Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Siamo come le farfalle
Siamo come le farfalle
Siamo come le farfalle
E-book580 pagine15 ore

Siamo come le farfalle

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una nuova emozionante saga familiare che racconta le paure, i sacrifici e il coraggio dei Beneventi e dei Burani, due famiglie con lo sguardo sempre rivolto al futuro.

Dall’Italia del 1724 fino al secondo dopoguerra le loro vite si intrecciano tra gioie e passioni, sogni e ideali, angosce e tradimenti.

Quando i figli crescono e se ne vanno, “tu ti ritrovi a guardare sempre più spesso al passato […]. E pensi a tutte quelle persone che ti hanno preceduto, alle quali devi la vita, e che nessuno ricorda più. Anch’io sarò dimenticata tra due o tre generazioni?
Capisci allora che la vita dura come quella di una farfalla, leggera, evanescente. Un batter d’ali ed è tutto finito. Ma in quel batter d’ali, quanti eventi, quanti cambiamenti, quante sofferenze!”

Così comincia questa saga della famiglia paterna di Lisa Beneventi, una storia che copre gli anni dal 1724, gli anni della costruzione della Reggia estense di Rivalta, a pochi chilometri da Reggio Emilia, voluta da Carlotta d’Aglae, nipote di Luigi XIV, e dal principe ereditario Francesco Maria d’Este, fino al secondo dopoguerra, gli anni dei sanguinosi eventi accaduti nel “triangolo rosso” dell’Emilia.

È la storia di destini che finiscono per intrecciarsi, quello dei Beneventi e dei Burani, con i loro lutti, le loro paure, i loro sacrifici, le loro angosce, i loro tradimenti, ma anche con il loro coraggio, la loro volontà, le loro gioie, le loro passioni, i loro sogni, i loro ideali.

Attraverso i secoli, i Beneventi e i Burani sopravvivono, soffrono, gioiscono, ma guardano sempre avanti, tutti, uomini, donne, bambini, sopportando le ingiustizie, ma anche imparando a lottare contro di esse per affermare i loro diritti.
Non saranno tutti vincitori: alcuni non ce la faranno a sopportare il duro peso della vita. Ma tutti ci lasceranno la stessa eredità: la convinzione che per vivere bisogna “amare la vita”, “aprire le ali e volare”.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2022
ISBN9788831399838
Siamo come le farfalle

Correlato a Siamo come le farfalle

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Siamo come le farfalle

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Siamo come le farfalle - Lisa Beneventi

    1

    La vita è tristezza, superala!


    «Perché avete deciso di andare in Francia?» chiesi un giorno a nonna Elvira, mentre, bambinetta di dieci anni, le facevo compagnia nel suo negozio di mobili in via Palazzolo a Reggio Emilia, dilettandomi a pettinarle i suoi lunghi capelli bianchi.

    «Era il paese più vicino. Chi emigrava dalle nostre parti andava in Francia.»

    «Ma qualcuno in famiglia era partito per l’America, no?»

    «Sì, un mio cugino e anche mio padre. Di mio cugino non si è saputo più niente. Mio padre è tornato quasi subito.»

    «Come mai? Non aveva fatto fortuna?»

    «La sua era stata una fuga, una fuga il più lontano possibile, una fuga dal dolore per la perdita della giovane moglie Elisa. A lei devi il tuo nome, anche se tuo padre l’ha modificato in Lisa: gli sembrava più moderno. Dopo la morte di Elisa, mio padre Giovanni era distrutto. Ci abbandonò. Mio fratello e io fummo allevati dai nonni Clarenzio ed Eloisa alla Barcaccia. Anche mio cugino, il fratello di Concetta che tu hai conosciuto, partì più tardi per l’America, ma lui non fece più ritorno. Non un biglietto, non una cartolina, svanì nel nulla. Forse morì durante il viaggio, cadde in mare durante una tempesta o fece a botte con un poveraccio come lui per un pezzo di pane. Chissà. Tuo padre fece fare delle ricerche negli anni Sessanta, ma di lui non si trovò nessuna traccia. Mio padre Giovanni, invece, tornò qualche anno dopo, forse per la nostalgia dei suoi due figli: eravamo tutto ciò che gli restava di Elisa.»


    Era quindi la Francia il nostro destino.

    Già.


    Fin dal 1724, quando il principe ereditario Francesco Maria d’Este, futuro duca di Modena e Reggio, ottenne in usufrutto dal cugino Foresto d’Este il Palazzo di Rivalta, con le terre annesse, a pochi chilometri da Reggio Emilia, e decise di costruire una seconda Versailles. Il duca Rinaldo, padre di Francesco, aveva dato la sua approvazione a questo contratto nella speranza di allontanare definitivamente la nuora Carlotta Aglae d’Orléans dalla corte di Modena.

    Disapprovava la sua condotta e i suoi atteggiamenti decisamente stravaganti, considerandoli una fonte di pericolo per la moralità delle sue figlie. D’altra parte, come poteva Carlotta, figlia di Filippo II di Borbone-Orléans, duca d’Orléans, reggente di Francia, e di Francesca Maria Borbone-Francia, lei, Carlotta, che era la nipote di Luigi XIV, le Roi Soleil, abituata ai fasti della corte di Francia, come poteva adattarsi allo stile di vita della rigida e provinciale corte di Modena?

    Carlotta si annoiava, senza contare che era stata quasi obbligata a questo matrimonio a causa dello scandalo che era scoppiato a Parigi per la sua relazione intima con il duca di Richelieu. Doveva essere allontanata dal paese per non compromettere le trattative del matrimonio, molto più importante, tra una sua sorella e l’erede al trono di Spagna. Anche Rinaldo aveva delle buone ragioni politiche per volere il matrimonio di suo figlio con Carlotta: controbilanciare i suoi legami con l’impero, imparentandosi con la casa di Francia.

    Ma non aveva fatto i conti con la capricciosa nuora che, per sfuggire alla monotonia della corte modenese, organizzava ogni sera nel suo appartamento allegre cenette con le cognate Benedetta, Amalia ed Enrichetta e alcune gentildonne modenesi. L’allegra comitiva passava la serata al tavolo da gioco, poi usciva attraversando in carrozza a folle velocità le vie di Modena per rientrare a palazzo alle prime luci dell’alba.

    Un altro aspetto che scandalizzava la corte era il modo di vestire della Francese. Spesso, e anche nelle occasioni più solenni, Carlotta si presentava indossando una andrienne, una vestaglia elegante scollata, suscitando così molti commenti. A lei non importava quel che avrebbe detto la gente, era spregiudicata e pensava che, a dimostrarsi saggia ci avrebbe pensato più avanti, nella vecchiaia, come in effetti fu. Scandalizzato, Rinaldo rimproverò aspramente la nuora, la quale scrisse lettere di fuoco al padre lamentandosi dell’intolleranza del suocero e delle assurde regole di vita che questi le aveva imposto: sveglia di buon mattino, messa, pranzo alle undici, poi passeggiata; cena alle otto, e alle dieci tutti a letto. Lei, che era abituata ai lussi e agli agi della corte di Francia!

    In realtà, Carlotta non modificò le sue abitudini. Aveva architettato segretamente un piano per tornare a Parigi: visto che, dopo mesi e mesi, il matrimonio non era stato ancora consumato, sperava di provare che il marito era impotente per poter così annullare quel legame. Ma Francesco non era per nulla impotente. Anzi, era di temperamento sensuale e aveva già avuto parecchie amanti nonostante fosse piuttosto brutto, di carattere scontroso, solitario e anche molto timido. Innamorato dell’esuberante Carlotta, che poi tanto bella non era, si bloccava di fronte ai suoi rifiuti. Da ciò contrasti, malumori e scenate.

    Ciò che teneva uniti i due sposi era il comune risentimento nei confronti del duca. Ormai, Rinaldo aveva rotto i ponti con Francesco e padre e figlio non si parlavano più. Erano diversi. Contrariamente al padre, Francesco era più aperto sul piano politico e mostrava un vivo interesse per le scienze, il diritto e l’arte del buon governo. Non avevano le stesse idee. Tanto più che Rinaldo aveva un debole per il secondo figlio, Gianfederico, bello, affabile, spontaneo, che non esitava, con una certa cattiveria, a mettere in cattiva luce il fratello maggiore.

    Rinaldo passò allora alle vie di fatto: bisognava allontanare Carlotta da Modena. Spedì quindi la coppia principesca nella tetra Cittadella di Reggio, la quale si trovava dove ora sono i giardini pubblici. A Reggio, Carlotta non modificò le sue abitudini. Un aspetto la legava però a Francesco: l’amore per i divertimenti, il teatro, le feste. Carlotta si divertiva ad allestire commedie nelle quali lei stessa recitava. E poiché il teatro della Cittadella era troppo piccolo, decise di farne costruire a sue spese uno capace di ospitare centinaia di persone. Il nuovo teatro fu inaugurato con la rappresentazione dell’Ifigenia di Racine, alla presenza di numerosi spettatori aristocratici reggiani e forestieri.

    Nel frattempo, i due principi, alla ricerca di un palazzo per la villeggiatura, videro, nel gennaio del 1722, una delizia che molto impressionò Carlotta: era il Palazzo di Rivaltella, vicino a Rivalta. Carlotta se ne innamorò, ma fu solo l’anno seguente, dopo la nascita del principino Alfonso, che il duca acconsentì a cedere a Carlotta, in cambio della residenza di villeggiatura delle Quattro Torri, nel modenese, il Palazzo di Rivaltella. Francesco, a sua volta, si era invaghito del Palazzo di Rivalta del cugino Foresto che, all’inizio, tentennava di fronte alle sempre più insistenti richieste del principe ereditario. Portati a compimento tutti gli atti di pace tra il duca e Francesco, Foresto, obbedendo sostanzialmente a un ordine di un superiore di grado nella scala dinastica estense, non ebbe più difficoltà a cedere il palazzo in usufrutto al cugino. Francesco aveva atteso quel momento da mesi.

    Era il 1724 ed erano passati solo quattro anni dal matrimonio di Carlotta e Francesco.

    Iniziarono così i lavori di ampliamento. Carlotta fece restaurare la villa di Rivaltella, Francesco si dedicò anima e corpo al suo palazzo.


    Ma che c’entra Carlotta con la nostra storia?

    C’entra, c’entra.


    La voce dei lavori alla Reggia di Rivalta si sparse ben presto per le campagne. I contadini sudditi del duca non furono per niente contenti, anzi cominciarono a maledire il loro padrone perché sapevano che sarebbero stati obbligati a lavorare gratuitamente almeno un giorno alla settimana come muratori e questo li avrebbe distolti dai lavori nei campi già tanto gravosi e poco redditizi per le loro famiglie. Erano anni di carestia a causa della grande siccità, al punto che molti contadini si erano rifugiati in città per chiedere l’elemosina. Ma Francesco e Carlotta non si curavano certo della miseria dei Rivaltesi.

    Tuttavia, con i nuovi lavori, ci sarebbe stato bisogno di molti muratori, di carpentieri specializzati, falegnami, imbianchini, marmisti, scultori, pittori.

    A San Bartolomeo, a pochi chilometri da Rivalta, abitava la famiglia Beneventi. Essa non era alle dipendenze dirette del duca ma del prevosto della chiesa di quel borgo situato tra i boschi, su una specie di altopiano, ai piedi delle colline del Bianello, l’antico castello di Matilde di Canossa, la viceregina d’Italia. I Beneventi, figli e nipoti di Francesco, che aveva saputo tenere unito tutto il suo clan, erano bravi muratori e imbianchini. Ci sarebbe stato del lavoro anche per loro. Un po’ meno miseria, meno fame e meno freddo. Fu così che Sante e i fratelli, figli di Francesco, il più anziano della famiglia, fecero parte, con una modesta ma sicura paga, delle squadre dei costruttori della reggia che doveva accogliere il futuro duca.

    Furono dieci anni di duro lavoro, sotto il sole cocente dell’estate che bruciava le spalle, o sotto la pioggia che penetrava nelle ossa in autunno o la neve che gelava i piedi nonostante le fasciature che Maria Caterina, la moglie di Sante, faceva al marito e ai suoi figli prima che si infilassero gli zoccoli di legno. L’importante era poter assicurare ai figlioletti più piccoli una zuppa calda la sera e un po’ di polenta a mezzogiorno.

    Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, Sante vedeva il palazzo ampliarsi e arricchirsi di torrioni, appartamenti, terrazze, scalinate. Non aveva mai neppure immaginato niente di simile. Un grande corpo centrale con due ali laterali perpendicolari e due torrioni angolari in modo da formare una vasta corte quadrangolare aperta. Alle decorazioni lavoravano un gruppo di pittori rinomati che venivano da Modena e Bologna. Gli sarebbe piaciuto fermarsi a guardare mentre abbellivano i soffitti con ricchi ornamenti rilucenti d’oro. Di tanto in tanto, quando tornava a casa, benché stanco morto, sdraiato sul pagliericcio in un angolo della grande cucina quando tutti gli altri erano andati a dormire, descriveva a Maria Caterina la maestosità della scalinata in marmo e i lavori di sistemazione dei giardini. Aveva sentito dire che si trattava di un giardino alla francese, come nella grande reggia di Versailles a Parigi. Fontane, cascatelle, statue, tappeti erbosi, boschetti di olmi, labirinti di siepi fitte ad altezza d’uomo.

    Maria Caterina non si stancava di ascoltarlo e poneva domande su domande. Quante stanze c’erano e quante statue, e aveva mai visto il principe e cosa si diceva della principessa. Era tornata nel Palazzo di Rivaltella? La incuriosivano le voci scandalistiche che giravano sulla fille de France che nel luglio del 1730 aveva dato alla luce un graziosissimo principe. Giungevano infatti notizie incredibili sulla paternità del rampollo, sull’ira di Francesco e sui furori del duca Rinaldo. Le incomprensioni tra la corte di Reggio e quella di Modena si facevano sempre più profonde, come se le due città appartenessero a stati separati.

    «Per fare il giardino sono state rubate novantasei biolche al lavoro dei contadini. C’erano delle case, prima, dei campi, degli alberi… sono stati abbattuti e i contadini se ne sono dovuti andare. Senza contare che in questi anni il raccolto del grano è stato scarso e quello delle uve ancora di più,» spiegava Sante alla moglie nel loro dialetto reggiano.

    «Lòur în i padroun… e voi avete avuto del lavoro, che vi importa dei contadini.»

    «Lé mia jost! Anche i contadini hanno bocche da sfamare,» si limitava a risponderle Sante. «Non è giusto! E le tasse continuano ad aumentare e così pure i contributi in ore di lavoro. Dli bestj. Per i padroni, noi siamo come delle bestie, peggio che bestie!»

    «Gnî ché, sò.» Maria Caterina conosceva bene il suo uomo e sapeva come fare per calmarlo e dargli pace con se stesso. «Venite qui, su.»

    «E a palazzo si spende alla gagliarda!»

    Anche il contadino comico Sandroun Zigolla da Ruvelta, nelle pagine dei suoi Almanacchi che venivano letti nelle piazze la domenica, commentava con garbata ironia la vita dispendiosa e godereccia della corte, interpretando così il pensiero dei contadini e dei paesani che, ovviamente, non potevano esprimere apertamente il loro malcontento.

    Sante era preoccupato anche per il figlioletto Francesco. Aveva otto anni quando erano iniziati i lavori e come tanti suoi cugini aveva preso la via della fabbrica della reggia. Andavano avanti e indietro tutto il giorno spingendo carriole, portando sassi, sabbia, mangiando una misera zuppa in una ciotola di coccio, vestiti alla bell’e meglio con calzoni corti e una casacca di grossa tela, dormendo insieme in piccole capanne. I ragazzi non si lamentavano, anzi si divertivano a farsi scherzi di ogni tipo, attenti però a non essere richiamati troppo spesso dai capimastri. Anno dopo anno, felici solo quando potevano rientrare alle loro case e riabbracciare la mamma e le sorelline.

    Ma quell’autunno del 1731 fu più duro degli altri. Pioveva di continuo. Il palazzo era quasi terminato: in quel momento si lavorava al giardino, alle mura che lo circondavano, alle vasche e agli umidi condotti sotterranei che dovevano collegarle alla grande vasca costruita circa un chilometro più a monte, al centro della quale sorgeva il casino Fuggi l’Ozio.

    Un giorno, Sante si rese conto che da un po’ di tempo non vedeva più Francesco. Lo cercò nel gruppo dei fanciulli. Non c’era.

    «Jusfèin, in du l é Francesc? Dov’è Francesco?» chiese al nipote, amico inseparabile del figlio. Avevano la stessa età ed erano come fratelli. Questi si limitò a fare un cenno indicando le baracche. Sante corse con un vago senso d’inquietudine. Lo vide sdraiato nel suo cantuccio. Accanto, il fratello Domenico di undici anni gli teneva una mano. Fu proprio Domenico che, con poche parole, spiegò al padre che Francesco si era ammalato a causa della pioggia e non aveva voluto dire niente a Sante per non procurargli problemi. Francesco era febbricitante e respirava a fatica, ebbe solo la forza di dire al padre: «Purtèm a cà da la mama.»

    Sante lo prese tra le braccia e di corsa attraversò la fabbrica. Prese il sentiero per i boschi, percorse i cinque chilometri fino a San Bartolomeo incurante della pioggia, delle pozzanghere, dei rovi che gli segnavano il volto mentre attraversava il bosco. Non pronunciò una parola. Sperava solo di fare in tempo.

    Quando Caterina li vide arrivare, intuì subito cosa stava succedendo. Corse incontro al marito seguita dalle figliolette più piccole che cominciarono a gridare: «Francesc! L é turné Francesc!»

    «Vi ho riportato vostro figlio, voleva salutarvi.»

    Caterina prese il suo ragazzo tra le braccia. Era ormai un uomo, aveva quindici anni, ma era leggero come una piuma. Lo portò in casa, lo fece sdraiare sul suo pagliericcio.

    «Accendete un fuoco,» disse a Sante. Poi lo strinse a sé e lo baciò, senza versare una lacrima.

    «Ciao, mamma, abbiate cura di Bartolomeo. Ci rivediamo in cielo.»

    Caterina continuò ad accarezzarlo, impietrita, circondata da Maria Francesca, Lucia, Pietro, Andrea, mentre il piccolo Bartolomeo, nella culla, reclamava la sua razione di latte. Poi si alzò continuando a guardare Francesco e iniziò ad allattare il più piccolo dei suoi figli. Il suo pensiero andava a Domenico, Antonio e Giovanni che erano rimasti alla fabbrica.

    Da quel giorno, Caterina non fece più domande a Sante sulla reggia o su Carlotta. Non le interessavano più le feste e i divertimenti della corte in Cittadella, né i sontuosi carnevali che, con l’aiuto dei nobili reggiani, la fille de France organizzava con dame e cavalieri in abiti sfarzosi sopra carri, e cavalieri a cavallo.

    Caterina aveva perso la sua allegria, la sua curiosità, la gioia di vivere che aveva sempre avuto, nonostante la fatica delle gravidanze, la spossatezza per gli allattamenti e la mancanza di un’alimentazione adeguata, gli stenti, gli estenuanti sforzi per dare da mangiare ai figli. Aveva sempre accettato tutto come rassegnato accoglimento della volontà di Dio e con la speranza in un domani migliore.

    Ma ora le era rimasta solo la paura, la paura delle epidemie, della fame e della morte. Ora, le era rimasta solo una profonda tristezza che neppure la compassione e la vicinanza del suo Sante riuscivano ad alleviare.


    «E quando il palazzo sarà terminato, che ne sarà di noi?» chiedeva con insistenza Caterina.

    «I lavori per i giardini continueranno. Cercherò di ottenere un altro incarico. Ma voi non preoccupatevi e badate solo a tenere lontana da Rivalta Maria Francesca. Anzi, fate in modo che non si allontani da casa.»

    Non c’era bisogno di spiegazioni. Maria Caterina conosceva il significato di quelle parole. Il duca e la sua corte sarebbero arrivati al palazzo di Rivalta, avrebbero scorrazzato per le campagne e, se si fossero imbattuti in giovani fanciulle, beh, non avrebbero avuto tanti scrupoli. Erano loro proprietà come le terre, le case, le vacche.

    E poi la guerra era ormai alle porte.

    Fu così che nel 1734 tedeschi e francesi invasero ancora una volta il ducato. I lavori furono sospesi e la coppia principesca non poté inaugurare la reggia. Se ne andarono a Genova, poi a Parigi, a Londra e in Olanda, mentre il duca Rinaldo scappò a Bologna con i suoi tesori, abbandonando i suoi sudditi al loro destino. Gli invasori si spinsero fino sulle montagne dell’Appennino a razziare fieno, paglia e viveri. Solo Rivalta fu risparmiata. Fu perfino vietato agli ufficiali di recarsi a caccia in quelle terre. Ma a San Bartolomeo, dove vivevano poco più di duecento anime in case sparse nella campagna, la paura fu grande. I soldati e i briganti, che vivevano nascosti in quelle terre coperte di boschi, scorrazzavano per le terre di Bibbiano e del Ghiardo fino al Ghiardello, dove si trovava il gruppo di case dei Beneventi. Rubavano quel poco che trovavano, ammazzavano galline e conigli.

    Furono anni di miseria e di paura per Sante e Caterina. Piogge, cattivi raccolti, carestie, malanni. Con i suoi figli, Sante accettava qualsiasi lavoro nei campi, nelle case, nelle chiese. Caterina era in attesa del loro decimo figlio. Due erano morti, Maria Francesca aveva ormai sedici anni e il piccolo Bartolomeo quattro. Con umiltà e pazienza accettava il suo destino.

    Francesco nacque il 20 ottobre 1735, qualche giorno prima che fosse finalmente firmata la pace tra Luigi XV e Carlo VI. Poi, a poco a poco, i francesi se ne andarono, accompagnati dalle lacrime di molte nobili e popolane e dall’odio per il duca che non si era preso alcuna cura del suo popolo. Quando questi tornò a Modena aveva ottantatré anni. Si spense un anno dopo lasciando il governo nelle mani delle figlie Benedetta e Amalia, mentre l’erede militava in Germania e Aglae si dava alla bella vita nella sua adorata Parigi.

    Quando il duca Francesco fece ritorno, nel dicembre del 1737, assunse subito il governo. Finalmente il paese era in pace, una pace che sarebbe durata per quasi cinquant’anni.

    «I lavori alla reggia riprenderanno, Caterina, vedrete, ora andrà tutto bene. E poi dicono che il nuovo duca è molto diverso dal padre, ha viaggiato, ha idee nuove, vuole fare riforme! Noi abbiamo dei conigli, delle galline, una capra per il latte. Possiamo ritenerci fortunati! E poi con l’allevamento dei bachi da seta riusciamo a campare!»

    «La Franceisa l äs pôrtarà via tot! A lei importano solo le feste! Farà imporre nuove tasse e ci porterà via tutto, come ci ha portato via il nostro Francesco,» borbottava Caterina. «E i bachi da seta ce li porteranno via le malattie, come è successo l’anno dopo la morte di Francesco!»

    Sante non riusciva a capire la sofferenza della moglie, la sua incapacità di accettare quello che era il destino di tutti, inevitabile. Erano passati anni, eppure lei non era mai riuscita a superare la morte del suo primogenito né a recuperare il sorriso; neppure dopo la nascita del piccolo Francesco al quale cantava lunghe ninne nanne con lo sguardo perso nel vuoto; neppure dopo il matrimonio di Maria Francesca, che a vent’anni era andata sposa a un contadino di Quattro Castella. Si era sistemata. L’unica consolazione di Caterina era sapere che Antonio Maria, il più gracile dei suoi figli, non avrebbe dovuto patire le fatiche degli altri fratelli. Poco dopo la morte di Francesco, infatti, quando il curato aveva proposto a Sante di fare entrare Antonio in seminario, era stata ben lieta di sapere che il marito aveva dato il suo consenso. Certo, la vita non sarebbe stata facile in quei freddi cameroni dove Antonio sarebbe stato costretto a seguire le rigide regole di vita imposte ai seminaristi. Ma almeno avrebbe imparato a leggere e a scrivere e non avrebbe dovuto penare come i fratelli per procurarsi un piatto di minestra.

    Ora Caterina aveva poco più di quarant’anni, ma nulla era rimasto della giovane fanciulla che Sante aveva sposato un giorno di primavera e con la quale aveva ballato nell’aia dei vicini per tutta la sera, come fossero i padroni del mondo, i principi di San Bartolomeo in Sassoforte.

    Si spense la sera di un settembre ancora mite e luminoso.

    Era il 1743.

    Dei forti dolori al ventre, che non aveva osato confessare al suo Sante, l’avevano da tempo stremata. La morte fu per lei una liberazione. Non per Sante che le sopravvisse per circa trent’anni. Lui ebbe tuttavia la gioia di vedere la sua casa riempirsi di un gran stuolo di nipotini, i figli di Domenico, di Pietro, di Giovanni e di Francesco. Guardandoli crescere, schiamazzare e giocare, Sante riusciva a superare la sua tristezza e la nostalgia di Caterina.

    La vita la và avanti… pensava con la saggezza che l’età gli concedeva con generosità. Spròm al bèin. Speriamo che loro abbiano un mondo migliore!

    2

    La vita è un dovere, compilo!


    E Carlotta, che fine fece?


    La bella Carlotta tornò in Italia nel 1739 e vi restò ancora per qualche tempo.

    La reggia era ormai terminata e i principi cominciavano a soggiornarvi accogliendo ospiti illustri. Si organizzavano sontuose feste da ballo con grandiose illuminazioni, musiche e fiori.

    Quando la corte arrivava da Modena percorrendo il lungo stradone che da Reggio conduceva a Rivalta, i paesani accorrevano per vedere le belle carrozze dorate scortate dai cavalieri nelle loro lucenti armature. Erano soprattutto le fanciulle, le più curiose. Speravano di intravedere dai finestrini le belle dame con le loro ricche acconciature ornate di nastri, trecce e fili d’argento.

    Tra di loro vi era anche Angelica Burani. Piccoletta, con gli occhi chiari e una folta chioma di colore fulvo, saltellava di qua e di là per la smania di non lasciarsi sfuggire nulla di quel fantastico passaggio che avrebbe alimentato per notti intere i suoi sogni. Aveva allora diciassette anni. Poteva uscire solo per poco tempo perché, dopo la morte del padre Natale, che aveva un debole per lei, ultimogenita dopo quattro fratelli maschi, era difficile lasciare la villa del cavalier Cesare Cavalletti presso il quale lavorava la sua famiglia, dopo avere lasciato la reggia: le leggi del fratello Prospero, il capofamiglia, erano molto severe.

    Le giornate di Angelica erano tranquille, ma sempre uguali. Mentre i fratelli Giuseppe e Antonio lavoravano nei campi e Prospero si occupava della villa, della sua manutenzione e del guardaroba del cavaliere, Angelica filava la canapa, cuciva e ricamava in compagnia della madre Francesca.

    Ormai anziana, la madre la osservava lavorare con uno sguardo misto di adorazione e d’inquietudine. Si sentiva sempre più affaticata e incapace di aiutare la figlia e le nuore, anche se continuava ad avere le redini della casa. Di fatto era Domenica, la moglie di Prospero, che si occupava della cucina, delle faccende domestiche, degli animali da cortile. Filava la lana e confezionava gli abiti. Da lei dipendevano Angelica e Teresa, la giovane moglie del cognato Giovanni. Teresa l’aiutava in alcuni lavori nei campi come mietere, lavare la canapa nei maceri, raccogliere le foglie degli alberi per il bestiame, allevare i bachi da seta. E quando i padroni erano in villa, doveva anche servire come domestica in casa del cavaliere.

    Domenica era entrata in casa Burani quando Angelica aveva solo due anni. Francesca sapeva che la nuora voleva bene ad Angelica, quasi come se fosse figlia sua, ma leggeva nel suo sguardo anche del risentimento, forse per il legame che lei e la figlia avevano e che la escludeva.

    Fra Angelica e la madre, infatti, vi era un rapporto molto stretto, raro a quei tempi. Forse perché era nata quando Francesca e il marito erano già molto avanti negli anni tutti e due: lei aveva quarantasei anni e Natale si avvicinava alla sessantina. Francesca, che aveva perso due femmine e un maschio in tenerissima età, aveva accettato Angelica come un dono di Dio, un piccolo angelo che veniva a rallegrare la sua vecchiaia. Si legò a lei in modo quasi morboso. Non volle che andasse a servizio neppure dai Cavalletti, per paura che qualche membro della famiglia, o qualche loro ospite, approfittasse della sua bellezza e della sua ingenuità. Se la tenne vicina, accontentandola in tutto. Angelica non si stancava mai di ascoltare i racconti della madre che le faceva intravedere un mondo fantastico di feste sontuose con principi e principesse, duchi e duchesse.


    «Mé äi éra na putèla ¹… quando sono entrata al servizio dei duchi d’Este nella Villa di Rivalta,» le raccontava Francesca, spiegandole che tanto tanto tempo prima la reggia era stata una torre difensiva acquistata poi dall’antica famiglia degli Alpi di Reggio per farne la loro casa di villeggiatura. Questi l’avevano ingrandita e ne avevano fatto una dimora fiabesca. «L éra äl piò bèl palas äd campagna äd Res ².» I nobili reggiani e gli stessi principi facevano delle gite a Rivalta per vedere quella meraviglia. Ma poi, si sa, le fortune vanno e vengono e gli Alpi fecero tanti debiti che persero tutto. Il palazzo passò al duca, poi a vari altri padroni. Fu lì che la corte di Modena si trasferì quando scoppiò la grande peste del 1630 perché l’aria era migliore. Fin quando il palazzo fu acquistato da Borso d’Este, figlio del duca Cesare, assieme a due case da mezzadri, con stalle e biolche di terre, giardino, orto e altre costruzioni.

    «E voi lavoravate in quel palazzo?»

    «Sì, io lavoravo proprio lì, nelle cucine,» continuava a raccontare Francesca. «Chi si occupava della villa erano Giovanni e Angelica Burani, i tuoi nonni, con i loro figli assieme ai fratelli di Giovanni e alle loro famiglie. Erano una vera e propria tribù. Stavano bene, erano ben pagati per quei tempi. Poi c’erano il fattore e tutti i contadini che lavoravano le terre. Anche la mia famiglia abitava poco lontano, sulle colline della Mucciatella, e siccome eravamo nove figli, cominciai molto presto ad andare a servizio. Avevo sette anni.»


    I Burani erano arrivati a Rivalta quando il principe Borso aveva cominciato a far restaurare la villa per farne la sua dimora principale e vivere con la sua giovane sposa, la nipote Ippolita, figlia di suo fratello, lontano dalle maldicenze e dai pettegolezzi per quella unione incestuosa.

    Marmi, colonne, capitelli, quadri, mobili di pregio fatti costruire appositamente, e cornici dorate abbellivano il palazzo. Attorno si era sviluppato una sorta di villaggio con un mulino e un’osteria a fianco della palazzina. Ma dopo dieci anni di matrimonio, Ippolita morì. Il principe Borso era disperato per la perdita della moglie di serenissima bontà e rara qualità, come affermava lui stesso, e un anno dopo, alla fine del 1657, morì anche lui a Castel San Giovanni, dopo avere cercato inutilmente di assediare Alessandria a capo dell’esercito estense con il principe Alfonso.

    I tre figli si divisero l’eredità e Rivalta toccò a Foresto, il quale però non era smanioso di venire alla villa. La diede in affitto a diverse famiglie di nobili che vi trascorrevano l’estate in villeggiatura. Angelica e Giovanni restarono per un po’ al servizio di questi signori.

    «Mi ritenevo molto fortunata, perché non ci mancava niente e avevamo sempre qualcosa da mangiare, ma dovevo stare molto attenta a non rompere nulla nelle stanze del palazzo, quando aiutavo nelle pulizie, altrimenti erano guai con Angelica!»

    «Si chiamava come me!»

    «L éra tò nona. Tu non eri ancora nata quando è morta e sono stata io a volerti chiamare come lei.»

    «Perché?»

    «Mi piaceva. Era una donna di poche parole, molto energica, un po’ burbera, ma molto bella, con i suoi fulvi capelli ricci, proprio come i tuoi. Mi voleva bene. Quando ero arrivata alla villa, scalza, vestita con un misero abito di tela ruvida, i capelli lunghi e arruffati, mi immerse in una tinozza di acqua fredda, giù nella grande cucina, mi strofinò ben bene, mi tagliò i capelli corti corti perché erano pieni di pidocchi e mi diede un vestito pulito che era stato della figlia Elisabetta. Poi mi pose davanti una ciotola di latte, senza dire una parola. Da quel momento la considerai come una madre. La mia, l’avevo vista ben poco, sempre occupata nei campi o a cercare legna per riscaldarci. Ero cresciuta come una piccola selvaggia, dentro e fuori casa, sola, con i miei fratellini. Angelica mi insegnò a cucinare, a cucire, a tessere, ad allevare i bachi da seta e mi trattava come una figlia.»

    «Eravate felici!»

    «Io sì, anche perché andavo d’accordo con i figli di Angelica, soprattutto con Natale che era molto più grande di me. Alla sera, quando rientrava, mi portava sempre un frutto o un fiore da mettere tra i capelli. Era gentile. Suo padre Giovanni, invece, era di poche parole coi figli e con Angelica. Quando aveva finito il lavoro, andava all’osteria del borgo a bere un bicchiere di vino rosso e spesso… tornava ubriaco. I primi tempi lo sentivo alzare la voce con la moglie, rinfacciandole non so quali colpe. C’era del rancore tra loro, un rancore di lunga data, che il tempo non riusciva a sopire.»

    «Perché?»

    «Natale mi raccontò molto più tardi la loro storia. Angelica veniva da una buona famiglia di contadini, i quali possedevano un piccolo fondo. I suoi genitori l’avevano promessa in matrimonio a Giovanni Burani che, ai loro occhi, era un buon partito, essendo al servizio degli Estensi e vivendo a palazzo. Ma la bella Angelica si era promessa segretamente a un giovane di Rivalta, un certo Ferrari, di cui si era innamorata. Non ne voleva sapere di sposare Giovanni. Lui non si diede per vinto e fece causa presso il tribunale ecclesiastico. La causa andò avanti per mesi e mesi. Furono interrogati molti testimoni e alla fine Giovanni vinse. Non si poteva e non si può ancor oggi annullare una promessa di matrimonio fatta dai genitori. O Angelica lo sposava o era obbligata a pagare tutte le spese al tribunale ecclesiastico e un grosso risarcimento. Si dovette rassegnare: sposò Giovanni. Ma non lo perdonò, come lui non perdonò lei. Angelica fece il suo dovere di moglie e gli diede tre figli: Bartolomeo, Natale ed Elisabetta. Dopo la nascita dell’ultima figlia, Angelica non volle più dormire con Giovanni. Diceva che non stava bene, che il parto l’aveva stremata… Continuò così per anni. Finché una notte Giovanni rientrò ubriaco, gridando che era suo diritto di marito… e con violenza la prese. Le strappò di dosso il camicione che portava, le bloccò le braccia che invano cercavano di liberarsi da quella stretta e penetrò in lei sfogando tutta la sua rabbia, ma anche la sua passione. I figli, nella stanza accanto, sentirono le grida e l’ansimare del padre, i tentativi della madre di liberarsi e le sue urla. Bartolomeo e Natale cercarono di coprire con una coperta me ed Elisabetta affinché non fossimo testimoni di quella follia. Quando tutto fu finito, Giovanni si girò nel letto senza dire una parola. Anche Angelica smise di gridare. Tutto tacque. Tra quei due corpi nudi, solo il silenzio gelido e duro come un macigno. Ma qualcosa di incomprensibile era accaduto quella notte e quando, dopo qualche ora insonne, si volse verso Angelica, Giovanni aveva il volto rigato di lacrime. Le prese il viso tra le mani, dolcemente, la accarezzò, la baciò sulla fronte, sulle labbra, sugli occhi e le sussurrò: «Perdonatemi! Non volevo farvi del male! Non succederà mai più!». Angelica guardò quegli occhi così tristi ed ebbe pena per quell’uomo che aveva tanto sofferto per colpa sua. Non riuscì a trattenere le lacrime neppure lei e non seppe far altro che lasciarsi baciare e accarezzare mentre gli mormorava: «Perdonatemi anche voi per tutto il male che vi ho fatto!»

    Da quel giorno Giovanni non andò più all’osteria. Apparentemente fu l’unico cambiamento nella loro vita. Solo Bartolomeo e Natale si accorsero che c’era qualcosa di diverso fra i loro genitori. Non più urla o silenzi ingiustificati da parte del padre, non più musi e mugugni da parte della madre. Non sfuggivano loro certi sguardi tra Giovanni e Angelica: dicevano molto più delle parole e lasciavano trapelare il sorriso delle loro anime infine ritrovate. Fu forse quell’atmosfera astiosa che Natale aveva percepito da bambino tra i suoi genitori a impedirgli di pensare per lungo tempo al matrimonio? Forse. Amava la solitudine, la caccia nei boschi e il suo lavoro nella grande proprietà nobiliare.

    «E come avete fatto allora a sposarlo, madre?» chiese la piccola Angelica in una di quelle giornate dense di confidenze.

    «Fu Angelica, tua nonna, che si accorse che fra me e Natale c’era una simpatia. Lui continuava a considerarmi una bambina, o almeno così credevo, ma trovava ogni scusa per venire in cucina a scherzare con me e a prendermi in giro se mi vedeva con un nuovo grembiule da cameriera. Io arrossivo dalla testa ai piedi quando lo incontravo e, non potendo nascondere la mia emozione, mi davo da fare per trovare qualcosa che mi impegnasse o mi allontanasse da lui. Fu quindi Angelica a convincere Giovanni ad andare a parlare con i miei genitori e a combinare il matrimonio. Ci sposammo alla Mucciatella alle sette del mattino, in una dolce giornata di fine settembre del 1701. A quell’epoca vivevamo ancora al palazzo. Angelica mi aveva regalato una bella mantellina bianca che misi sul mio abito migliore. Mi sembrava di essere una principessa. I signori non erano in villa e così potemmo trascorrere la mattina con i nostri genitori, i nostri fratelli e le nostre sorelle e gli altri servi nella grande cucina del palazzo. Poi ciascuno tornò al proprio lavoro.»

    «E le vere principesse come vestivano?» chiedeva Angelica curiosa, saltando di palo in frasca.

    «Non certo come noi, che abbiamo solo due vestiti, uno da lavoro e uno per la festa! Ma a quel tempo gli abiti delle signore erano più semplici di quelli che portano oggi le nobildonne. Di giorno indossavano una lunga sottoveste bianca con sopra un corpetto e una gonna lunga che copriva tutto il corpo. Spesso mettevano un largo colletto fatto di ruches, la gorgiera, che circondava il collo. Ma la più elegante di tutte è sempre stata la principessa Carlotta. Quando arrivò la prima volta dopo il suo matrimonio, tu avevi solo due anni; vestiva alla moda di Parigi con ampie vesti sostenute da una specie di intelaiatura con un grande strascico, e portava bianche parrucche. Fu lei a introdurre l’uso della parrucca che era stata per lungo tempo vietato qui da noi. Ma Carlotta era ed è tutt’ora una donna troppo capricciosa, già allora si lamentava di tutto: del freddo, della scomodità delle sedie, del cibo. Si annoiava e voleva sempre organizzare feste. Le sue dame di compagnia e le sue cameriere personali non la sopportavano più! È per questo che il duca Rinaldo, che aveva acquistato la villa di Rivaltella, la cedette a Carlotta in cambio della villa delle Pentetorri: per tenerla lontana dalla corte di Modena. O almeno così si diceva.»

    «Ma io sono nata al palazzo di Rivalta?»

    «Sì, siete nati tutti lì, tu e i tuoi fratelli.»

    «Quanto mi piacerebbe vederlo dentro…»

    «Sì, è certamente una villa principesca, soprattutto dopo i lavori fatti fare dal principe Francesco dopo il 1726. Ci sono tanti appartamenti dorati coi soffitti dipinti, saloni, scale in marmo, poi ci sono i servizi di cucina e le cantine nel seminterrato, due grandi e lunghe ali e le stanze per la servitù, dove stavamo anche noi. Tutta la famiglia Burani abitava al palazzo. Era un altro mondo… E nel giardino vi sono grotte, fontane, viali e percorsi, lunghe siepi, vasi e giardini e poi giochi d’acqua alimentati con canali sotterranei da una grande vasca che si trovava nel Casino Fuggi l’Ozio. Una meraviglia!»

    Angelica ascoltava incantata i racconti della madre con gli occhi spalancati e la incalzava con domande su domande.

    «E parlavate in francese?»

    «Tutti alla corte parlavano in francese. Era la lingua usata dai principi e dagli aristocratici. Noi, però, in famiglia e con gli altri servi parlavamo in dialetto come adesso, ma capivamo anche il francese. Per obbedire agli ordini, bisognava capire.»

    «Sapete, madre, dicono che il duca e la duchessa non vivono più insieme e che la duchessa è tornata a Parigi e che il duca a Modena ha avuto dei figli da una damigella di corte.»

    «Non dar retta alle chiacchiere!» l’ammoniva Francesca, scuotendo la testa. Anche lei però aveva sentito dire che la vita di Carlotta era sempre più dissoluta. A Modena, dopo il teatro o il ballo, giocava a biribisso tutta la notte, cenava alle sei del mattino, si coricava alle otto e si alzava alle cinque del pomeriggio. Che esempio era per i suoi figli? Si diceva anche che il duca negli ultimi tempi non si curava più di allontanare dalla corte di Carlotta, come avevano sempre fatto prima sia lui che il padre Rinaldo, quei giovani gentiluomini verso i quali lei mostrava fin troppa simpatia. Francesca ne ebbe la conferma da Angelica.

    «Quando la vidi l’ultima volta, aveva una gonna talmente ampia, sarà stata larga cinque o sei metri con tutti quei cerchi sotto, che quasi non riusciva a uscire dalla porta della carrozza! Una comica! Aveva tante balze di pizzo, volants, nastri… Non so come facesse a respirare tanto il corpetto la stringeva! E poi era diventata così grassa! Era talmente grossa che non riusciva nemmeno a salire le scale e dovettero trasportarla in poltrona! E avessi visto i cicisbei che accompagnavano le dame! Che ridere facevano con le loro moine!»

    «Aveva da poco dato alla luce il suo nono figlio, una femminuccia, Maria Antonietta. Non è stata molto fortunata. La morte non guarda in faccia nessuno. A me il Signore ne ha presi tre. E tre ne ha presi anche a lei.»

    Ma Angelica non era ancora pronta per i lutti e le sofferenze, anche se gli anni passavano…

    «Madre, potrei avere una mantellina di mussolina per la sagra di ottobre?»

    «Sogni troppo, Angelica! Noi siamo semplici servi, ricordatelo. Sono anni duri questi… E poi sai che Prospero… Ma… vedremo…»

    «Oh, sì, mamma!» insistette Angelica. «Ci sarà un ballo per la sagra… Ormai la guerra è finita! Gli austriaci e i piemontesi se ne sono andati e non siamo più obbligate a chiuderci in casa da mattina a sera e a tremare di paura quando li sentiamo arrivare a cavallo! E poi ho ventiquattro anni ormai…»

    Francesca guardò la figlia che parlava con occhi sognanti, e comprese i suoi pensieri: l’amore, il matrimonio, forse un ragazzo che già le interessava. La donna soffriva sapendo che forse i suoi sogni non si sarebbero mai realizzati. Lei aveva sempre più bisogno del suo aiuto, senza contare che Domenica aveva da poco partorito il decimo figlio.

    «La guera l’è f’nida, adèsa, ma lor in seimper prunt a féren n’étra.» Era Prospero, il più vecchio e il più saggio dei fratelli Burani, quello che aveva preso il posto del padre. Rientrava allora coi fratelli e, sentendo parlare di austriaci e piemontesi, aveva colto la palla al balzo per esprimere tutta quella rabbia che non riusciva più a nascondere da quando la lunga guerra per la successione d’Austria aveva portato nelle campagne reggiane eserciti stranieri che spargevano confusione e terrore. Era convinto che i potenti erano avidi e, per ampliare il loro dominio, sempre pronti a fare e a disfare alleanze, a reclutare i poveri contadini per le loro guerre. E non amava molto il duca Francesco, indeciso e subdolo negli affari di politica estera.

    «Dai, Prospero, non essere così severo!» lo rimbeccò Antonio. «L é seimper dmèj que sò péder!»

    «Meglio di suo padre? Ma se ha fatto un sacco di debiti per queste guerre e ora spende altri soldi per i lavori alla reggia, perché sta già andando in rovina! E noi siamo stati mandati via dal palazzo! Non avevano più bisogno di noi!»

    «Sì, ma il duca ha venduto delle cose preziose per pagare i suoi debiti e poi ha conservato il suo territorio, e con il matrimonio del principe ereditario Ercole Rinaldo con Maria Teresa Cybo, la Signoria ora arriva fino al mare!»

    «Come mi piacerebbe vedere il mare!» sussurrò Angelica.

    «Maria Teresa, poverina… così giovane e così sfortunata! A sedici anni, costretta a sposare un ragazzo più giovane di lei, che non ne vuole sapere di questo matrimonio, la costringe a vivere a Modena, e la umilia apertamente… con tutte le sue amanti!» commentò Teresa senza far caso allo sguardo severo e duro di Domenica. Prospero sapeva che la moglie non amava questi pettegolezzi su principi e principesse. Dovevano pensare al lavoro, loro.


    Le vicende dei governanti erano invece gli argomenti preferiti dai fratelli Burani che non perdevano occasione per discutere di guerre, di riforme, di tasse, di affari di stato – per quel che ne potevano sapere loro – quando tornavano dal lavoro e mentre aspettavano la cena.

    «Ma che principe è,» ridacchiava Prospero per stuzzicare il fratello più giovane, «uno che scappa via con la moglie e i figli ogni volta che un esercito nemico entra in Reggio? L é un pipîn ³!» E, avrebbe potuto aggiungere, un principe che all’assalto notturno di Lobcovitz fu costretto a fuggire in camicia e mutande correndo pure il rischio di essere fatto prigioniero con il re di Napoli!

    «In tòti ciâçri! Tutte chiacchiere!» gli rispondeva Giovanni.

    «E che lascia la moglie a Parigi a divertirsi! E i suoi debiti? Chi li pagherà secondo te?» Il suo tono non era più scherzoso, come quando rispondeva ad Antonio.

    C’era una sorta di astio, di rancore represso nella voce di Prospero nei confronti di Giovanni. I due fratelli erano sempre andati d’accordo, ma da un po’ di tempo si percepiva una tensione da parte di Prospero, che non sembrava più lo stesso.

    Discutevano tutte le sere con rabbia, con Antonio che cercava di calmare le acque. Andavano avanti fino a quando bisognava accendere la candela e capivano che era giunto il momento di andare a letto. Loro non avrebbero potuto cambiare le cose.

    Erano discorsi da uomini: Francesca, Angelica, Domenica e Teresa ascoltavano in silenzio mentre servivano la cena. Francesca era inquieta. Aveva già sentito discussioni simili fin da quando era bambina e non amava che i toni si alzassero e che i suoi figli finissero per litigare. Sapeva che i soldati invasori, di qualunque razza fossero, facevano il bello e il cattivo tempo, comportandosi con durezza e senza alcun ritegno. Anche se difficilmente alloggiavano presso i nobili e i ricchi, e per questa ragione i Burani si potevano ritenere al sicuro, si viveva ugualmente nel terrore in periodo di guerra. Bisognava guardarsi dai furti di polleria, di biancheria esposta al sole ad asciugare; sprangare le porte perché, col pretesto di voler fieno per i cavalli, entravano con la forza, mangiando e bevendo, rubando denaro, ori e quanto piaceva loro, arrivando a oltraggiare e violentare donne vergini. Il presente non era certo roseo. Francesca vedeva la miseria crescere ovunque. I prezzi aumentavano spaventosamente e la gente povera disperava di poter sopravvivere. Chi aveva dei fondi, come il cavalier Cavalletti, temeva di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1