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Il nuovo regno
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E-book454 pagine6 ore

Il nuovo regno

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Info su questo ebook

INTRIGHI DI PALAZZO, LOTTE DI POTERE,
GUERRE SANGUINOSE E AVVENTURE ALL'ULTIMO RESPIRO:
WILBUR SMITH CI REGALA UN NUOVO, EMOZIONANTE CAPITOLO DELLA SAGA
DEDICATA ALL'ANTICO EGITTO.


"Nessuno sa dare vita all'avventura come Wilbur Smith, e come di consueto questo ultimo romanzo è come una discesa tra le rapide di un torrente, costellato di profondità inesplorate e atti eroici." The Daily Mirror

"L'ambientazione è magnifica e la potenza epica toglie il fiato. Wilbur Smith è la pietra di paragone con cui sono chiamati a confrontarsi tutti quelli che vogliono scrivere romanzi d'avventura." The Times

"Il gioco di Wilbur Smith si chiama 'azione', e lui ne è l'indiscusso maestro." The Washington Post

La vita di Hui, figlio del governatore di Lahun, è quella di un privilegiato e il suo futuro, seguire le orme del padre alla guida della bellissima città dalle bianche mura, sembra ormai scritto. Ma dietro quella facciata idilliaca sono all'opera oscure forze malvagie Accecati dalla gelosia, Isetnofret, matrigna di Hui e spregiudicata strega devota al culto del dio Seth, e Qen, il suo fratellastro, tramano nell'ombra per scalzare dalla sua posizione il governatore, sbarazzarsi una volta per tutte del ragazzo e impadronirsi del potere. Costretto ad abbandonare la città e tutto ciò che ama, il giovane Hui si unisce a una banda di predoni hyksos, i temibili nemici del suo popolo, deciso a vendicarsi e salvare la sorellastra Ipwet. Da loro apprende l'arte della guerra, impara a combattere e diventa un abilissimo auriga

Finché non si trova al centro di una battaglia ancor più grande, quella per il cuore stesso dell'Egitto. Così, mentre i segreti del passato emergono dalle tenebre e anche gli dei scendono in campo, Hui si ritrova a combattere al fianco del prode generale egizio Tanus e del potente mago Taita. E a quel punto dovrà scegliere il proprio destino: diventare un eroe del vecchio mondo, o andare incontro al futuro di un regno nuovo.

LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2021
ISBN9788830533042
Il nuovo regno
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Anteprima del libro

    Il nuovo regno - Wilbur Smith

    Sotto lo sguardo attento degli dei, i due ragazzi si inerpicarono fino in cima all’altura, dove il paesaggio brullo era reso argenteo dal chiarore lunare e intagliato dall’ombra. La brezza fresca proveniente da est trasportava gli aromi terrosi della lussureggiante vegetazione intorno al Nilo.

    Erano amici sin dall’infanzia. Hui, il più coraggioso dei due, portava solo un aderente gonnellino di lino annodato all’altezza della vita, che lasciava visibili membra forti e robuste. A Lahun, la città natale da cui si erano allontanati furtivamente al tramonto, molti lo consideravano ancora un bambino, forse per via dei lineamenti adolescenziali e dell’aria innocente: guance un pizzico troppo paffute, nessuna ruga scavata dalle preoccupazioni ai lati della bocca o sulla fronte. Un bambino! Aveva diciassette anni! Arricciò il naso. Ben presto avrebbe dimostrato a quei detrattori che si sbagliavano.

    «Lo vedi?» chiese con voce tremula Kyky, che si era guadagnato il soprannome di Scimmietta grazie alle braccia magre che sembravano arrivargli quasi alle ginocchia e al viso minuto dai grandi occhi scuri.

    Hui si premette un dito sulle labbra e, accovacciandosi, allungò il collo per fissare le stelle che riempivano il cielo. Sì, gli dei osservavano sempre tutto, qualsiasi sciocco lo sapeva. Tremò sotto il peso di quegli occhi scintillanti. Lo aspettava un destino grandioso, se le potenze superiori erano d’accordo, e quella notte avrebbe fatto il primo passo sulla strada verso la gloria.

    Il misterioso latrato che avevano udito mentre si arrampicavano echeggiò di nuovo, questa volta più vicino, e il cuore prese a martellargli nel petto. Oltre le rocce dai contorni frastagliati, sulle colline dove aveva seguito le tracce degli anziani nomadi del deserto, Hui osservò le ondulate dune a ovest e poi, strizzando gli occhi per guardare a est, riuscì a distinguere il vaghissimo luccichio del Grande Fiume che rifletteva la distesa di stelle sfavillanti sopra di loro. Balzò in piedi nel sentire ancora quell’ululato soprannaturale, adesso vicinissimo.

    «Che cos’è?» piagnucolò Kyky mentre gli afferrava la spalla, sgranando gli occhi.

    Hui reagì con una risata che sperava risultasse rassicurante. «Non temere, amico mio.»

    «Mi hai trascinato in questo posto isolato, lontano dalla sicurezza delle nostre case, e ora mi dici di non avere paura?» farfugliò l’altro. «Gli anziani sulle panche accanto alle mura della città dicono che queste colline sono infestate. Qui camminano dei demoni.»

    Hui si rimangiò un commento sprezzante mentre l’amico indicava qualcosa con un dito tremante: dietro un costone di roccia stava comparendo una sagoma dalla cui testa spuntavano delle corna. Due occhi scintillanti li fissarono e si udì di nuovo il latrare lamentoso.

    Kyky si prese il viso fra le mani e uggiolò: «Oh, Hui, ci hai condannato a morte».

    Hui si irrigidì, deciso a rimanere al proprio posto a dispetto delle gambe tremanti, perché era così che agivano i grandi capi.

    La sagoma continuò a sollevarsi finché non fu illuminata dal chiarore lunare e Hui rilassò le spalle per il sollievo: le corna erano in realtà lunghe orecchie appuntite, il muso stretto e gli occhi a mandorla apparivano tipicamente felini. Era un gatto delle sabbie. Quello era solo il secondo esemplare che vedeva in vita sua, ma aveva sentito dire che abbaiavano come cani invece di fare le fusa o sibilare. Dandosi una manata sulle cosce scoppiò a ridere, poi lanciò un sasso per scacciare l’animale.

    «Abbiamo paura della nostra stessa ombra» disse ridacchiando.

    «Puoi forse biasimarci?»

    «Questa è una notte che vedrà gesta straordinarie…»

    «O piuttosto una notte in cui gli sciocchi otterranno ciò che meritano.» Kyky diede un calcio sprezzante al terreno, facendo sollevare una nuvoletta di polvere. «È più probabile che ci taglino la gola e ci diano in pasto agli avvoltoi.»

    Hui non poteva certo contraddirlo, ma assunse un’espressione allegra per il bene dell’amico.

    «Cambierai atteggiamento quando torneremo a casa con un dono degli dei.»

    «Se torneremo.»

    «Coraggio, Scimmietta!» esclamò, cingendogli le spalle con un braccio. «Lascia ruggire il fuoco che hai dentro! Stanotte la tua vita cambierà.» Quando lo vide arricciare il naso, aggiunse: «In meglio, naturalmente. Le ragazze si inginocchieranno davanti a te supplicandoti di prenderle. I prepotenti che ti hanno tormentato per tutta la vita chineranno il capo con deferenza. Sarai un re fra gli uomini. Goditi questo momento».

    «È troppo pericoloso» replicò Kyky scuotendo la testa. «Dovremmo tornare indietro.»

    Hui sorrise per celare l’esasperazione, doveva proseguire con l’opera di convincimento.

    «E rinunciare così a un trofeo di inestimabile valore?» Si arrampicò su una roccia e indicò le stelle. «Un fuoco che attraversava il cielo, così l’ha definito l’anziano nomade. Nel punto in cui si è schiantato sulla terra, la sabbia si è trasformata in vetro e al centro di un enorme cratere spiccava una pietra nera. La Pietra di Ka, l’ha chiamata, e non è di quelle che vengono messe nelle tombe, no. Ha detto che racchiude l’essenza degli dei, che ha poteri magici. Secondo qualcuno potrebbe far volare un uomo insieme agli uccelli, se pronuncia le preghiere giuste. Secondo altri è in grado di evocare gli spettri di coloro che si vedono negare un posto nell’aldilà…»

    «Sono solo dicerie...» Kyky camminò avanti e indietro, spazientito. «E come mai quel vecchio nomade non ha beneficiato lui stesso di quella magia, sentiamo? Perché la pietra gliel’hanno rubata... sfilata dalle dita di un cadavere dopo che tutti quelli che camminavano accanto a lui sono stati massacrati.» Levò le mani verso il cielo. «Rubata dalle Averle! I predoni più assetati di sangue dell’intero Egitto. E ora tu vuoi prenderla a loro. Pura e semplice follia. Perché ti ho dato retta?»

    Hui si voltò fingendo di cercare la pista fra rocce e terriccio. Il suo amico era stanco e nervoso a causa della lunga scarpinata, però non aveva tutti i torti. Non poteva negare di aver tentato a lungo di reprimere l’apprensione che ora gli svolazzava nel ventre come un uccellino in gabbia. A dispetto della sua aria baldanzosa, era consapevole dei rischi. Derubare un ladro era una cosa, ma introdursi nell’accampamento delle Averle e sottrarre il loro bene più prezioso… Be’, una volta tanto Kyky aveva ragione: era una follia.

    Mantieni la calma, si disse. Il coraggio non ti manca.

    Alzò di nuovo gli occhi verso il cielo e scrutò le costellazioni fino a individuare i Quattro Figli di Horus, che il padre gli aveva indicato quando era bambino. La sua guida, il suo destino. Si sentì confortato.

    Ripensò alle bianche mura di Lahun, dove aveva incontrato il solitario nomade del deserto che mendicava del pane per riempirsi lo stomaco vuoto. Indossava una tunica nera, aveva una sciarpa legata intorno alla testa e il viso screpolato dal vento e scottato dal sole come le lande desolate in cui viaggiavano i nomadi del deserto, gli habiru. In cambio di un tozzo di pane secco gli aveva raccontato della Pietra di Ka e dell’attacco contro la sua carovana. A Hui erano brillati gli occhi quando aveva colto il potenziale nel resoconto. Forse era privo di fondamento, quelle tribù nomadi adoravano inventare storie, ma se invece era tutto vero gli dei gli avevano fornito l’occasione di impadronirsi del trofeo più favoloso di cui avesse mai sentito parlare. Lo avrebbe fatto per se stesso, per il padre e la famiglia, per Lahun.

    Non aveva osato parlarne in giro. Il padre, Khawy, lo avrebbe confinato nella sua stanza perché era un’impresa troppo pericolosa: i predoni si erano lasciati dietro una scia di sangue in tutto l’Egitto. Eppure Hui si era immaginato l’accampamento delle Averle sulle colline, pieno di ragazze catturate per essere vendute come schiave, e con ampie tende colme dell’inimmaginabile bottino frutto delle loro razzie lungo le rive del Nilo a sud di Dahshur. I banditi sarebbero stati sicuramente ubriachi, dopo aver festeggiato quello straordinario successo crogiolandosi nella convinzione di essere benedetti dagli dei. Ubriachi, intenti a smaltire la sbornia dormendo o troppo inebetiti per notare alcuni topolini che sfrecciavano tra le tende per sottrarre il loro straordinario premio.

    Saltò giù dalla roccia. «I cuori pavidi non hanno mai ottenuto nulla di grandioso, ma se vuoi tornare indietro non posso certo impedirtelo.»

    «Da solo?» chiese Kyky osservando il territorio desolato ai piedi della collina.

    «Oppure potresti seguirmi verso un glorioso destino. Prova a immaginare come diventerebbe famoso chiunque porti a Lahun un dono degli dei. Il faraone in persona farebbe rifulgere la propria magnificenza su un simile eroe. O eroi.»

    Kyky piegò il capo, indeciso. «Mi accontento della sorte che mi è toccata, quello di eroe sembra un titolo pericoloso. Ripetimi ancora una volta cosa possiamo ottenere rischiando la pelle e menziona qualcosa di concreto che io possa stringere fra le mani.»

    «Tesori che non hai contemplato nemmeno nei tuoi sogni più sfrenati. Un oggetto così sacro e così raro verrà bramato da uomini illustri e potenti disposti a pagare qualsiasi somma pur di possederlo; ecco perché i nomadi del deserto l’hanno preso, ecco perché le Averle gliel’hanno rubato. Cogli questa occasione, Kyky, e diventeremo gli uomini più ricchi e onorati di tutta Lahun. Non ti mancherà mai più nulla. Al mondo non esiste premio più prezioso.»

    Prima che l’amico potesse prendere una decisione, Hui sentì dei passi avvicinarsi ed estrasse di scatto il corto pugnale nascosto fra le pieghe del gonnellino. Non sapeva come usarlo, in vita sua non aveva mai preso parte a una zuffa, e pregò che lo scintillio del chiarore lunare sul rame rappresentasse un deterrente sufficiente. Kyky gemette con voce tremula.

    Una figura sbucò dalle tenebre e Hui, fremendo di sollievo, vide che era Qen.

    «Fratello!» lo salutò. «Stai cercando di spaventarci a morte?»

    «Abbassa la voce» gli intimò bruscamente Qen dopo essersi fermato davanti a loro.

    Hui vide che stava facendo saettare lo sguardo tutt’intorno e aveva gli occhi sgranati per la paura. Era andato in avanscoperta per perlustrare il sentiero, adesso che stavano per raggiungere l’accampamento dei predoni.

    «Cosa succede?» chiese Hui.

    Qen gli afferrò il braccio. «Dobbiamo subito tornare indietro.»

    «Stanno arrivando le Averle? Sanno del nostro piano? Vogliono sbudellarci e lasciarci in pasto agli avvoltoi?» domandò Kyky in preda al panico.

    «Seguitemi» disse Qen, poi si girò e tornò di corsa sui propri passi, chino in avanti.

    Hui sentì accentuarsi l’apprensione. Il fratello maggiore era più alto di lui e magro come un chiodo, con guance scavate che davano l’impressione che non consumasse un pasto sostanzioso da giorni, eppure quando sorrideva si illuminava in volto e chiunque gli stesse intorno si sentiva pervadere dalla gioia. Avevano lo stesso padre, ma madri diverse. Khawy aveva sposato per prima la madre di Qen, Isetnofret – un’unione dettata da motivazioni politiche – e lei gli aveva dato anche una figlia, Ipwet, a cui Hui voleva molto bene. In seguito, però, Khawy si era innamorato di Kiya, morta nel dare alla luce Hui. Questo spiegava come mai i due fratelli fossero così diversi fisicamente, ma anche nel carattere. Qen era duro come le rocce dai contorni frastagliati su quella collina, irremovibile quando voleva qualcosa. E la sua corporatura snella celava una forza notevole: qualche anno prima, Hui lo aveva visto battere una coppia di prepotenti picchiando ripetutamente la testa di uno dei due contro il muro della casa paterna fino a spaccargli il naso, ridurre in poltiglia le labbra e rompergli metà dei denti. Era anche coraggioso, quindi qualunque cosa lo preoccupasse non andava trascurata.

    Corsero raggruppati come facevano sin da quando erano bambini. Qen e Kyky erano le persone di cui Hui si fidava di più al mondo, le uniche a cui era stato disposto a parlare di quella grande avventura. In vita loro avevano passato a malapena un giorno separati. Un tempo erano sfrecciati lungo le strade della Città Alta con le trottole e avevano bisticciato per i birilli, adesso invece erano aspiranti ladri ed eroi. Non potevano che essere insieme, quella notte.

    Qen, in testa alla fila, rallentò il passo, si fermò accanto a un sentiero che costeggiava una gola fra due enormi macigni e levò gli occhi verso l’alto. Seguendo la direzione del suo sguardo, Hui vide stagliarsi contro il cielo stellato sei sagome che sembravano fluttuare sopra il terreno e oscillare nel vento che sferzava l’altura. All’inizio non riuscì a capire che cosa fossero, ma Kyky emise un altro gemito strozzato, lanciò una rapida occhiata a quello spettacolo come se stesse pregando di sbagliarsi e subito dopo girò la testa di scatto, orripilato. Hui raggiunse lentamente il fratello, poi osservarono la scena in silenzio.

    Sei cadaveri erano appesi a una fune tesa fra i due macigni. Avvoltoi e altri rapaci avevano già divorato la carne tenera dei volti: zigomi e mascelle spolpati brillavano nel chiarore lunare e chiostre di denti giallastri sembravano ghignare. A colmare di terrore i tre ragazzi furono però le orbite vuote, profonde e nere come i pozzi dell’oltretomba, che li osservavano dall’alto e li giudicavano indegni.

    Kyky si lasciò cadere in ginocchio e si torse le mani.

    «Le Averle non hanno molto riguardo per le anime delle loro vittime» bofonchiò Qen, fissando le orbite scure dell’orrenda salma più vicina.

    «Un monito» replicò Hui.

    E il messaggio era chiaro: i forestieri avrebbero trovato ad aspettarli solo la morte.

    Spirali di scintille dorate salivano verso le sfavillanti costellazioni nel cielo. Anche se il vento notturno riattizzò il fuoco da campo strappandogli un ultimo ruggito, le fiamme cominciavano a spegnersi e le braci brillavano scarlatte fra la cenere grigia. Nella guizzante luce ambrata oscillava un ammasso disordinato di alte tende squadrate da cui si levarono dei singhiozzi, sicuramente quelli di una giovane prigioniera, subito soffocati.

    Alla luce della luna piena, giaceva assopito il campo delle Averle.

    Un filo di fumo ramingo fece lacrimare gli occhi di Hui, che captò l’aroma dolciastro dello sterco di pecora e della paglia che alimentavano il fuoco. Da quanto tempo era steso bocconi su quella lastra di roccia a scrutare l’accampamento dei predoni, accanto a Kyky e Qen che osavano a malapena respirare? Sembrava un’eternità. Ma doveva aspettare il momento giusto, pur avendo le costole indolenzite e ginocchia e gomiti spellati dopo che avevano strisciato come vipere sul terreno duro per non risultare visibili nel chiarore lunare.

    Un tempo aveva sentito il padre, governatore, raccontare a uno dei dignitari in visita che l’Egitto era stato il più grande impero sulla terra, eppure al momento era assediato da sciacalli su ogni lato e la brava gente viveva costantemente nella paura. Al loro sovrano mancava un erede maschio e il vigore necessario per tenere unita la Grande Casa d’Egitto e, in mezzo al caos, si era levato un falso faraone a sfidarlo nelle propaggini più meridionali del Nilo, dove dominavano i suoi soldati. A ovest comandavano i Libici insieme ai nomadi del deserto, agli habiru, tutti delinquenti e assassini: erano stranieri, non Egizi, non avevano né avrebbero mai avuto alcun diritto su quella terra. E a est i barbari, gli Hyksos, mettevano a dura prova la determinazione dei difensori Egizi con le loro sanguinarie bande di guerrieri. Hui aveva sentito parlare parecchio di quei combattenti spaventosi e pregava di non incontrarli mai.

    Ma, secondo suo padre, erano le Averle a suscitare più timore di chiunque altro. Le bande di predoni, ognuna guidata da un capotribù, seminavano il terrore in tutto il Nilo. Attaccavano alla luce del giorno colpendo persino all’ombra delle mura delle città, falciando qualsiasi uomo, donna o bambino che trovassero sulla loro strada. Prendevano impunemente ciò che volevano, scomparendo poi nel deserto per pianificare la razzia successiva.

    Khawy si era lamentato della debolezza dei funzionari di palazzo, che sembravano incapaci di prendere una qualsivoglia iniziativa volta a catturare e punire quei banditi. «In queste terre le Averle sono una forza capace di rivaleggiare con lo Stato stesso. Nessuno oserebbe sfidarle» aveva sussurrato. «Non sanno cosa sia la bontà o la compassione. Quei predoni assassini taglierebbero la gola alle loro stesse madri, se pensassero di poterne ricavare qualcosa.»

    Ed ecco che Hui osava sfidarle. Forse Kyky aveva ragione a definirlo uno sciocco. Eppure il pensiero delle ricchezze che avrebbe ottenuto una volta tornato in città con la Pietra di Ka, l’imponente dimora che avrebbe potuto avere, persino più vasta di quella paterna, lo stuolo di schiavi, le terre, l’adorazione… Una vita del genere valeva qualsiasi rischio.

    Una tenda più grande delle altre si trovava vicino al fuoco in modo che le fiamme potessero tenere al caldo il suo occupante durante i turni di guardia notturni. Benché nel chiarore lunare apparisse grigia, Hui immaginò che in realtà fosse di un viola sontuoso, una dimora adeguata a un uomo abbastanza potente per capeggiare quei flagelli del deserto. Sopra di essa sventolava un vessillo, strisce nere su un fondo meno scuro, forse rosso sangue, o almeno così avrebbe scelto lui.

    Accanto alla tenda del comandante ce n’era una meno imponente, ma comunque più ampia di quelle in cui riposavano i guerrieri. Doveva essere lì che le Averle tenevano i frutti delle loro razzie, abbastanza vicino perché il loro capo potesse accorgersi dell’eventuale tentativo di uno dei suoi uomini di rubare qualcosa. Quindi era lì che dovevano andare. Con l’indice Hui tracciò un possibile itinerario fra le tende più piccole.

    «Vi prego, ripensiamoci» sibilò Kyky.

    «Sei libero di tornare da tua madre» ribatté Qen con una voce gelida come l’acqua profonda di un fiume. «A farti asciugare da lei le tue lacrime da poppante.»

    «Non è il momento di arrendersi, Scimmietta» sussurrò Hui stringendo la spalla dell’amico. «Non quando il più glorioso dei trofei è quasi a portata di mano.»

    Kyky aveva il viso terreo e lo sguardo fisso. Sarebbe riuscito a dominare la paura e a fare quanto ci si aspettava da lui? Hui non ne era sicuro. Ripensò al macabro spettacolo delle vittime appese alla fune dalle Averle e gli sembrò di risentire il fetore soffocante della putrefazione. Aveva il cuore che batteva all’impazzata e lo stomaco contratto. Il suo piano era sembrato infallibile mentre sedevano nell’ombra del baldacchino sul tetto terrazzato della casa di Khawy.

    «Non siamo guerrieri» sbottò Kyky. «Siamo sciocchi che ridono troppo, cadono lunghi distesi quando sono ubriachi e dicono sempre la cosa sbagliata alle ragazze.»

    Ha ragione, pensò Hui. Ma quella era la loro unica possibilità di diventare qualcos’altro. Il povero Kyky era spesso vittima dei prepotenti. Hui provò un empito di compassione per lui e si chiese come poteva costringerlo ad affrontare altra infelicità dopo quella già sperimentata nel corso della sua breve vita. Mentre erano sdraiati sul terreno polveroso lanciò un’occhiata al fratello, che si sollevò puntellandosi sui gomiti, con aria spavalda.

    «Nostra madre mi ha detto che gli dei hanno un piano preciso per ogni uomo» dichiarò Qen in tono enfatico e severo. «Non lo rivelano con un rombo di tuono bensì lentamente, come il vento che fa emergere una piastra d’oro sepolta nella sabbia. Fanno in modo che sia facile lasciarsi sfuggire quel messaggio perché vogliono che gli uomini prestino sempre attenzione alla loro presenza. Ci troviamo davanti a un bivio: una strada conduce al nostro destino, l’altra a un sentiero su cui gli dei ci puniranno per essere stati ciechi, un sentiero su cui non conosceremo che fatica e sofferenza fino alla fine dei nostri giorni.»

    Hui sentì rizzarsi la peluria sul collo. Provava esattamente la stessa cosa, anche se non sarebbe mai riuscito a esprimerla con altrettanta eloquenza né a incastonarla nella saggezza della madre di Qen, Isetnofret.

    «Questo è il nostro momento» disse il fratello guardandoli.

    Hui annuì. «Dobbiamo scegliere fra una vita di fatica e una vita di gioia.»

    «Mi garantisci che questa è la decisione giusta?» chiese Kyky.

    «Ne sono sicuro» rispose lui.

    Eppure, con l’accampamento così vicino, era impossibile negare la realtà di ciò che li aspettava. Il fuoco da campo crepitò.

    Il bivio. La via che conduce al destino.

    Strizzando gli occhi per ripararli dal fumo Hui vide una sentinella ingobbita accanto a una duna, apparentemente sola. E perché mai avrebbero dovuto essercene altre? Nessuno con la testa a posto avrebbe attaccato quella banda di assassini. L’uomo era immobile come uno dei massi sul pendio, le gambe accostate al petto, la fronte posata sulle ginocchia. Dormiva. Gli dei stavano sorridendo ai tre ragazzi.

    Qen guardò la luna. «Troppo brillante. Tanto varrebbe essere venuti qui a metà giornata.»

    «A quell’ora i nostri anfitrioni non sarebbero stati addormentati e ubriachi» sottolineò Hui. «Era stanotte o niente.»

    Ormai si erano spinti troppo avanti per poter tornare indietro; presto avrebbero saputo quali piani gli dei avessero ordito per loro. Hui spostò lo sguardo da un viso all’altro e poi, con un cenno d’assenso, cominciò a strisciare verso l’accampamento senza perdere mai di vista la sentinella addormentata. Sentì che gli altri due lo seguivano. Pur avendo i gomiti e le ginocchia che bruciavano continuò a trascinarsi lentamente in avanti, silenzioso come una tomba. Le Averle potevano anche essere ubriache, ma furfanti del genere dormivano sempre con un orecchio drizzato e una mano posata sulla spada.

    Raggiunta una fascia d’ombra lungo il margine dell’accampamento si fermò ad aspettare Qen e Kyky. Sentì qualcuno russare sonoramente nella tenda più vicina. Si accostò all’orecchio una mano messa a coppa. Dovevano tenersi pronti a cogliere anche il più piccolo rumore di movimento.

    Quello era il momento più rischioso. Il sangue gli pulsava sonoro nelle tempie mentre girava intorno alla tenda tenendosi basso. In fondo a un labirinto di funi e picchetti il fuoco da campo guizzava con molto meno vigore e il cerchio di luce arancione si era ristretto. Nessuno si muoveva. Di lì a breve Hui si accovacciò davanti a quella che era sicuro fosse la tenda del bottino. Dopo essersi accertato che all’interno regnasse il silenzio tastò i tre lacci di pelle che la tenevano chiusa e ne sciolse i nodi con destrezza. Si sentiva addosso gli sguardi di Qen e Kyky. Facendosi forza, scostò uno dei lembi dell’apertura.

    Una lama di luce proveniente dal fuoco morente fendette il buio all’interno della tenda rivelando enormi ceste di giunchi strettamente intrecciati che arrivavano alla vita di un uomo ed erano addossate a una miriade di orci di terracotta. Una traboccava di amuleti in argento e piatti in rame, scintillanti collane intarsiate di lapislazzuli e cerchi per capelli costellati di pietre preziose strappati alle vittime più ricche di quei razziatori mentre il grano riempiva un orcio il cui coperchio era scivolato a terra. L’intenso aroma dell’olio aleggiava nell’aria. I predoni avrebbero potuto barattare tutto ciò che si trovava lì con qualsiasi cosa desiderassero.

    Hui sgattaiolò dentro, seguito dai compagni. Lasciò socchiuso un lembo dell’apertura in modo che il bagliore delle fiamme illuminasse la loro ricerca e si infilò fra il bottino. Qen passò di cesta in cesta sollevando i coperchi per sbirciarne il contenuto. Kyky, ignorando i gesti frenetici con cui Hui lo sollecitava a raggiungerlo, indugiò accanto all’ingresso, poi ne indicò una colpita dalla lama di luce ambrata che entrava dallo spiraglio, quasi che gli dei l’avessero illuminata apposta per loro. Era separata dalle altre e circondata da uno spazio vuoto, un’anomalia in quel caotico ammasso di oggetti.

    Hui capì cosa aveva notato l’amico: la cesta era stata piazzata con cura dove la si poteva raggiungere agevolmente per esaminarne il contenuto. Sorrise a Kyky, che era sempre stato il più intelligente. Con il batticuore tenne la mano sospesa sopra il canestro, che gli sembrava emanasse una forza fredda, anche se poteva dipendere semplicemente dalla sua immaginazione superstiziosa. Sentì la pelle d’oca ricoprirgli gli avambracci e per un attimo paventò il pensiero di togliere il coperchio e fissare qualcosa che era stato a contatto con gli dei stessi, poi lo alzò cautamente.

    Non vi fu alcun lampo di luce o rombo di tuono, ma mentre fissava l’interno buio Hui udì dei sussurri fluttuargli nella testa, strane voci che parlavano una lingua a lui ignota e apparentemente gravida di un terribile significato. Era il posto giusto.

    Mormorando una preghiera infilò una mano tremante nella cesta e le sue dita sfiorarono un oggetto duro avvolto in quello che sembrava lino morbidissimo. Con la coda dell’occhio percepì un improvviso movimento in fondo al contenitore e si gettò all’indietro con un grido soffocato. Una forma sinuosa uscì di scatto dal canestro. La testa di un cobra gli oscillò davanti, lucida, nera e argentea, scintillando nel chiarore del fuoco. La lingua biforcuta saettò fuori dalla bocca spalancata, i denti colmi di veleno che brillavano.

    Hui si irrigidì per il terrore, ipnotizzato dalle oscillazioni del rettile. In passato era stato testimone della lenta e straziante agonia di un uomo morso da quei canini.

    Kyky sibilò un avvertimento indicando con gesti frenetici l’ingresso della tenda. Il grido involontario di Hui aveva sicuramente svegliato qualcuno! Lui era stato troppo sicuro di sé e adesso li aveva condannati tutti a morte. Si abbassò di scatto e il cobra schizzò in avanti, ma le sue mascelle selvagge si serrarono solo sull’aria. Hui sferrò un calcio alla cesta scricchiolante, che rotolò via insieme al serpente. L’ultima cosa che vide fu la coda arrotolata che sfavillava come metallo fuso mentre si dimenava nei recessi bui della tenda.

    Infilando la mano nella cesta estrasse il trofeo. Doveva controllare. Scostando la pezza di lino sollevò un frammento di roccia nera bucherellata e dai bordi frastagliati, grande più o meno come la testa di un uomo. I suoi occhi sgranati brillarono di meraviglia mentre la fissavano per un attimo, poi riavvolse la Pietra di Ka, se la strinse al petto e corse fuori. Sentì echeggiare delle grida mentre vari fischi risuonavano al margine dell’accampamento. Non appena loro tre fossero usciti allo scoperto sarebbero stati assaliti dalle Averle, ma non potevano certo rimanere ad aspettare lì, nella tenda del bottino: sicuramente sarebbe stato il primo posto in cui i furfanti avrebbero guardato.

    «Zuccone che non sei altro» gli disse Qen, sprezzante. «Per colpa tua siamo spacciati.»

    «Scappiamo, gli dei ci proteggeranno» replicò Hui prima di lanciarsi nelle tenebre velate dal fumo.

    Gli bastò dare un’unica occhiata per sentirsi ghiacciare il sangue nelle vene: tutt’intorno a lui i predoni facevano capolino dalle rispettive tende sbattendo le palpebre per eliminare le ultime tracce di sonno. Alcuni si aggiravano per il campo con passo pesante cercando l’origine del rumore che li aveva destati. Un guerriero brandiva già la spada di bronzo e puntava risoluto verso la tenda che ospitava i frutti delle loro razzie. Quando vide Hui e la Pietra di Ka parve restare sgomento, poi fece una smorfia di rabbia. Un grido d’allarme gli sgorgò dalla bocca salendo verso i cieli, dopodiché l’intero accampamento prese vita di colpo, come un formicaio brulicante che fosse stato disturbato.

    Hui si lanciò in avanti. Il tragitto da seguire appariva chiaro, quindi c’era una possibilità di fuga, per quanto flebile. Mentre correva guidato dall’istinto superò con un salto i tiranti delle tende e i suoi piedi danzarono oltre i paletti. Qualcuno gridò che erano stati derubati, che la Pietra di Ka era scomparsa, il che provocò una nuova ondata di rabbia.

    Hui sentì dietro di sé i gemiti di Kyky, simili al sibilare del vapore che esce da una pentola coperta in ebollizione sul focolare. Mentre sfrecciava oltre il margine dell’accampamento udì uno schianto e un grido. Si girò di scatto scoprendo che non si trattava di Scimmietta, bensì di Qen che era caduto. Kyky, che lo precedeva, si fermò slittando e si voltò.

    Le Averle si radunarono stagliandosi contro il chiarore del fuoco, le spade scintillanti che mandavano lampi. I loro ruggiti si fusero in un unico grido simile a quello di una belva gigantesca ansiosa di riempirsi la pancia vuota. Qen si sforzò di tirarsi in piedi mentre l’orda si lanciava in avanti.

    Il fratello di Hui! Il fratello che amava più di chiunque altro al mondo!

    Prima che Hui avesse il tempo di muoversi, Kyky tornò indietro balzando sopra gli infidi tiranti, afferrò il polso di Qen e lo tirò in piedi. L’altro si raddrizzò di scatto barcollando fra le sue braccia, ma era troppo tardi, le Averle li avevano quasi raggiunti.

    Per un brevissimo istante Qen e Kyky si guardarono negli occhi. Hui non riuscì a capire quale tacita comunicazione stesse passando fra di loro, forse una preghiera di ringraziamento per l’amicizia che li aveva legati, forse la consapevolezza che sarebbero andati incontro alla morte insieme, fratelli sotto ogni aspetto tranne che nel sangue. Qen prese Kyky per le spalle, in quello che era probabilmente un ultimo abbraccio, poi lo fece ruotare di scatto e lo scagliò verso la torma di guerrieri.

    Hui rimase di stucco: Qen non aveva mai mostrato traccia di codardia né di disprezzo per la vita altrui, sicuramente non per la vita di un amico talmente intimo da essere quasi un parente.

    «Fratello, cos’hai fatto?» sussurrò fra sé e sé mentre cercava di capire cosa stesse succedendo davanti ai suoi occhi. Aveva sempre ammirato Qen per la sua audacia e la sua forza, ma quello non era il fratello che conosceva.

    Kyky piroettò all’indietro, mulinando le braccia, e Hui lo vide fare una smorfia orripilata quando si rese conto di quale destino lo aspettava. Fece un mezzo passo verso di lui per aiutarlo, poi si trattenne. Cosa avrebbe potuto fare? Non c’erano speranze.

    L’amico inciampò in una fune e cadde a terra, di schiena. Le Averle si avventarono su di lui urlando.

    Hui fu attraversato da uno spasmo di disgusto. Le urla di Kyky fendettero le grida di trionfo. Era stato tirato in piedi e un braccio muscoloso gli cinse il collo di scatto, pronto a spezzarglielo. I predoni gli tirarono con forza i polsi dietro la schiena e gli premettero le punte delle spade sul petto per poterlo trafiggere all’istante, a tempo debito.

    Qen corse accanto al fratello senza riuscire a guardarlo e quando gli afferrò il braccio per trascinarlo via Hui si scrollò di dosso la sua mano. Era paralizzato, incapace di fuggire e lasciare l’amico al suo destino, pur sapendo che sarebbe sicuramente morto, se fosse rimasto.

    Le Averle parvero percepire il suo tormentoso dilemma e sogghignarono. Consapevoli del proprio vantaggio rallentarono avanzando lentamente con Kyky in mezzo a loro per torturare i due fratelli, per sollecitarli a raggiungerli.

    «Restate dove siete!» ordinò una voce tonante e tutti si zittirono.

    Le Averle si fermarono incespicando a un tiro di lancia da dove erano fermi Hui e Qen. In mezzo all’orda si aprì un varco lungo il quale si avvicinò un uomo alto e snello, la pelle color mogano bruciata dal sole del deserto. Notando gli occhi neri e il naso aquilino Hui capì che aveva sangue habiru. Il nuovo arrivato sogghignò, i denti bianchi che brillavano nella barba scura dalla punta arricciata, e si fermò accanto a un Kyky tremante.

    «Sapete chi avete sfidato?» chiese con un tono arrogante che dimostrava che nessuno osava mai farlo. «Mi chiamo Basti il Crudele e questo titolo è ampiamente meritato.»

    Hui sentì il sangue defluirgli dal viso. Conosceva quel nome e la reputazione che lo accompagnava. Chi non li conosceva, a Lahun? Basti aveva le mani macchiate dal sangue di un migliaio di uomini. Per più di cinque stagioni aveva annientato una lunga serie di carovane che portavano merci dall’Est. Aveva compiuto razzie nelle miniere di rame, passato a fil di spada ogni operaio e massacrato talmente tanti schiavi nelle fertili tenute agricole lungo il Nilo da arrossare i campi. E una volta uccisi quei lavoratori aveva bruciato i raccolti senza motivo, a parte il desiderio di causare sofferenze. Ormai lì crescevano solo erbacce, avevano raccontato i mercanti arrivando a Lahun.

    Il Crudele. Sì, si era davvero guadagnato il suo soprannome.

    «Libera il mio amico» gridò Hui con voce tremula.

    «Lascia perdere» gli sussurrò Qen. «È spacciato, noi invece possiamo ancora salvarci la pelle. Siamo di gran lunga più veloci di queste goffe Averle e loro lo sanno. Siamo più giovani e più pieni di fuoco di loro. Se scappiamo subito, non ci raggiungeranno mai.»

    Hui si stupì del tono freddo del fratello, non l’aveva mai sentito parlare così.

    Basti impartì un ordine, il braccio sulla gola di Kyky venne ritratto e lui lo sostituì con un coltello ricurvo affondandone la punta nella pelle fino a far comparire una goccia di sangue. Kyky cominciò a singhiozzare.

    «Dammi l’oggetto che tieni fra le mani e sarò generoso» disse il capo dei predoni.

    Hui stringeva ancora la pietra avvolta nella pezza di lino.

    Il comandante delle Averle era abbastanza saggio da capire che i due giovani ladruncoli erano in vantaggio: Qen aveva ragione, la giovinezza consentiva loro una velocità che quei razziatori non possedevano più. Sarebbero riusciti a scomparire facilmente nelle tenebre della notte nel deserto e Basti rischiava di non rivedere mai più il suo trofeo, quindi era pronto a negoziare.

    «Vi risparmierò e sarete liberi di andarvene da qui. È un dono che non ho mai offerto a nessun altro nemico» aggiunse. «Inoltre permetterò a ciascuno di voi di portare via con sé una borsa piena d’argento, così tutti sapranno che la crudeltà può essere mitigata dalla misericordia.» Arricciò le labbra in un sorriso tirato che non racchiudeva la minima traccia di calore.

    Hui sentiva la bocca riarsa come le sabbie intorno a loro. Non si fidava affatto di quel predone assetato di sangue, ma cosa poteva fare? Guardò le lacrime che nel chiarore lunare scintillavano sulle gote dell’amico e cercò di immaginare quali terribili pensieri gli stessero vorticando nella testa in quegli istanti. Allungò l’involto verso i predoni percependo il peso della Pietra di Ka al suo interno.

    Basti sorrise, poi annuì e due uomini si fecero avanti per recuperare il dono avuto dagli dei, ai quali Hui rivolse una tacita preghiera perché li salvassero. Pur sapendo che sarebbe dovuto fuggire non riusciva a distogliere lo sguardo dal viso terrorizzato di Kyky. Si accorse che il fratello si agitava, forse sentendosi in colpa per l’atto di codardia appena commesso.

    «Non mi rimane altra scelta se non consegnare la Pietra di Ka» mormorò.

    Quando non ottenne risposta lanciò una rapida occhiata al fratello notandone lo strano sguardo vitreo. Qen scattò all’improvviso, come un enorme serpente che si srotoli di colpo, e gli strappò la pietra dalle mani. Hui pensò che volesse restituirla alle Averle in cambio della loro libertà, invece Qen si girò e corse via.

    «Sciocchi!» urlò Basti. «Questo non è un gioco.»

    Con un gesto fulmineo passò il filo della lama sulla gola di Kyky. Il sangue uscì a fiotti. Kyky emise un gorgoglio, gli cedettero le gambe e cadde all’indietro in mezzo ai predoni, risparmiando così all’amico l’orrore di assistere al suo ultimo istante di vita.

    Hui fu assalito da una disperazione tale che temette di impazzire, ma Basti sollevò una mano e la allungò in avanti di scatto e le Averle si lanciarono verso di lui come una muta di cani liberati dal padrone, serrando ripetutamente le mascelle e ululando, assetati di sangue. Hui si girò e si mise a correre. Intravide la sagoma grigia di Qen che sfrecciava nel deserto e la seguì. Preso in un vortice di sofferenza riusciva a pensare solo che Kyky era stato il più coraggioso di tutti loro. E lui, vigliacco com’era, lo aveva ucciso.

    Ma poi fu pervaso dal disperato desiderio di sopravvivere e cominciò a correre a perdifiato, i pensieri spazzati via dal terrore. Dietro di sé sentiva i rumori spasmodici prodotti dagli inseguitori che non si sarebbero sicuramente fermati finché non fosse morto.

    Una linea scarlatta solcava l’orizzonte davanti ai due ragazzi in fuga. Hui sentiva il petto in fiamme e le gambe che tremavano come se avesse la febbre; Qen barcollava come un ubriaco. Per quanto ancora sarebbero riusciti a scappare prima che lo sfinimento li facesse

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