Abafi
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“Una volta mi imbattei in una novella intitolata Il Figlio Di Aba, una traduzione serba dell’opera di Josika, un famosissimo scrittore ungherese. Questo libro riuscì a risvegliare la mia forza di volontà nascosta e iniziai così a praticare l’autocontrollo.” - Nikola Tesla
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Anteprima del libro
Abafi - Miklós Jósika
Titolo originale Abafi ‒ I edizione 1836 Budapest
di Miklós Jósika
Traduzione dall’originale a cura di Antonino Branca
Direttore di Redazione: Jason R. Forbus
Progetto grafico e impaginazione: Sara Calmosi
ISBN 978-88-33467-45-0
Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2020©
Narrativa – Classici internazionali
www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com
È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.
Indice
Nota alla traduzione
Premessa
Una casa di campagna
L’amazzone
Il cialtrone
Gioia
Abafi
Kolosvár nel 1594
Una struttura in legno
Tre dame
Casa Rása
L’uomo rosso
Conseguenze di una scommessa
L’oratore
La locanda
Il piccolo Tóbiás
L’urlo
Casa Mikola
Statua vivente
Delirio
Csetátye Boli
Fulmine
Un cavaliere nero a mezzanotte
Sala da ballo
Il castello di Trencsi
Máté Tornya
Il cavaliere del cigno
Il paladino smaltato
Una bella coppia
Venti di guerra
Il bagno
Báthori condottiero
Conseguenze della battaglia
Gratitudine e morte
Il piccolo Zsiga
Un desiderio senza speranza
Gizella
APPENDICE I: Una parola o due sull’effetto morale e sulla giustizia poetica
APPENDICE II: Sulla follia e sul delirio febbrile
Abafi
Miklós Jósika
romanzo storico
AliRibelli
Nota alla traduzione
...Una volta mi imbattei in una novella intitolata Il Figlio Di Aba, una traduzione serba dell’opera di Josika, un famosissimo scrittore ungherese. Questo libro riuscì a risvegliare la mia forza di volontà nascosta e iniziai così a praticare l’autocontrollo.
Nikola Tesla
Alcuni anni fa, leggendo l’autobiografia di uno degli uomini più geniali, sfortunati e sottovalutati del ‘900, lo scienziato e inventore serbo Nikola Tesla¹, mi incuriosì il fatto che, come fonte di stimolo ed ispirazione per la propria forza di volontà ed il proprio autocontrollo, avesse citato un testo decisamente lontano dall’ambiente scientifico; si trattava infatti di un’opera di narrativa e precisamente di un romanzo storico: Abafi² dell’ungherese Miklós Jósika, risalente, come prima edizione, al 1836.
Tesla aveva così tanto stuzzicato il mio interesse che leggere quel romanzo era diventato per me un passo obbligato. Dovetti però presto amaramente riscontrare che non ne esisteva un’edizione in lingua italiana. La cosa mi sorprese, soprattutto perché l’opera è unanimemente riconosciuta quale primo esempio di romanzo storico della letteratura ungherese ed è pertanto considerata fondamentale.
Iniziai la lettura di una versione in lingua inglese, acquistata in edizione digitale³, ma l’impatto non mi soddisfaceva... Decisi pertanto di imbarcarmi nella traduzione dall’originale, liberamente accessibile in rete in quanto di pubblico dominio.
La traduzione è stata obiettivamente lunga e laboriosa, un lavoro certosino di anni che troppo spesso ho rischiato di abbandonare; mi sono servito degli strumenti e delle fonti disponibili in rete, consultando diversi dizionari e dedicando giornate intere alla lettura dei momenti della storia della Transilvania che fanno da sfondo al romanzo. Saltuariamente consultavo la traduzione inglese per qualche riscontro a posteriori.
Il passo successivo è stato quello di rendere il risultato in un accettabile italiano, facendo il possibile per riportare con una certa aderenza all’originale ciò che era nelle intenzioni dell’autore. Il mio proposito era quello di realizzare una traduzione letterale; spero di esserci riuscito in massima parte...
È stato inoltre interessante entrare in contatto con una realtà storica che non mi era nota: la vicenda narrata è infatti ambientata in Transilvania nel finire del sedicesimo secolo e una buona parte dei personaggi del romanzo ha una consistenza storica (come esporrà lo stesso autore nelle note e in qualche passaggio della narrazione). Il protagonista, Olivér Abafi, invece, per ammissione dell’autore, è una figura di fantasia; a me piace pensare che magari si sia riferito ad un personaggio reale, mascherandone l’identità. Infatti Josika in premessa afferma che nella storia narrata ...c’è più verità che finzione…
.
Per quanto riguarda il romanzo in sé… non anticipo nulla. Mi sbilancio solo per un paio di considerazioni: le quattro principali figure femminili che orbitano attorno al protagonista sono sublimi; alcune parti del romanzo mi hanno realmente e profondamente emozionato; e non mi succedeva da tantissimo tempo per la lettura di un’opera di narrativa.
¹ Nikola Tesla: Le Mie Invenzioni – Autobiografia di un Genio – Traduzione di Antonio Tozzi – 2012 Piano B Edizioni Prato – Titolo originale My Inventions pubblicato a puntate nel 1919 sulla rivista "Electrical Experimenter".
² In serbo il titolo è stato reso come Il Figlio di Aba, presumibilmente perché il cognome Abafi era originariamente un patronimico. Nei fatti, però, il padre di Olivér Abafi è citato nel romanzo con il nome di Gedeon Abafi.
³ 2013 – Joey Payne Editor.
Premessa
Qui consegno in mano al lettore il ritratto di un’anima. Il proposito è serio e dimostra che con una volontà tenace tutto il male può essere sconfitto, anche se la strada per la perfezione è ardua e sono in agguato innumerevoli ricadute verso il male abituale; ma la forza dello spirito alla fine ne esce vittoriosa, se davvero lo vuole.
Anche se in questa storia ho privilegiato la vita interiore, ho anche cercato di rendere una certa vivacità superficiale, veicolando l’argomentazione seria attraverso gli assai variegati intrecci di una vicenda, in cui è contenuta più verità che finzione, con l’intento di venire incontro alle aspettative tanto del grande pubblico quanto del lettore più raffinato. Se la mia sensazione è corretta, se sono riuscito nel mio intento, lo deciderà il lettore.
Una casa di campagna
Va’ figlio – egli disse
Walter Scott
Alvinc, nella splendida valle del fiume Maros, è uno dei villaggi più piccoli della Transilvania. Attorno ad esso si stendono fertili campi che garantiscono raccolti abbondanti ai bravi contadini del posto. Oltre il Maros sorgono verdissimi e rigogliosi vigneti, mentre sul lato opposto i semplici tetti di paglia di Borberek evocano un paesaggio da fiaba.
Nel centro del villaggio si trovano le pareti dirute di un’antica dimora principesca, che al tempo della nostra storia era ancora intatta. Si dispone su due ali, nella facciata di una delle quali si apre un imponente ingresso sormontato da un arco; gli altri due lati sono in rovina e vengono usati come magazzini. In uno degli angoli di quest’ala esistono ancora due o tre pareti della stanza in cui György Martinusius¹ fu ucciso e gettato da una finestra, per rimanere poi lì a lungo insepolto.
All’estremità occidentale del villaggio c’era allora una piccola e semplice casa, con pareti scure, imbiancate solo in parte, una casa come se ne possono ancora incontrare in villaggi remoti, con un tetto spiovente di tegole, un affusolato camino, un portico largo appena un cubito e mezzo, delle strette scale formate da rozzi blocchi di legno male assemblati. Sopra il portico, sostenuto da travi quadrate grossolanamente intagliate, c’era un granaio semi aperto sul lato destro, con il soffitto rivestito di canapa; a destra, accanto al portico, vi era un barile semi sfasciato, con le doghe imbiancate e sconnesse, che lasciavano intravedere il suo contenuto. Sulla sinistra, accanto alla porta che dava sull’anticamera, c’era una panca con gambe storte e traballanti; sull’altro lato, c’erano una gramola per la canapa ed un paio di seggiole. Ancora oltre, polli e galline beccavano con foga semi d’orzo e avena.
Attorno a questa semplice abitazione era stato costruito uno steccato, da cui qua e là mancava qualche asse, per colpa delle intemperie e dei cattivi vicini. Sul lato sinistro di una piccola aia, c’era una tettoia ricoperta di paglia; quindi un fienile senza porte e due porcili con i loro occupanti che, di tanto in tanto, facevano sporgere i loro musi e grugnivano.
L’abitazione consisteva di tre stanze ed un atrio, in fondo al quale c’era solo una cucina annerita dal fumo. Al momento non c’era né fuoco né pentola sul focolare, né si vedeva alcuna massaia al lavoro, ma solo vasellame, cucchiai di legno e molte altre cose che pendevano in squisito disordine dalle pareti. Nella stanza a sinistra della cucina viveva l’unica domestica della casa, una vecchia. Il lato destro era formato da due stanze: una dava sul cortile, nell’altra l’unica finestra si affacciava su di un susino. Quella dal lato del cortile era spaziosa, con un grande focolare aperto e un camino che ne occupava circa un ottavo. Di fronte al focolare, c’era, coperto di cuscini grossolanamente ricamati di rosso, un letto robusto che in alcuni punti recava tracce di una vecchia laccatura colorata. Due cassapanche intarsiate e dipinte erano accostate ad un muro su cui si apriva una finestra coi vetri piombati: vi erano poi una credenza dalla forma inconsueta ed un paio di seggiole di legno; il muro di fronte alla porta era occupato da un lungo tavolo di quercia. Il generale squallore dell’ambiente testimoniava il disagio in cui versavano i proprietari della casa.
La proprietaria era la signora Timár, vedova di Istók Timár, già notaio del paese, la quale viveva insieme al suo unico figlio, Miska Timár, il quale, dopo tre anni di studi, ora trascorreva il tempo bighellonando per la casa, dormendo e ogni tanto recandosi alla locale osteria, Il Gallo Zoppo
.
La donna, alta, snella, agile, con gli occhi scuri e con un viso molto intelligente, scavato dalle rughe dei suoi sessant’anni, sedeva al focolare del camino; aveva il capo coperto da una scura sciarpa blu, che ricadeva con lunghe falde sulla parte superiore di una camicetta decisamente sporca, il che faceva capire che il sabato era vicino; stesso stato manifestavano la veste nera, aperta sul davanti e la gonna, nera anch’essa, con per cintura un nastro di maglia di lino fatto in casa, il cui candore era in contrasto con l’aspetto degli altri capi di abbigliamento. I suoi tratti tristi, lo stare costantemente come in ascolto, il suo accostarsi ripetutamente a tutte le finestre denotavano l’ansiosa attesa dell’arrivo di qualcuno.
Suo figlio, Miska, un ragazzo di vent’anni con un viso ordinario, era seduto su di una cassapanca decorata con tulipani. I suoi occhi grigi la fissavano, le labbra atteggiate in un’espressione di disappunto. Era vestito rozzamente, con pantaloni blu e un dolman senza maniche, di un colore simile.
«Dio» disse l’anziana, alzandosi dal suo posto e affacciandosi ad una delle finestre, «non tornano, né Sara né il vicino. Il povero Zsiga è perso per sempre! Cosa devo fare?» mormorò con voce lacrimosa, contorcendosi le mani.
«Dai» rispose Miska «non essere triste, madre! Un ragazzo di nove anni non si perde così facilmente; il piccolo è scaltro e magari si è allontanato da casa di sua volontà!»
«Oh» disse l’anziana, in tono di rimprovero e la voce tremula, «lo volesse Iddio! Prima o poi salterebbe fuori! Ma temo che si sia perso nel bosco, che un lupo o qualche altra belva lo sbrani o che muoia di fame. Ehi, ragazzo, il povero bambino ce l’avrai tu sulla coscienza! Non sei stato attento a lui come dovevi.»
Miska si rizzò stizzito dalla cassapanca coi tulipani. «Madre» disse «ti ripeto ancora una volta che il bambino non si è perduto; l’erba cattiva non muore mai. Ti ricordi, l’altro giorno, quando lo battevi con la conocchia e lui ha detto: Non può durare per sempre!
»
«Questo è vero; ma cosa dice sua madre quando ritorna? Può succedere da un momento all’altro. Miska, non stare con le mani in mano, vai di nuovo nella foresta, chiedi nei dintorni.» Così dicendo, l’anziana aprì una delle casse e tirò fuori un borsellino. «Qui, figlio mio, ci sono i miei risparmi di due anni in sonanti monete d’argento; puoi comprarci nove preziosi bottoni per il tuo dolman verde; sono tuoi, se trovi Zsiga.»
L’erede guardò i soldi con un ghigno. «Sia!» disse, prendendo il suo cappello. «Vado a sellare il cavallo grigio. Ma se non ci riesco, non dare a me la colpa, madre!»
L’anziana donna sembrava risollevata. Mentre suo figlio usciva, si sedette di nuovo presso il camino, riprendendo a cucire. La sua grande preoccupazione derivava dal fatto che il piccolo Zsiga non era figlio suo. Quattro anni prima, nel tardo autunno, una donna giovane e bella le si era avvicinata con il piccolo Zsiga e aveva affidato il bambino alle sue cure. Da allora si era fatta viva diverse volte, mai a mani vuote e sempre con promesse; dal momento che erano sempre state mantenute, per l’anziana donna erano promesse di cui ci si poteva fidare. Chi fossero il padre e la madre del bambino non lo sapeva. Un profondo segreto sembrava aleggiare su quella nascita; ma, dall’amore appassionato che quella giovane dimostrava per il piccolo Zsiga, si sarebbe detto che fosse lei la madre, anche se le aspettative che manifestava per il figlio non erano certo consuete. «Crescilo» aveva detto all’anziana signora Timár «rendilo un uomo forte e onnipotente, il mio Zsiga. Non gli risparmiare nulla; deve imparare a resistere al freddo, al caldo, alla fame ed alla sete: dovrà avere un forte cuore da lavoratore, buono, ma non debole. Dovrà imparare poche cose, ma impararle bene: così diventerà un uomo, in un corpo forte, in spirito, felice ed orgoglioso; perché», aveva detto con sommessi scoppi di pianto, «il suo destino è quello di stare da solo tra le onde della vita, fronteggiare tutte le avversità e resistere a tutto; sapere cosa serve veramente nella vita e riuscire a fare a meno di tutto.»
L’anziana donna aveva attentamente ascoltato quelle strane raccomandazioni con una certa perplessità, comprendendole in parte, ma nello stesso tempo, un po’ perché era involontariamente attratta da quell’affascinante bambino e un po’ per la cupidigia, aveva deciso di fare del suo meglio per soddisfarle fino in fondo.
L’aveva tirato su brutalmente Zsiga. Un paio di volte alla settimana il ragazzo si recava in chiesa, dove aveva imparato rapidamente a leggere e scrivere. In casa si occupava dei lavori più disparati: nutriva le bestie, puliva l’aia, imbiancava i muri, insomma non gli si risparmiava alcun lavoro duro. Ogni tanto portava i due cavalli della donna ad abbeverarsi, sedendosi in groppa all’uno o all’altro. Spesso se ne andava bighellonando, riportandoli a casa sporchi e sudati, attirandosi le ire della tutrice. Andava a pascolare le pecore e spesso si tratteneva intere giornate con loro, indugiando ai margini della foresta o sui pascoli più rigogliosi.
Da quando era tornato Miska, l’anziana donna aveva un po’ allentato le sue attenzioni nei confronti del bambino, anche se comunque egli, con le sue innocenti moine, riusciva sempre a rapirle il cuore ed a rallegrarla. Il bambino, in verità, era solitamente più triste che allegro, ma era proprio la sporadicità delle sue manifestazioni d’affetto a renderle ancora più incisive. In tutto ciò che faceva affiorava un sentimento profondo. Se a volte gettava le braccia al collo della sua tutrice, anche se raramente, lo faceva con una dolcezza ed un amore tali che era impossibile non ricambiare. Quelle strane manifestazioni d’affetto erano state anche troppo precoci. Tutto ciò aveva fatto sì che la donna si fosse veramente affezionata al bambino. Miska, da parte sua, non provava gli stessi sentimenti; anzi, sembrava geloso e poco entusiasta di dividere con un altro l’amore di sua madre, anche se forse né lo meritava né faceva alcunché per ripagarlo. Col piccolo Zsiga, anche se a volte gli rivolgeva occhiatacce minacciose, si sforzava di essere gentile, perché non disdegnava i regali della presunta madre. Ma, appena poteva ed era solo, dava libero sfogo alla sua amarezza.
Il giorno precedente a questi avvenimenti, la donna aveva mandato il bambino a pascolare undici pecore e tre capre ai margini della foresta. La sera, solo le pecore erano tornate all’ovile; l’anziana donna aveva subito mandato suo figlio a cercarlo. Se Miska fosse veramente andato a cercarlo non si sa; fatto sta che, al mattino, era tornato senza bambino. La donna aveva dimostrato una grande apprensione. Finché il bambino era stato in giro per la casa, lei non aveva minimamente pensato di esserne nemmeno affezionata ed ora che forse era perduto, si rendeva invece conto di quanto l’amasse. La sua disperazione era dovuta sì in parte al suo amore, ma per una buona parte derivava dall’apprensione che la madre potesse tornare da un momento all’altro e che le sue entrate ne potessero risultare diminuite. In effetti, le piccole somme di denaro che riceveva per nutrire il piccolo a volte costituivano le sue uniche risorse.
La donna non trovava pace: nemmeno il cucito progrediva e aveva il cuore stretto in quella morsa dolorosa e spiacevole che spesso si accompagna ad una spasmodica attesa. Lei sperava che il bambino non si fosse perso: era troppo sveglio. Oppure si era veramente smarrito, il che non era raro né sorprendente in quelle contrade e soprattutto a quei tempi; oppure ancora si era allontanato di volontà propria e questa eventualità feriva doppiamente la donna, dato che la sua coscienza non ne immaginava il motivo. Tra l’esitazione, il dubbio, l’autocommiserazione, la speranza illusoria e l’attesa passò un quarto d’ora dopo l’altro. Il sole già si affrettava verso il giaciglio della notte, facendo trapelare solo raggi pallidi dalle cime delle montagne. La mandria del villaggio faceva ritorno in una nuvola di polvere e dalla chiesa già giungevano i rintocchi dell’Ave. Né Sara, la vecchia serva, né il suo vicino, che erano andati alla ricerca di Zsiga, erano ancora di ritorno. Anche Miska era già uscito da un pezzo a cercarlo. Il tremore, suo consueto compagno nel buio della sera, l’avviluppava con membra demoniache e le produceva una pena profonda nel cuore. Ora le sembrava di avere definitivamente perso il ragazzino e le lacrime cominciarono a sgorgare. Pianse, seduta china su di una delle cassapanche, ascoltando i suoi stessi singhiozzi.
¹ György Martinusius (Fráter György), ovvero il croato Juraj Utješenić o Utišinović, che prese il cognome Martinuzzi dalla madre, una nobile veneziana, fu cardinale, arcivescovo cattolico e politico del Rinascimento ungherese. Venne assassinato nel castello di Alvinc nel 1551 [NdT].
L’amazzone
"Una donna civile,
di nascita oscura,
certo, ma piena di grazia"
Victor Hugo
Un lento calpestio ed il debole cigolio del cancello dello steccato giunsero dal cortile. Il vecchio cane abbaiò un paio di volte, poi si zittì ed uggiolò con quella che per il fedele animale è quasi una risata, un rallegrarsi al cospetto di un volto familiare. La vecchia trasalì. «Ehilà» gridò una voce nota «nessuno che porti il mio cavallo in un granaio? Ehi, Miska, Sara! Non mi sentite?». La donna si alzò di scatto e, barcollando con passi esitanti, uscì dalla stanza.
Pochi minuti dopo un’alta figura femminile entrò nella stanza. Aveva espressivi tratti orientali, una postura aggraziata ed un fisico snello; nell’insieme il suo aspetto era sorprendente. In testa aveva un berretto rosso, con la punta che pendeva da un lato fino a quasi toccarle la spalla; era bordato da una striscia sottile di pelliccia nera, da cui spuntavano due spesse trecce, legate con nastri rossi. La sua vita sottile era stretta in una corta e aderente giacca verde, con piccoli bottoni ed una catenella ad allacciarla. Sotto indossava una gonna di seta pesante, che arrivava quasi alle caviglie e alle sue scarpette rosse in marocchino. Portava un piccolo arco su di una spalla, mentre dalla cintura spuntavano un pregevole pugnale con l’impugnatura in diaspro verde e due frecce piumate; in mano teneva un frustino.
La bella signora, in piedi in mezzo alla stanza, si tolse l’arco dalla spalla, lo posò sul tavolo e poi si sedette presso il focolare. Sul suo volto affiorava un velo scuro di impazienza; a tratti guardava verso la porta e sbatteva nervosamente il frustino sul pavimento sconnesso.
Un attimo dopo rientrò la vecchia. «Madre» disse l’affascinante straniera «come va? Dov’è Zsiga? È tanto tempo che non me lo stringo al cuore. Chiamalo, mia cara vecchia!»
La signora Timár stava ammutolita di fronte alla donna, pensando tra sé il da farsi. «Insomma» disse la giovane «cosa esiti? Sbrigati!». Il viso dell’anziana impallidì improvvisamente; socchiuse gli occhi e fece per parlare. Era chiaro che era angosciata e tesa fino a tremare.
«Vecchia!» disse la donna, sollevando i suoi grandi occhi scuri in uno sguardo inquisitore ma soprattutto allarmato, «Che succede? Perché mi stai davanti come se fossi inchiodata al pavimento? Cos’è questo silenzio di tomba, questo miserabile atteggiamento vigliacco, che non dice niente e sta cominciando a ghiacciarmi il sangue nelle vene? Donna, per amor del Cielo, cos’è? Parla!»
L’anziana cadde in ginocchio davanti a lei e, giungendo le mani aride, alzò gli occhi imploranti. Dolore, paura e profonda amarezza erano impressi nell’espressione del suo viso, ma non riusciva a parlare. Che dire, cosa poteva mai dire! Come una statua inginocchiata di fronte alla donna allarmata, che cercava di dominare un’ira furibonda, con gli occhi fuori dalle orbite, le labbra livide, una novella Tisifone.
«Donna» disse «diavolo! Ah, non c’è un nome che ti s’addica, carnefice della mia pazienza, di’ qualcosa! Una parola, un suono!» Poi fece un passo avanti a pugni serrati e colpì la fronte della vecchia, che si piegò fino a terra, poggiando una mano sul pavimento e facendosi schermo con l’altra. «Pietà!» disse la vecchia, con voce rotta e tremula, «Pietà, signora!»
«Dov’è mio figlio?» disse la donna col volto livido e voce profonda e terribile, mentre il rossore