della notte, quella barriera di pietra gli apparve dello stesso colore della ruggine.

    E anche la città era, con sua grande sorpresa, in preda a un incendio. Le alte torri parevano pire contro il cielo.

    Fu allora che le vide. Comparvero

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