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I Medici. La saga completa
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E-book1.549 pagine22 ore

I Medici. La saga completa

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Info su questo ebook

Una dinastia al potere - Un uomo al potere - Una regina al potere - Decadenza di una famiglia

4 romanzi in 1

Vincitore del Premio Bancarella

La grande parabola del Rinascimento attraverso l’epopea di una famiglia che è stata in grado di lasciare la sua indelebile impronta nella storia d’Europa.
Dalle origini di un’ambiziosa stirpe di banchieri, passando per l’uomo che ha incarnato gli ideali dell’umanesimo rinascimentale, fino alle due grandi regine italiane di Francia. 
Con la saga I Medici, Matteo Strukul si è imposto in cima alle classifiche italiane per settimane, conquistando un successo straordinario di pubblico e critica. La sua scrittura è avvincente, adrenalinica, supportata da uno studio enorme delle vicende storiche trattate. 

Il caso editoriale ai vertici delle classifiche italiane
Un autore da 500.000 copie vendute

Hanno scritto di Matteo Strukul:

«Una scrittura vera, viva e pulsante. Un romanzo nel quale l’autore innesta trappole thriller e dialoghi vivi su una solida base storico-narrativa.»
Nicolai Lilin, TuttoLibri - La Stampa

«Matteo Strukul ha fatto boom. La saga storica I Medici è un successo mondiale.»
Il Venerdì

«La storia di una dinastia importantissima, una storia fatta di cospirazioni e tradimenti. Ma anche il racconto della grande rivoluzione culturale del Rinascimento, quando l’Italia era il centro del mondo e modello di bellezza e magnificenza per l’intera Europa.»
la Repubblica

«Ci voleva un bel coraggio per scrivere la storia romanzata di un personaggio come Caterina De’ Medici. Ma il coraggio non manca a Matteo Strukul.» 
Corriere della Sera
Matteo Strukul
È nato a Padova nel 1973. Laureato in Giurisprudenza e dottore di ricerca in diritto europeo, ha pubblicato diversi romanzi (La giostra dei fiori spezzati, La ballata di Mila, Regina nera, Cucciolo d’uomo, I Cavalieri del Nord, Il sangue dei baroni). Le sue opere sono in corso di pubblicazione in quindici lingue e opzionati per il cinema. Con I Medici. Una dinastia al potere ha ottenuto un grande successo di pubblico e di critica e ha vinto il Premio Bancarella 2017. La serie sui Medici (che prosegue con Un uomo al potere, Una regina al potere e Decadenza di una famiglia) è in corso di pubblicazione in Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Turchia, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Serbia, Slovacchia e Corea del Sud. Matteo Strukul scrive per le pagine culturali del «Venerdì di Repubblica» e vive insieme a sua moglie Silvia fra Padova, Berlino e la Transilvania.
LinguaItaliano
Data di uscita5 set 2018
ISBN9788822725158
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    Anteprima del libro

    I Medici. La saga completa - Matteo Strukul

    e-narrativa.jpg

    2029

    Prima edizione ebook: settembre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-2515-8

    www.newtoncompton.com

    Indice

    I Medici. Una dinastia al potere

    FEBBRAIO 1429

    1. Santa Maria del Fiore

    2. Morte di Giovanni de’ Medici

    3. In cauda venenum

    4. Le ultime volontà

    5. Rinaldo degli Albizzi

    6. La profumiera

    7. La fede e il ferro

    AGOSTO 1430

    8. Un colloquio importante

    9. Il campo di battaglia

    10. L’onore del sangue

    11. Trionfo

    12. L’accampamento

    13. Cosimo e Francesco

    14. L’accordo

    SETTEMBRE 1430

    15. La peste

    16. Carri colmi di morte

    17. Una discussione notturna

    APRILE 1431

    18. Nobili e plebei

    19. L’incubo

    20. Morte di Niccolò da Uzzano

    APRILE 1433

    21. Le ultime parole

    22. Filippo Brunelleschi

    SETTEMBRE 1433

    23. L’accusa

    24. Contessina

    25. Bellezza crudele

    26. Le scintille di un progetto

    27. Notturno di fuoco e sangue

    OTTOBRE 1433

    28. Mutare il corso delle stelle

    29. La congiura

    30. Reinhardt Schwartz

    31. Farganaccio

    32. La sentenza

    GENNAIO 1434

    33. Venezia

    34. L’incidente

    35. Morte a Venezia

    36. La dama rossa

    SETTEMBRE 1434

    37. Piazza di San Pulinari

    38. Le parti s’invertono

    SETTEMBRE 1436

    39. Filippo Maria Visconti

    40. La cupola finita

    41. Verso una nuova guerra

    42. Veleni e trionfi

    FEBBRAIO 1439

    43. Una scelta difficile

    44. L’arcivescovo di Nicea

    45. Consiglio di guerra

    LUGLIO 1439

    46. La riunione delle Chiese

    47. La confessione

    GIUGNO 1440

    48. Verso il campo di battaglia

    49. Il Ponte delle Forche

    50. Il duello

    51. Vergogna

    LUGLIO 1440

    52. L’impiccagione

    53. Pietà e vendetta

    54. Morte di Lorenzo

    SETTEMBRE 1453

    55. Dolci speranze

    Nota dell’autore

    Ringraziamenti

    I Medici. Un uomo al potere

    FEBBRAIO 1469

    1. La giostra

    2. Riario

    3. Lucrezia e Lorenzo

    4. Leonardo

    5. Lucrezia Donati

    APRILE 1469

    6. La musica

    GIUGNO 1469

    7. Clarice

    8. Il ritratto

    DICEMBRE 1469

    9. L’eredità medicea

    APRILE 1470

    10. Gli interrogativi del potere

    11. Gerarchie

    12. Bernardo Nardi

    MAGGIO 1471

    13. La palla d’oro

    DICEMBRE 1471

    14. Capitano generale della Chiesa

    15. Vento di guerra

    16. Federico da Montefeltro

    17. La balestra

    GIUGNO 1472

    18. Il sacco di Volterra

    19. Le prime accuse

    20. Il nibbio bruno

    21. Trame

    22. Il seme del dubbio

    OTTOBRE 1473

    23. Nemici e alleati

    24. La caccia a cavallo

    25. La preda

    26. Strani dipinti

    FEBBRAIO 1474

    27. Contro il papa

    APRILE 1476

    28. L’accusa

    29. Il colloquio

    30. Gli Ufficiali della Notte

    31. Reclusa

    32. Il processo

    33. La testimonianza

    34. Rabbia e cospirazione

    35. Il perdono va guadagnato

    DICEMBRE 1476

    36. La caduta

    37. La legge

    38. Presagi

    NOVEMBRE 1477

    39. Piani di palazzo

    40. La contadina

    APRILE 1478

    41. L’attesa

    42. Laura Ricci

    43. Antonio Maffei

    44. Ite missa est

    45. Palazzo della Signoria

    46. I colori della vendetta

    47. Dentro al palazzo

    48. I primi orrori

    49. Il piano di Clarice

    50. Le parole di Lorenzo

    51. La banda

    52. L’inferno sulla terra

    53. La resa dei conti

    54. Sogni a occhi aperti

    55. Scaramuccia notturna

    SETTEMBRE 1479

    56. L’amore non dimentica

    57. I vecchi amici

    Nota dell’autore

    Ringraziamenti

    I Medici. Una regina al potere

    GIUGNO 1525

    Prologo

    AGOSTO 1536

    1. Il delfino

    2. Il conte di Montecuccoli

    3. I turbamenti di un re

    4. Lettere rivelatrici

    5. Il campanello d’argento

    6. Nostradamus

    7. Il colloquio con Enrico

    OTTOBRE 1536

    8. La piazza di Lione

    9. Alla ricerca di un astrologo

    GENNAIO 1538

    10. Incubi e paure

    11. Verso un editto

    12. Un incarico particolare

    DICEMBRE 1542

    13. Il mondo che cambia

    14. Sangue e vino

    15. Un letto troppo freddo

    APRILE 1543

    16. Primavera di carne e sangue

    17. Proteggere l’amore

    18. Zolfo e demonio

    19. Passione e vendetta

    20. La profezia

    GENNAIO 1544

    21. Nascere e morire

    22. Cavalieri

    MARZO 1547

    23. La morte del re

    DICEMBRE 1550

    24. Mandragola

    25. L’inganno

    26. Il mortaio del diavolo

    SETTEMBRE 1552

    27. Gli ultimi giorni d’estate

    28. Lettera da Metz

    APRILE 1558

    29. Notre-Dame

    30. Elizabeth MacGregor

    31. Francia e Scozia

    32. Il pericolo si avvicina

    33. Il pactum sceleris

    34. Elizabeth e Diana

    35. Sorpresa e dolore

    36. Margot

    37. L’ultima volta

    GIUGNO-LUGLIO 1559

    38. Cuore nel diluvio

    39. Ambroise Paré

    40. Chenonceau

    GENNAIO 1560

    41. Francesco II di Francia

    42. Chaumont-sur-Loire

    FEBBRAIO 1560

    43. Blois

    44. Istruzioni per una congiura

    MARZO 1560

    45. Amboise

    46. L’attacco

    47. Senza pietà

    48. Incubo a occhi aperti

    FEBBRAIO 1563

    49. Morte del duca di Guisa

    50. L’addio di Nostradamus

    AGOSTO 1572

    51. L’agguato a Coligny

    52. La difesa di Polignac

    53. Le lacrime della regina

    54. La macchinazione

    55. Uccideteli tutti

    56. Alba di sangue

    57. La fine di un’epoca

    58. L’ultimo saluto

    GENNAIO 1589

    59. Morte di una regina madre

    Nota dell’autore

    Ringraziamenti

    I Medici. Decadenza di una famiglia

    Albero genealogico della famiglia Medici

    NOVEMBRE 1597

    Prologo

    FEBBRAIO 1601

    1. L’idea di Leonora

    2. Storia di una spia

    3. Promesse a un’amante troppo scomoda

    4. L’incidente al mercato

    5. Due diversi annunci

    6. L’incontro con la regina

    7. Una nera sorpresa

    8. Quando si ritrova ciò che si temeva perduto

    GIUGNO - LUGLIO 1602

    9. Il conte d’auvergne e i suoi legittimi sospetti

    10. Lafin

    11. Marito e moglie

    12. Leonora e Concino

    13. Fontainebleau

    14. La Bastiglia

    15. Place de Grève

    GIUGNO 1606

    16. Il traghetto

    17. La presenza di spirito di Monsieur Laforge

    18. Parlando di pittura

    19. Il nero del morbo

    SETTEMBRE 1606

    20. Margot

    21. Le preoccupazioni de la reine Margot

    22. Padre e figlio

    GIUGNO 1609

    23. Lettere d’amore

    24. Il codice

    MAGGIO 1610

    25. La vigilia

    26. La consacrazione

    27. Rue de la Ferronnerie

    28. Ravaillac

    29. La fine di un’epoca

    FEBBRAIO 1615

    30. Il discorso del segretario di Stato

    31. Il maresciallo d’Ancre

    32. Condé

    DICEMBRE 1615

    33. Inverno

    34. Scaramuccia

    35. Ribelli

    AGOSTO 1616

    36. La cospirazione

    37. Le riflessioni del vescovo di Luçon

    38. Il re e il suo favorito

    39. Forme e colori

    APRILE - MAGGIO 1617

    40. Luynes

    41. Tragedia al Louvre

    42. La risposta del re

    43. Solitudine

    44. Verso l’esilio

    45. Via da Parigi

    46. Fantasia macabra

    FEBBRAIO 1619

    47. Blois

    48. Bonne Dame

    49. Orgoglio regale

    AGOSTO 1620

    50. La buffonata di Ponts-de-Cé

    51. Richelieu

    DICEMBRE 1621 - GENNAIO 1622

    52. Noia e rancore

    53. Rubens al palazzo del Lussemburgo

    MAGGIO 1625

    54. Le nozze tra Francia e Inghlterra

    55. Anna d’austria e il duca di Buckingham

    56. Nei giardini del Vescovado di Amiens

    57. Nella camera di Anna

    58. Un silenzio di ghiaccio

    OTTOBRE 1628

    59. La Rochelle

    60. La tempesta

    61. Un colpo di fortuna

    62. Dispacci

    NOVEMBRE 1630

    63. Passeggiata notturna

    64. Orthez

    65. La giornata degli ingannati

    FEBBRAIO 1631

    66. Compiègne

    67. Il Pactum Sceleris

    68. Decadenza di una regina

    MAGGIO 1640

    69. Invecchiare

    Nota dell’autore

    Ringraziamenti

    Matteo Strukul

    I Medici

    Una dinastia al potere

    Un uomo al potere

    Una regina al potere

    Decadenza di una famiglia

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    UNA DINASTIA AL POTERE

    A Silvia

    FEBBRAIO 1429

    1

    Santa Maria del Fiore

    Alzò gli occhi al cielo. Pareva polvere di lapislazzuli. Per un istante sentì la vertigine salire e rapirgli i pensieri. Poi, riposò gli occhi, spostando lo sguardo attorno a sé. Vide i muratori che preparavano la malta, mescolando la calce alla sabbia chiara dell’Arno. Alcuni di loro se ne stavano appollaiati sui tramezzi, consumando una veloce colazione. Svolgevano turni massacranti e capitava spesso che trascorressero lì intere settimane, dormendo fra impalcature di legno, lastre di marmo, mattoni e calcinacci.

    A oltre cento braccia dal suolo.

    Cosimo sgusciò fra i ponteggi in legno: sembravano i denti neri e affilati di una creatura fantastica. Avanzò facendo grande attenzione a non mettere i piedi in fallo. Quella visione di una città sopra la città lo affascinava e lo lasciava sgomento a un tempo.

    Un po’ alla volta raggiunse la base della cupola in costruzione, quello che gli architetti e i capimastri chiamavano il tamburo. Lo sguardo fuggì oltre la struttura: nella piazza sottostante, il popolo di Firenze guardava Santa Maria del Fiore con gli occhi sbarrati. Cardatori, mercanti, macellai, contadini, prostitute, osti e viandanti: tutti parevano innalzare una muta preghiera perché il disegno di Filippo Brunelleschi trovasse finalmente realizzazione. Quella cupola, che tanto avevano atteso, stava finalmente prendendo forma e a riuscire nell’impresa pareva proprio dover essere quell’orafo pazzo e calvo, dai denti guasti e dal temperamento incendiario.

    Cosimo lo vide vagare come un’anima in pena fra i mucchi di materiale e le colonne di mattoni: la mente assorta, quasi assente, e invece rapita da chissà quali e quanti calcoli. Il volto, illuminato dagli occhi così chiari da somigliare a gocce d’alabastro, che sfavillavano sulla pelle bianca e schizzata d’ogni sorta di colore e materia.

    Il canto dei martelli lo risvegliò da quell’ennesimo momento di smarrimento. I fabbri erano al lavoro. L’aria recava le mille voci di suggerimenti e istruzioni. Cosimo inspirò a lungo, poi spostò lo sguardo in basso, ai piedi dell’ottagono. Il gigantesco argano concepito da Filippo Brunelleschi girava su se stesso senza posa. I due bovi alla catena procedevano placidi in un muto cerchio. Incedevano in tondo, condotti da un giovane garzone e, in quel moto di rotazione, mettevano in funzione ruote dentate e ingranaggi posti sul fusto dell’argano che, così facendo, sollevavano blocchi di pietra dal peso infinito, issandoli ad altezze che mai sarebbero state raggiunte in un modo diverso.

    Brunelleschi aveva escogitato macchine stupefacenti, le aveva disegnate, aveva chiamato i migliori artigiani e facendo lavorare senza posa i suoi manovali aveva ottenuto in tempi rapidi un intero arsenale di meraviglie che permettevano di sollevare e collocare in punti precisi lastre di marmo e parti di telaio in legno per i ponteggi, decine di sacchi di sabbia e calcina.

    Cosimo avrebbe voluto gridare per liberare tutta la gioia e la soddisfazione nel vedere il modo mirabile in cui procedevano i lavori. Nessuno era riuscito a immaginare una cupola per la pianta ottagonale della tribuna, nessuno! Sessantadue braccia di lunghezza erano un’infinità e Filippo aveva disegnato una cupola con una campata superiore a quella misura, senza l’ausilio di alcun supporto visibile. Niente contrafforti esterni né centinature in legno, incorporate nella struttura come aveva proposto in precedenza Neri di Fioravanti. Aveva lasciato a bocca aperta l’Opera del Duomo, che aveva commissionato la realizzazione della cupola.

    Brunelleschi era un genio o un folle. O forse entrambe le cose. E i Medici avevano sposato quel genio e quella follia! Cosimo per primo. Sorrise di quell’audacia e rifletté sul significato che un simile traguardo avrebbe avuto non solo per la città ma anche per la sua persona. E, a giudicare da quel che accadeva lì sopra, c’era di che rimanere estatici, specie guardando quel cantiere in crescita continua, una sorta di torre di Babele impazzita che annoverava fra pedane e ponteggi un’infinita congerie di artigiani: carrettieri, muratori, cordai, carpentieri, fabbri e poi osti, addetti alla vendita del vino e financo un cuoco con un forno per la cottura del pane da servire, durante le pause, ai lavoratori. Alcuni di loro si stavano arrampicando sulle impalcature di legno, altri lavoravano dalle pedane in vimini che, svettanti sui tetti tutt’attorno, davano quasi la sensazione d’essere nidi d’uccello, come se gli uomini avessero chiesto aiuto alle cicogne per portare a termine quell’impresa titanica.

    «Che ne pensate, messer Cosimo?».

    La voce sottile ma ferma era quella di Filippo.

    Cosimo si voltò, quasi di scatto, e se lo ritrovò davanti, magro come un fantasma, con gli occhi spiritati. Indossava una tunica rossa e nient’altro. Lo sguardo liquido, un misto di orgoglio e ostilità che ne certificavano il carattere ribelle e violento, che d’un colpo s’addolciva, quando incontrava uno spirito grande.

    Cosimo non sapeva se appartenesse o meno a quella schiera, ma di certo era il primogenito di Giovanni de’ Medici, capostipite della famiglia che aveva contribuito senza riserve al finanziamento e alla realizzazione dell’opera e che aveva dato l’appoggio più importante alla candidatura di Brunelleschi.

    «Magnifico, Filippo, magnifico». La sua bocca era pronta a dar voce all’incredulità che albergava nello sguardo. «Non speravo di vedere un simile progresso».

    «Siamo ben lontani dalla fine, su questo voglio esser chiaro. Quello che più conta, messere, è che mi si lasci lavorare».

    «Fino a quando vi saranno i Medici, fra i primi mecenati di una simile meraviglia, non avrai nulla da temere. Su questo hai la mia parola, Filippo. Abbiamo cominciato insieme e insieme finiremo».

    Brunelleschi annuì. «Proverò a completare la cupola secondo i canoni classici, come da progetto».

    «Non ho alcun dubbio, amico mio».

    Mentre parlava con Cosimo, lo sguardo di Filippo guizzava in mille direzioni: verso i muratori che preparavano la malta e ponevano i mattoni uno sull’altro, e poi sui fabbri che martellavano senza requie, fino ai carrettieri che trasportavano sui carri i sacchi di calcina, giù nella piazza. Nella mano sinistra stringeva un foglio di pergamena sul quale aveva realizzato uno dei tanti disegni preparatori. Nella destra uno scalpello. Chissà cosa diavolo aveva intenzione di combinare con quello.

    Ma tant’era.

    Poi, così com’era apparso, Brunelleschi si congedò con un cenno del capo, sparendo fra le travi in legno e le strutture della cupola interna, inghiottito da quell’opera colossale e inquieta, fremente di energia e brulicante di vita. A Cosimo rimase solo la visione imponente degli archi in legno mentre le voci risuonavano intorno al salire dell’ennesimo carico, issato dall’argano.

    A un tratto sentì una voce aspra dietro di sé che lacerava l’aria.

    «Cosimo!».

    Si girò, appoggiandosi al ponteggio, e vide suo fratello Lorenzo, avanzare nella sua direzione.

    Non ebbe nemmeno il tempo di salutarlo.

    «Nostro padre, Cosimo, nostro padre sta per morire».

    2

    Morte di Giovanni de’ Medici

    Non appena entrò, Contessina gli si fece incontro, i begli occhi scuri rigati di lacrime. Indossava una veste semplice, nera, e portava un velo sottile, quasi impalpabile.

    «Cosimo…» mormorò. Non riuscì a dire altro, come se tutte le sue forze fossero impegnate a fermare il pianto. Voleva essere forte per il suo amato marito. E vi riuscì. Lui la strinse in un abbraccio.

    Dopo un istante, lei si sciolse. «Va’ da lui», gli disse, «ti sta aspettando».

    Si girò verso Lorenzo e, per la prima volta quel giorno, lo guardò davvero in volto. Suo fratello gli aveva tenuto dietro fin da quando avevano ridisceso i ponteggi per arrivare ai piedi della cattedrale di Santa Maria del Fiore e poi raggiunto a rotta di collo la via Larga nella quale svettava il tetto di Palazzo Medici.

    Torturava le labbra con i denti bianchi. Cosimo si rese conto di quanto fosse prostrato. Di una bellezza che pareva in genere impermeabile alla fatica, in quel momento aveva invece il volto segnato e gli occhi verdi e profondi erano cerchiati di nero. Avrebbe dovuto riposare, pensò. In quegli ultimi giorni, da quando suo padre aveva accusato il morbo, Lorenzo aveva sovrinteso ancor di più agli affari del Banco, lavorando senza posa. Uomo d’azione e pragmatico, meno dotato per l’arte e le lettere ma certamente d’ingegno pronto e vivace, suo fratello era da sempre quello che, alla bisogna, era pronto a farsi carico di tutte le angustie e le fatiche della famiglia. Cosimo, invece, di concerto con alcuni rappresentanti dell’Opera del Duomo, si era dedicato al controllo e alla verifica dello stato dei lavori presso la cupola di Santa Maria del Fiore. A lui erano state affidate, in famiglia, la strategia e la politica ed entrambe passavano anche, e in ampia parte, attraverso la magnificenza del mecenatismo e dell’arte. E se anche la committenza per la realizzazione della cupola era stata corale e formalmente riferibile sempre e soltanto all’Opera, non v’era in Firenze chi non sapesse quanto Cosimo avesse appoggiato e spinto la candidatura, poi risultata vincente, di Filippo Brunelleschi. Era stato sempre lui ad aver attinto grandemente alle casse di famiglia per finanziare la realizzazione di quella meraviglia che si andava compiendo.

    Cosimo abbracciò suo fratello.

    Poi entrò.

    La camera era foderata di broccati scuri. Avevano tirato le tende alle finestre di modo che l’intero ambiente fosse immerso in una luce debole, quasi fatua. Candelieri d’oro punteggiavano la stanza. L’odore di cera fusa rendeva l’aria irrespirabile.

    Quando vide suo padre, con gli occhi ormai spenti e annacquati dalla morte, Cosimo capì che non ci sarebbe stato niente da fare.

    Giovanni de’ Medici, l’uomo che aveva condotto la famiglia sul gradino più alto della città, lo stava abbandonando. Il suo volto, così fermo e deciso, pareva essere stato repentinamente ammantato da un’impalpabile e grigia cortina di debolezza, un’ombra di consapevole rassegnazione che lo rendeva una fragile imitazione dell’uomo che era stato. Quella visione colpì Cosimo più d’ogni altra cosa. Gli parve impossibile che Giovanni, forte e determinato fino a qualche giorno prima, potesse essere stato aggredito dalla febbre in modo tanto aggressivo e violento.

    Vide sua madre che gli stava accanto, tenendogli la mano nelle sue. Piccarda aveva il volto ancora bello, anche se quella sua composta avvenenza ora era in frantumi: le lunghe ciglia nere, imperlate di lacrime, le labbra strette a chiudere una bocca rossa come una lama di pugnale insanguinata.

    Mormorò il suo nome e poi tacque, perché qualsiasi altra parola sarebbe stata inutile.

    Cosimo tornò con lo sguardo a suo padre e pensò di nuovo a quella malattia, giunta all’improvviso, senza nessuna causa apparente. Nel posare finalmente gli occhi su di lui, quasi si fosse reso conto solo in quel momento che suo figlio era entrato nella camera, Giovanni ebbe un guizzo di energia. Pure minato nel fisico, non intendeva arrendersi. In quel momento preciso, la tempra che lo aveva sempre contraddistinto lo esortò a reagire, fosse anche solo per un’ultima volta. Riuscì a issarsi sui gomiti e a sedersi in mezzo al letto, annaspando fra i cuscini foderati di piume che le mani premurose di Piccarda gli avevano accomodato per miglior conforto. Li allontanò con un moto d’irritato sdegno e fece cenno a Cosimo di avvicinarsi al suo capezzale.

    Nonostante si fosse ripromesso di essere forte quando il momento fosse giunto, Cosimo non riuscì a trattenere le lacrime. Poi si vergognò di quella debolezza, si asciugò gli occhi con il dorso della mano destra.

    Si avvicinò a suo padre.

    Giovanni aveva un’ultima cosa da dirgli, prima di andarsene. Si protese, quasi, verso di lui, mentre Cosimo lo prendeva per le spalle.

    Piantò i suoi occhi scuri in quelli del figlio. Scintillarono come bottoni d’onice nel riflesso della luce tremula delle candele che proiettavano barbagli nella camera annegata nella penombra.

    La voce del patriarca uscì roca e cupa come l’acqua di un pozzo.

    «Figlio mio», mormorò, «promettimi che farai in modo di comportarti con sobrietà nell’agone politico. Che vivrai con moderazione. Come un semplice fiorentino. E però non mancherai di agire con fermezza quando sarà necessario».

    Le parole furono un fiume, eppure scandite in modo netto, pronunciate con gli ultimi frammenti di vita che Giovanni aveva saputo trovare in quell’istante supremo.

    Cosimo lo guardò, perdendosi nelle pupille scure e scintillanti del padre.

    «Promettimelo», lo incalzò Giovanni, in un ultimo impeto. Gli occhi penetranti quasi piegarono lo sguardo del figlio, la curva della bocca a disegnare un’espressione colma di forza e gravità.

    «Lo prometto», rispose Cosimo, con la voce rotta dall’emozione ma senza esitare.

    «Ora posso morire felice».

    Così dicendo, Giovanni chiuse gli occhi. Il volto si distese, finalmente, poiché aveva atteso anche troppo a lungo, duellando contro la morte al solo scopo di poter consegnare al proprio adorato figlio quelle parole.

    Esprimevano tutto quello che lui era stato: la sua devozione verso la propria città e il suo popolo, la misura e la discrezione senza mai ostentare ricchezza e dovizia di mezzi e poi, naturalmente, anche la sua spietata e caparbia capacità di decisione.

    La mano si fece fredda e Piccarda scoppiò in lacrime.

    Giovanni de’ Medici era morto.

    Cosimo abbracciò sua madre. La sentì fragile e indifesa. Le lacrime gli bagnarono il viso. Poi mentre le sussurrava di essere forte, si sciolse da lei e si avvicinò a suo padre abbassandogli le palpebre, spegnendo per sempre quello sguardo che aveva incendiato la vita.

    Lorenzo mandò a chiamare il prete perché officiasse l’ultimo rito.

    Poi, mentre Cosimo usciva dalla camera, gli si fece appresso. Esitò un istante prima di parlare, poiché temeva di disturbarlo ma Cosimo gli fece un cenno con il volto per fargli capire che era pronto ad ascoltarlo.

    «Parla», gli disse, «che cosa c’è che non possa attendere?»

    «A dire il vero», cominciò Lorenzo, «si tratta di nostro padre».

    Cosimo alzò un sopracciglio.

    «Sospetto che qualcuno lo abbia avvelenato», disse Lorenzo a denti stretti.

    Quell’improvvisa rivelazione lo colpì con la forza d’un maglio.

    «Che cosa? Come puoi fare un’affermazione del genere?», e mentre pronunciava quelle parole, stava già afferrando Lorenzo per il colletto.

    Suo fratello aveva previsto una reazione come quella e gli strinse i polsi.

    «Non qui», esclamò con voce strozzata.

    Cosimo capì immediatamente. Si stava comportando da perfetto idiota. Riportò le braccia lungo i fianchi.

    «Usciamo», disse, senza aggiungere altro.

    3

    In cauda venenum

    In giardino l’aria era ancora fredda.

    Era il venti di febbraio e, malgrado non mancasse così tanto alla primavera, il cielo pareva non volersi privare della sua tinta color stagno, mentre un vento gelido soffiava un alito di morte su Palazzo Medici.

    Lo zampillo della fontana, posta al centro dell’hortus conclusus, scorreva gelido, rimbalzando argentino nella vasca. Sulla superficie dell’acqua, affioravano lastre di ghiaccio.

    «Ti rendi conto di quello che dici?».

    Cosimo era furioso. Non solo era sconvolto per aver appena perduto il padre in quel modo, ma ora doveva anche affrontare le insidie volgari di una congiura. Che altro pretendeva? Suo padre era un uomo potente e, negli anni, si era fatto molti nemici, senza contare che Firenze era quel che era: l’essenza stessa della magnificenza e del potere da una parte e dall’altra un covo di serpi e traditori, dove le famiglie più potenti non avevano certo visto di buon occhio l’ascesa di un uomo che, nell’arco di vent’anni, era riuscito a costruire un impero finanziario, aprendo banchi non solo a Firenze ma anche a Roma e Venezia. Peggio ancora, suo padre aveva sempre rifiutato di rinnegare le sue radici popolari e, lungi dal voler affiancare la propria Casa a quelle delle famiglie nobili, aveva sempre scelto di rimanere con la gente comune, guardandosi bene dal ricoprire incarichi politici. Le volte in cui era entrato nel Palazzo della Signoria si potevano contare sulle dita di una mano.

    Cosimo scosse la testa. In cuor suo percepiva chiaramente le buone ragioni che animavano Lorenzo. Ma se le cose stavano come diceva lui, chi poteva aver commesso un simile delitto? E, soprattutto, com’era stato possibile che il veleno fosse giunto fino al desco di suo padre? Cercò con i suoi profondi occhi neri quelli chiari e vivi di suo fratello. Il suo sguardo suggeriva mille domande e lasciò che galleggiasse per un istante in quello di lui, per esortarlo a parlare.

    «Mi sono chiesto se era giusto dirtelo, dal momento che quel che ho in mano sono soprattutto sospetti», riprese Lorenzo. «Ho una sola prova per queste mie affermazioni. Ma la morte di nostro padre è stata talmente repentina da lasciarmi più di un dubbio».

    «Su questo hai pienamente ragione. Ma come può essere accaduto?», domandò esasperato Cosimo, «quel veleno, se è vero quel che dici, dev’essere stato introdotto da qualcuno in casa! Nostro padre non è mai uscito di recente e, se anche fosse accaduto, di certo non ha consumato pasti o bevande fuori di qui».

    «Me ne rendo conto. Ed è per questa ragione che il mio è soprattutto un sospetto, come ho appena detto. D’altra parte, a Giovanni i nemici non mancavano. E poi, quando credevo che fosse tutta una follia dettata dalla mia mente ho trovato questo».

    Fra le mani Lorenzo fece comparire un grappolo di bacche scure. Erano magnifiche e parevano perle nere: seducenti e irresistibili.

    Cosimo non capiva, il suo sguardo poté più di mille domande.

    «Belladonna», disse Lorenzo. «Si tratta di una pianta che produce fiori foschi e frutti velenosi. Si trova nei campi, spesso vicino alle antiche rovine. La verità è che ho trovato questo piccolo grappolo qui, in casa nostra».

    Quella rivelazione lasciò Cosimo sgomento. «Ti rendi conto di quello che dici? Se è così, vuol dire che qualcuno in questa casa trama contro la nostra famiglia».

    «Motivo in più per non lasciare trapelare sospetto alcuno».

    «Già», convenne Cosimo, «sono assolutamente d’accordo, ma questo non ci impedirà di venire a capo di questa faccenda che, se dovesse rivelarsi vera, aggiungerebbe tragedia alla morte. Spero che le nostre siano solo speculazioni, perché se così non fosse, Lorenzo, ti giuro che ucciderei il responsabile con le mie mani».

    Cosimo sospirò. Sentì quelle stupide minacce suonare a vuoto e trasmettergli un senso d’impotenza e frustrazione che quasi non riusciva ad arginare.

    «Non dovrebbe essere difficile procurarsi un veleno come quello, non credi? In una città come Firenze…», domandò, non senza preoccupazione, poiché era un fatto ben amaro constatare quanto facile fosse attentare alla vita di qualcuno in quella città. E con quanto rischiava di ereditare, avrebbe dovuto essere di lì in avanti doppiamente attento.

    «Qualsiasi buon speziale può mettere le mani su sostanze del genere e prepararne un farmaco o un decotto».

    Cosimo lasciò che lo sguardo indugiasse sul giardino attorno. Era spoglio e grigio, proprio come quella mattina invernale. Le piante rampicanti formavano sui muri ragnatele scure e inquiete.

    «D’accordo», disse poi, «faremo così. Sarai tu a seguire la pista dell’avvelenamento. In casa non diremo nulla. Nutri i tuoi sospetti, da’ loro una forma. Se esiste davvero l’uomo che ha assassinato nostro padre, allora voglio guardarlo negli occhi».

    «Lo farò, non avrò pace fino a quando il volto di un simile serpente non avrà un nome».

    «E sia. Ma ora rientriamo».

    Lorenzo annuì.

    Così dicendo, tornarono in casa, mentre il nero presentimento di quella rivelazione andava a scardinare loro il cuore.

    4

    Le ultime volontà

    In quei giorni era stata allestita una veglia funebre.

    Tutti gli esponenti delle maggiori famiglie di Firenze erano venuti a rendere omaggio a Giovanni. Perfino quelli che in vita lo avevano considerato un acerrimo nemico. Fra questi, naturalmente, v’erano gli Albizzi, che da sempre spadroneggiavano a Firenze. Rinaldo era giunto con quel suo sguardo colmo di sdegno e arroganza. Eppure non aveva potuto evitare la visita. Per due giorni, Palazzo Medici era stato un viavai di maggiorenti.

    Ora che tutto era finito e che i funerali erano stati celebrati in modo splendido ma misurato, Cosimo, Lorenzo e le loro mogli si trovavano in uno dei grandi saloni del palazzo per ascoltare le volontà di Giovanni.

    Ilarione de’ Bardi, l’uomo di fiducia della famiglia, colui nel quale Giovanni riponeva assoluta fiducia, aveva appena lacerato i sigilli e ora si apprestava a dare lettura delle ultime volontà di Giovanni. Lorenzo aveva il volto corrucciato. Pareva assorto in cupi pensieri. Di certo, pensò Cosimo, stava procedendo nelle sue indagini. Presto ne avrebbero parlato, analizzando i progressi fatti. Nel frattempo, Ilarione aveva cominciato la lettura.

    «Figli miei e unici eredi: non ho ritenuto necessario scrivere testamento perché da molti anni, ormai, vi ho nominato alla direzione del Banco, ponendovi al mio fianco per tutto quel che concerne l’amministrazione e l’attività in generale. So perfettamente di aver vissuto tutto il tempo che Dio ha ritenuto nella sua bontà di voler assegnare il giorno della mia nascita e credo di non sbagliare nel dire che muoio contento, perché so di lasciarvi benestanti, in salute e certamente capaci di vivere a Firenze con l’onore e la dignità che vi si confanno, e confortati dall’amicizia di molti. Sento di poter dire che la morte non mi è grave perché forte e netta è la consapevolezza di non avere mai recato offesa ad alcuno e anzi di avere, per quel che mi è stato possibile, fatto del bene a quanti ne avevano bisogno. Per questa stessa ragione esorto voi a fare altrettanto. Se volete vivere sicuri e rispettati, vi raccomando di osservare le leggi e di non togliere nulla di quanto è dovuto agli altri poiché, così facendo, vi terrete lontani dal suscitare attorno a voi l’invidia e il pericolo. Vi dico questo perché dovete rammentare che la vostra libertà finisce là dove comincia quella degli altri e perché ciò che ci fa odiare non è quanto si dà all’uomo ma quanto gli si toglie. Badate perciò all’affare vostro, poiché, in questo modo, avrete molto di più di tutti coloro che, avidi e desiderosi d’impossessarsi del patrimonio altrui, finiscono solo per smarrire il proprio, ritrovandosi, in ultimo, a trascorrere una vita sprofondata nello squallore e nell’affanno. Ecco perché, nel perseguire queste poche regole di buon senso, sono certo – malgrado i nemici, le sconfitte e le delusioni che pure affliggono a tratti la vita di ciascuno di noi – di essere riuscito a preservare la mia reputazione intatta in questa città e, se possibile, di averla financo accresciuta. Non ho dubbi circa il fatto che, se seguirete questi miei pochi e semplici consigli, anche voi manterrete e accrescerete la vostra. Se però riterrete di comportarvi altrimenti, allora, con altrettanta certezza, vi predico che la vostra fine sarà una e una sola e cioè quella di coloro che hanno rovinato se stessi, rovesciando sulla propria famiglia le più indicibili sventure. Figli, vi benedico».

    Qui la voce d’Ilarione s’interruppe. Piccarda era già scoppiata in lacrime. Fu un pianto silenzioso, mentre le gote venivano segnate da solchi umidi. Portò un fazzoletto di finissimo lino agli occhi e li asciugò. Non pronunciò verbo, poiché lei per prima voleva che le volontà e le parole di Giovanni rimanessero nell’aria, scolpendo una visione che avrebbe dovuto diventare codice di comportamento per i figli.

    Poi Ilarione pose la domanda più ovvia ma anche la più giusta.

    «E ora che ho letto quanto mi era stato chiesto, vi domando: che cosa dobbiamo fare per il Banco?».

    Fu Cosimo a prendere la parola.

    «Chiameremo a Firenze tutti i fattori dei nostri Banchi in Italia, affinché vengano a rendere conto della situazione presso ciascuno di essi. Di questa parte, per il momento, ti prego di occuparti tu, Ilarione».

    L’uomo di fiducia dei Medici annuì con gravità.

    Poi si congedò.

    Piccarda guardò Cosimo con fermezza, come sempre faceva quando doveva dirgli qualcosa d’importante. Lo aveva atteso nella biblioteca della casa.

    Stava seduta in un’elegante poltrona foderata di velluto. Le braci rosse sfrigolavano nel focolare e di tanto in tanto qualche scintilla pareva innalzarsi come una lucciola ribelle fin sopra al soffitto a cassettoni.

    Piccarda teneva i lunghi capelli del caldo colore della buccia di castagna raccolti in una cuffia ricamata e orlata di perle, con un cappuccio allucciolato in filo d’oro e pietre preziose. Complice la tinta intensa d’indaco, la cioppa azzurra, bordata di pelliccia, esaltava per contrasto i toni morbidi dei suoi occhi scuri, ed era tenuta stretta sopra la vita da una magnifica cintura d’argento. Le pieghe, trattenute alle mani, sfoggiavano in modo discreto ma evidente la notevole quantità di prezioso tessuto utilizzato per la confezione del vestito. Ampie maniche a gozzo terminavano al polso con un ricamo ancora una volta in argento, ed erano tagliate in modo tale da mostrare la manica della gamurra di velluto broccato, di colore grigio che, di certo, aveva richiesto una lunghissima lavorazione.

    Nonostante le dure giornate trascorse, Piccarda era splendida e determinata a parlare con suo figlio affinché gli fosse chiaro quel che doveva fare. Cosimo non era certo uno sciocco ma nutriva un amore per l’arte e la pittura che, a suo giudizio, non sempre si sposava così bene con l’eredità di cui era stato investito. E Piccarda non poteva consentire errori o malintesi. Doveva essere certa che Cosimo avesse capito cosa lo attendeva.

    «Figlio mio», gli disse, «tuo padre non avrebbe potuto essere più chiaro e affettuoso nelle sue parole. E tuttavia, so per certo che in punto di morte non ti ha risparmiato raccomandazioni anche di altra natura. Firenze è come uno stallone selvaggio: magnifico ma bisognoso di essere domato. Ogni giorno. Troverai nelle sue strade persone disposte ad aiutarti e a supportare la tua opera, ma anche tangheri e perdigiorno, pronti a tagliarti la gola e nemici sofisticati che tenteranno di profittare del tuo buon cuore e della tua onestà.

    «Madre mia, non sono uno sprovveduto», protestò Cosimo pensando a quanto bene stava imparando quella verità.

    «Lasciami proseguire. So perfettamente che non sei tale e che hai avuto parte importante nella crescita di questa famiglia ma ora le cose si complicano, figlio mio. Sono convinta che saprai trovare la tua strada che, pur rispettosa della volontà di tuo padre, potrà snodarsi secondo le tue convinzioni. Voglio raccomandarti di procedere sulla via tracciata e dunque di modellare il tuo comportamento su quello degli stoici, improntato perciò a una ricerca esteriore del bene comune, della moderazione in ogni sua forma e di un formale rifiuto del prestigio personale e dell’ostentazione. Voglio anche dirti che intendo essere con te sempre, d’ora in avanti, e che sarà mia prima preoccupazione far sì che tutta la famiglia ti segua, quali che siano le tue decisioni. Ma ricorda che anche se la situazione finanziaria è florida e il prestigio evidente, gli avversari sono molti e insidiosi. Mi riferisco, in modo particolare, a Rinaldo degli Albizzi. Guardati da lui e dai suoi maneggi politici. E sappi che è un uomo spietato e pronto a tutto. Non v’è limite alla sua ambizione e sono certa che farà qualsiasi cosa per nuocerti».

    «Starò in guardia, madre mia, e saprò farmi valere».

    «Puoi contare su tuo fratello, naturalmente. Ho sempre pensato che i vostri caratteri e la vostra disposizione d’animo si combinino magnificamente. Più rapido e irruente lui, più riflessivo e analitico tu. Là dove lui agisce, tu mediti e poi ti muovi con un’ampia visione del mondo e ciò è bello e utile nella vita. Siate sempre vicini e rispettosi dei modi e dei tempi dell’altro. Tornando a quel che ti aspetta: cerca di occuparti dei tuoi affari e ricorda che è molto importante prevedere le mosse del tuo avversario. Giovanni è sempre stato restio a prendere parte alla vita politica della città, ma io su questo non sono mai stata troppo d’accordo. Credo che sia importante, invece, avere una posizione mediana, nella quale, pur rimanendo vicini al popolo, da sempre nostro alleato, si coltivi un percorso di incarichi politici e ruoli pubblici che possa valorizzare le istanze popolari e rispondere alle preoccupazioni dei nobili, così da conservare un’ala d’appoggio anche presso le famiglie più potenti. Quello che voglio dirti è che dovrai lavorare anche in questa direzione, in modo da garantirti un supporto doppio».

    Cosimo capiva perfettamente quanto giusti e saggi fossero i consigli di Piccarda. Annuì. Ma sua madre era ben lungi dall’aver terminato.

    «Non sono io a doverti dire che, a quanto sembra, Giovanni di Contugi ha sobillato Giusto Landini a Volterra. E le ragioni risiedono nella legge sul Catasto avallata da tuo padre. Ti dico questo perché non possiamo non prendere posizione e s’impone una scelta. Non voglio rimproverarti per l’attenzione che stai dedicando ai lavori presso la cupola del duomo, ma è altrettanto vero che rimanere fuori dalla scena politica può costarci caro. Poni dunque attenzione a questo fatto. Non ti chiedo di esporti più di quanto dovresti, Rinaldo degli Albizzi potrebbe vedere nel modo peggiore un tuo improvviso interesse per la cosa pubblica, ma non possiamo nemmeno lasciare a lui e alla sua famiglia l’intera iniziativa. Firenze sta scendendo in armi contro Volterra e la nostra posizione dev’essere chiara».

    «D’altra parte non possiamo nemmeno tradire il popolo e la plebe», osservò Cosimo. «Giovanni, mio padre, ha ben voluto la legge sul Catasto, la quale ha aiutato proprio la gente di Firenze a veder tassata maggiormente la nobiltà».

    «Ma Rinaldo degli Albizzi non gliel’ha mai perdonata. Quello che sto cercando di dirti è che non possiamo andargli contro proprio ora».

    «Lo so. Per questo Rinaldo ha mosso con i suoi uomini d’arme, insieme a Palla Strozzi, contro Giusto Landini».

    «Naturalmente. Tuo padre si sarebbe schierato con i nobili ma lo avrebbe fatto senza prendere una posizione troppo netta. E avrebbe fatto bene. Quello che conta adesso è far capire comunque da che parte stiamo. Il senso delle mie affermazioni è proprio questo: non puoi più permetterti di non avere una precisa linea politica e di far conoscere i tuoi intendimenti. E dunque, senza sconfessare l’opera di tuo padre, dai sostegno a Firenze. Giacché l’intendimento di Giovanni era quello di ripartire le risorse e i sacrifici secondo un principio di proporzione e in questo non v’era nulla di male. E non c’è contraddizione nel sostenere questo principio e opporci nei confronti di una città che si rivolta contro Firenze».

    «Lo so», sospirò Cosimo, «penso che sceglierò di affiancarmi alle altre famiglie, in modo da non dare la sensazione, in questo momento, di voler distinguermi eccessivamente, ma salvando al contempo la nostra posizione di protettori del popolo e della gente tutta. Se perdiamo la gente comune, tutto quello per cui ha lavorato mio padre andrà perduto».

    Piccarda annuì soddisfatta. Cosimo sceglieva bene e con giudizio. Un sorriso, per quanto intriso di amarezza le illuminò il viso. Ma non fece in tempo a proferir verbo che Contessina fece irruzione nella biblioteca.

    Aveva gli occhi sbarrati e sembrava avesse il diavolo alle calcagna.

    «Giusto Landini…», urlò con voce sorda, «Giusto Landini è morto: assassinato per mano di Arcolano e dei suoi sgherri!».

    5

    Rinaldo degli Albizzi

    «Il vecchio finalmente è morto e con lui i Medici subiranno un duro colpo».

    Rinaldo degli Albizzi gongolava. Se ne stava accoccolato su una panca della locanda nel suo farsetto verde di broccato e calzabraca del medesimo colore. Palla Strozzi lo guardava in tralice.

    «Che intendi dire? Che sarebbe questo il momento adatto per colpire quei maledetti usurai?».

    Rinaldo ravviò i riccioli castani. Gli occhi scintillavano. Sfilò i guanti in pelle che gettò sul tavolo in legno. Attese che la bella locandiera gli si avvicinasse e per tutto il tempo non degnò Palla d’una risposta. Amava lasciarlo ad aspettare. Era quello un modo per rimarcare la differenza che, malgrado tutto, correva fra loro. La famiglia Strozzi era potente, ma non certo quanto la sua. E poi Palla non era che un umanista, un imbrattacarte sottile ed elegante ma del tutto inconcludente. Per cambiare le cose ci volevano nerbo e sete di sangue e lui era ben provvisto dell’uno e dell’altra.

    «Portaci un cosciotto d’agnello», disse alla bella locandiera, «E poi pane e vino rosso. E fai in fretta ché molto abbiamo combattuto e abbiamo fame».

    Mentre la donna dai lunghi riccioli neri se ne tornava verso la cucina con gran fruscio di gonne, Rinaldo le scoccò uno sguardo di sguincio. Aveva un volto sincero e occhi d’un castano imbevuto d’oro. C’era nelle sue forme qualcosa che gli accendeva il sangue.

    «È interessante notare come meni vanto del nostro valore guerriero quando non abbiamo alzato nemmeno un dito… Ma suppongo faccia parte del tuo discutibile modo di voler far colpo sulle popolane», commentò Palla Strozzi non senza una punta di risentimento. Odiava quando Albizzi non gli rispondeva. E ciò accadeva più spesso di quanto avrebbe voluto.

    Per tutta risposta Rinaldo sorrise.

    Poi rivolse gli occhi su Palla che era in attesa, seduto di fronte a lui.

    «Mio buon Palla», cominciò, «la prenderò larga. Non è forse vero che i Dieci di Balia ci hanno incaricato di condurre i nostri uomini contro Volterra, punendola per essere insorta, e che poi la situazione si è ricomposta da sola? L’hai vista, no? La testa di Giusto Landini piantata sulla picca! E ti ricordi perché Giusto ha voluto insorgere contro Firenze, non è vero?»

    «Certo!», esclamò Strozzi, «per via delle nuove tasse imposte dalla legge sul Catasto».

    «Voluta da…?», lo imbeccò Rinaldo degli Albizzi.

    «Giovanni de’ Medici».

    «Per l’appunto».

    «Ma alla fine l’arroganza di Giusto è stata punita dai suoi stessi concittadini. Arcolano ha radunato i suoi e gli hanno tagliato il capo».

    «E, mi permetto di aggiungere, come hai bene osservato già prima, così facendo hanno risparmiato a noi il lavoro sporco e, sempre noi, ne usciamo puliti come un cielo di maggio e vittoriosi per aver ricondotto Volterra sotto l’ala protettrice di Firenze».

    «E senza aver alzato un dito», concluse Palla Strozzi.

    «Esatto. Ora», continuò Rinaldo, «non è un mistero che Niccolò Fortebraccio se ne stia a macerare a Fucecchio, se è vero com’è vero che è stato proprio Giovanni de’ Medici il principale fautore della pace a Firenze e l’uomo che, dopotutto, lo ha fatto licenziare dai fiorentini. Puoi tu negarlo?»

    «Me ne guarderei bene», disse spazientito Strozzi «ma non giocare con me, Albizzi».

    «Non sto giocando, proprio per niente, e te ne renderai ben presto conto. Ora: è un fatto che la città di Volterra, che pareva ribellarsi, ci è appena stata restituita, obtorto collo, da messer Arcolano grazie a un suo maneggio ben giocato, non c’è che dire».

    «Se maneggio si può definire un assalto alla lama».

    Rinaldo allontanò quell’affermazione con un cenno della mano, quasi ne fosse infastidito. E in effetti, infastidito lo era eccome, poiché mal sopportava quel modo affettato di Palla di stare a sottolineare quegli stupidi dettagli.

    «Sciocchezze», affermò, «se non si è disposti a versare del sangue, ben difficilmente potremmo pensare di fare nostra Firenze».

    «Ma io non ho alcun problema a farlo, Albizzi, solo mi piace che le cose vengano chiamate per quello che sono». Palla sapeva che, così facendo, avrebbe irritato il compagno e non desiderava in alcun modo facilitargli il compito. Dopotutto, non si sentiva inferiore a lui in alcun modo.

    «Via, amico mio, non esageriamo con le sottigliezze. Conserva queste tue strategie per altri. Venendo a noi: Niccolò Fortebraccio brama ardentemente di tornare a incendiare città e stuprare donne…».

    «Come dargli torto?», lo interruppe Palla e mentre così diceva anche il suo sguardo cadde sulla bella locandiera, mentre posava sul tavolo del pane fragrante e una brocca di vino più nero del peccato, insieme a due coppe di legno. Nel fare ciò, l’ampia scollatura della semplice veste rivelò un seno bianco e pieno che fece schioccare la lingua a Palla, quasi avesse appena gustato un’irresistibile leccornia.

    Lei parve non farvi caso e, mentre lui non le staccava gli occhi di dosso, tornò in cucina.

    «Presta attenzione alle mie parole invece di interrompermi per importunare le locandiere, vecchio impenitente», lo redarguì Albizzi. «Ho ben capito che condividi gli appetiti di Fortebraccio ma il punto non è affatto questo!».

    «E quale sarebbe, di grazia?», e nel domandarlo, Strozzi versò il vino nei bicchieri, portando il suo alle labbra e vuotandolo in pochi sorsi mentre il nettare gli appagava i sensi.

    «Quello che vorrei farti capire è che dobbiamo procurar battaglia. Solo scatenando un’altra guerra potremo gettare la città nella confusione più completa e, dunque, approfittarne per impossessarcene d’un sol colpo».

    «Ma davvero?», Palla era incredulo e perciò incalzò Rinaldo, «sei davvero così convinto che sia questa la miglior strategia? Vediamo se ho capito: vorresti usare il risentimento di Fortebraccio contro i fiorentini, corromperlo sottobanco, fargli muovere guerra contro Firenze e, servendoti di sangue e terrore, impadronirti della città?»

    «Be’, l’idea è questa e poi sarebbe una guerra finta. Gli facciamo ammazzare un po’ di plebaglia, magari ci finiscono in mezzo anche Cosimo e i suoi e a quel punto fermiamo il massacro, giacché siamo d’accordo, e prendiamo il potere. Facile e pulito, non trovi?».

    Palla scosse la testa.

    «Non mi convince affatto», disse. «Non converrebbe forse aspettare un’occasione più propizia? Lo sai che Niccolò da Uzzano è amico dei Medici e con lui al loro fianco non sarà facile aver ragione di uno come Cosimo né impossessarci della città, come dici tu».

    «E dunque che cosa proponi?», sbottò spazientito Albizzi. «Giovanni de’ Medici è morto e la famiglia e il suo patrimonio passeranno sotto la guida dei figli. Lorenzo è uno sciocco ma Cosimo può essere pericoloso. Ha dimostrato in più di un’occasione di sapersi comportare. C’è il suo nome dietro la cupola del duomo e sappiamo tutti quali siano i suoi rapporti con il papato. Certo, si dà grandi arie di benefattore e finge di tenersi ai margini della pugna, ma in verità è scaltro e spietato come il padre e forse anche di più. La verità è che è un corruttore e un usuraio e se lo lasceremo fare porterà alla rovina non solo le nostre famiglie, ma l’intera Repubblica».

    Palla sbuffò.

    «Premesso che la cupola di Santa Maria del Fiore non è solo affare dei Medici, dato che è stata l’Opera del Duomo a decretarne modi e tempi di realizzazione, e che, a quanto mi consta, Filippo Brunelleschi sta procedendo di gran carriera…».

    «Perfino troppo!». Fu Rinaldo questa volta a interrompere Palla.

    «Già, fin troppo», convenne Palla, «e quel che è peggio, in pieno danno di Lorenzo Ghiberti che era stato comunque incaricato di sovrintendere con Filippo all’opera!».

    «Sì, sì, lo so che questo è il tuo più grande cruccio, ma devi fartene una ragione, non è con la cultura che risolveremo i nostri problemi!», sbottò Rinaldo che sopportava a fatica le costanti deviazioni di pensiero dell’amico, così spesso legate a un tema a lui completamente alieno quale quello dell’arte.

    «A ogni modo», riprese Strozzi, «non vedo quale oggettivo vantaggio potremmo ottenere dal distruggere la nostra stessa città al solo fine di far ammazzare il Medici. A questo punto tanto varrebbe assumere un paio di assassini prezzolati. E del resto, non avrebbe forse più senso muovere Fortebraccio non già verso Firenze stessa ma contro ben altro obiettivo? E magari legittimati dal Magistrato dei Dieci di Balia?».

    E mentre le parole di Palla Strozzi galleggiavano seducenti e allusive nell’aria, la locandiera comparve con un vassoio di legno, sul quale troneggiava un piatto da portata, recante un enorme cosciotto d’agnello tagliato a metà. Altre due ciotole più piccole diffondevano un intenso aroma di lenticchie stufate.

    «Magnifico», si lasciò sfuggire Rinaldo, quando ebbe il cibo davanti agli occhi. «Ma dicevi?»

    «Dicevo che forse potremo avere miglior fortuna convincendo Fortebraccio a dedicare le proprie sanguinarie attenzioni verso Lucca».

    «E a che pro?»

    «Al fine di allargare i nostri territori, legittimando così una nuova guerra, ma senza favorire un assalto contro la nostra stessa città. Sarebbe semplicemente folle. Ma dirò di più. Per la prima parte la tua idea è buona: riempire le borse di Fortebraccio per convincerlo ad attaccare. Solo che gli farei assaltare Lucca. È stanco di rimanersene a marcire a Fucecchio, è pericoloso e fuori controllo, lo hai detto tu stesso, e così giustificheremo la decisione di impegnarlo contro la città di Paolo Guinigi. Io in questo momento sono nei Dieci di Balia e ho i miei bravi alleati, e tu i tuoi: non sarà difficile convincere il Supremo Magistrato a esprimere voto favorevole per attaccare Lucca e imporre la nostra egemonia, una volta per tutte. Proprio come è accaduto con Volterra. Fortebraccio attaccherà e assedierà Lucca. Una volta che avrà preso la città, saremo ancora una volta noi, emissari della città di Firenze, a sedare gli animi, ottenendo così la pace dopo la vittoria e riguadagnandoci il favore del popolo minuto e delle genti di Firenze e, in quanto salvatori della Repubblica, rafforzeremo le nostre posizioni in città contro i Medici».

    Rinaldo ci pensò su. L’idea non era malvagia ma Palla era troppo sottile in quelle sue elucubrazioni.

    Rimase in silenzio e addentò la carne, strappandola dall’osso bianco.

    Avevano appena vinto la battaglia contro Volterra ma la guerra doveva continuare, su questo si trovava d’accordo con Palla, e l’idea di rafforzare ancora una volta il proprio prestigio e il proprio potere politico attraverso la superiorità militare e l’allargamento dell’egemonia fiorentina era un modo intelligente per ridurre sempre di più il ruolo di Cosimo de’ Medici. Poi, in guerra, un colpo alle spalle, un fendente fatale… erano all’ordine del giorno. C’era morte ovunque e lui aveva tutta l’intenzione di governarne tempi e modi. Non sarebbe rimasto a guardare.

    «Daremo battaglia dunque», e nel dirlo alzò la coppa. Palla Strozzi fece altrettanto, suggellando il brindisi.

    «E ridurremo al silenzio quel maledetto rampollo di Casa Medici». Rinaldo vuotò la coppa. Il vino gli impiastrò le labbra. Alla luce color burro delle candele pareva sangue raggrumato. Si lasciò sfuggire un ghigno crudele. «Cosimo ha i giorni contati», disse con voce sorda.

    6

    La profumiera

    Lorenzo non era nuovo a questioni di veleno. Fra le tante sue virtù, aveva mutuato dalla madre la passione per le erbe e le polveri. Non era uno speziale e nemmeno conosceva le segrete alchimie dettate dalla saggezza popolare, e tuttavia qualcosa della materna passione gli era rimasto, se non altro al punto da essere in grado di sapere quali fossero gli speziali che a Firenze potevano procurarsi con una certa facilità polveri o erbe venefiche.

    Non era molto da cui partire, ma era pur sempre qualcosa e, a esser sinceri, di un fatto era quasi certo: suo padre poteva non essere morto di morte naturale. Qualcosa gli diceva che quella sua malattia repentina e senza speranza era stata indotta.

    Da chi e a quale scopo ancora non gli era dato saperlo.

    Le domande gli affollavano la mente e le risposte possibili moltiplicavano quelle domande perciò, senza darsi troppa pena, aveva deciso in maniera assai razionale di affrontare il problema, seguendo il metodo più semplice e certo: risalire dalla fine all’inizio del disegno criminoso.

    Partendo da quel presupposto, aveva, nei giorni che erano seguiti alla morte di Giovanni, provveduto a interrogare in modo risoluto e caparbio alcuni speziali. Certo, aveva rischiato qualcosa, in un paio di situazioni era perfino andato oltre il consentito ma, da un certo punto di vista, tutti sapevano chi fosse e, ancor più importante, chi rappresentasse. Perciò anche quelli che avevano subito una parola o un gesto di troppo, si erano guardati bene dal proferir verbo per tema di porsi in contrasto con i Medici. Il punto vero era che non aveva cavato un ragno dal buco.

    Nel frattempo, insieme a Cosimo, aveva tenuto d’occhio tutta la servitù che prestava la propria opera a Palazzo Medici. Era stato un affare complesso ma alla fine i sospetti si erano concentrati su una bella cameriera dai capelli corvini, assunta qualche tempo prima. Svolgeva alcune mansioni secondarie per un paio di giorni la settimana. In seguito ad alcune ricerche, Lorenzo aveva appurato che, in precedenza, quella donna aveva avuto per un certo periodo una bottega di profumi a Firenze. Si chiamava Laura Ricci. Se qualcuno sapeva qualcosa in materia d’intrugli e altre diavolerie, quella era lei, si erano detti. Naturalmente avevano fatto in modo di non lasciar trapelare i sospetti. Lorenzo l’avrebbe seguita per sapere dove abitava e per provare a rivolgerle alcune domande. Avrebbe dovuto muoversi con cautela e attenzione. Dopotutto, non c’era prova alcuna che fosse stata lei. Ma, di certo, era la persona più indiziata.

    Per questa ragione, in quel momento, Lorenzo stava seguendo di soppiatto, proprio la bella profumiera. Le stava dietro già da un po’ per i vicoli fangosi e bui della città, incrostati del sangue e dei resti di carne macellata.

    Quella dei beccai era una vexata quaestio in città, dal momento che, attraverso il costante viavai dei loro barrocci e barroccini, lasciavano quasi sempre scie di sangue e scarti di carne lungo le vie del centro. L’odore era nauseabondo e pregno d’un afrore dolciastro che dava il voltastomaco. Da tempo, il Consiglio dei Duecento aveva sollevato il problema ma nessuna delle istituzioni competenti aveva poi deciso cosa fare. Qualcuno aveva ipotizzato di trasferire le botteghe di tutti i beccai fiorentini sul Ponte Vecchio ma poi non se ne era fatto più niente. A ogni modo, dopo aver superato il Mercato della Paglia, Lorenzo aveva poi seguito la donna al Ponte Vecchio, fino ad arrivare Oltrarno. Qui, dopo aver superato l’Ospizio per i Viandanti, la profumiera aveva proseguito verso il ponte di Santa Trinita, aveva quindi svoltato in un vicolo sulla sinistra, fino a fermarsi di fronte a quella che doveva essere stata la sua bottega.

    Aveva tirato fuori la chiave e l’aveva infilata nella toppa.

    Si era guardata attorno, senza riuscire a nascondere un’ombra di preoccupazione, e poi era entrata. Pareva nutrire il dubbio di essere stata seguita.

    Quando era entrata, Laura aveva trovato il locale fiocamente illuminato. Non più di quattro candele spandevano la loro debole luce da un lampadario di ferro appeso al soffitto. Nel tentativo di rendere meno lugubre l’ambiente, aveva aperto un cassetto, estraendo alcune candele di sego, le aveva infilate in un candelabro d’argento a tre bracci, appoggiandolo su un bancone, in mezzo a una serie di recipienti di vetro che contenevano erbe e polveri colorate.

    Aveva appena terminato di rischiarare un po’ l’ambiente, avendo cura di tenere le imposte ben chiuse, quando una voce l’aveva fatta quasi trasalire.

    Seduto in una poltrona di velluto, in un angolo, se ne stava un uomo dall’aspetto portentoso. Aveva profondi occhi blu e lunghi capelli rossi. Vestiva completamente di nero, compreso il mantello che gli pendeva da una spalla. Il farsetto, rinforzato con piastre di ferro, lo poneva nel novero degli uomini d’arme e, a ulteriore conferma, portava una daga corta alla cintura che aveva ben pensato di estrarre. Con quella, evidentemente già da un po’, si era tagliato una mela in quarti e aveva cominciato a mangiarla apparentemente con gran soddisfazione.

    «Sei arrivata allora, mein Kätzchen?».

    L’uomo aveva pronunciato quelle parole con un tono aspro e sgradevole, complice una voce secca e quasi incapace di rimanere sullo stesso tono. In un certo senso andava e veniva a suo piacimento dall’alto al basso senza che riuscisse a governarla. Non perfettamente, per lo meno.

    «Mio Dio, Schwartz», disse Laura, «mi hai spaventato».

    Il mercenario svizzero l’aveva guardata a lungo senza parlare. La vide rabbrividire sotto il suo sguardo di ghiaccio.

    «Hai paura di me?», le aveva chiesto.

    «Sì».

    «Molto bene. Hanno dei sospetti?»

    «Sì».

    «Lo immaginavo. E del resto, hai fatto ciò che dovevi fare. Se anche avessero capito qualcosa, sarà troppo tardi».

    «Che intendi dire?»

    «Vieni qui».

    Lei era rimasta dov’era.

    Lui non lo avrebbe mai ammesso ma quella cosa gli piacque ancora di più. Amava le donne di temperamento. E Laura lo era, eccome se lo era.

    La fissò un istante di troppo ma era una vera bellezza. Anche alla tremula luce delle candele era abbagliato da quella pelle olivastra, e si perdette volentieri, almeno per un attimo, in quegli occhi verdi come un bosco d’estate. Una cascata di ricci neri incorniciava un ovale perfetto ma era forse il profumo, intrigante e seducente, a rubargli del tutto l’anima, quell’aroma di menta e ortica che ora pareva rimbalzare e affogare l’intera stanza nel suo liquido splendore.

    «Come mai hai chiuso la bottega?», cambiò discorso.

    «Gli affari non andavano bene e comunque non è un fatto che ti riguarda».

    «D’accordo, d’accordo», e nel dire così alzò le mani in segno di resa. La lama della daga brillò alla luce delle candele.

    «Vuoi dirmi il motivo della tua visita?»

    «Vengo per salvarti».

    «Ma davvero?»

    «Mi pare chiaro che ormai i Medici avranno mangiato la foglia. Il fatto che Lorenzo ti abbia seguito dimostra che ho ragione. Non solo: è qui fuori ad attenderti. L’ho visto».

    «Mio Dio!». Laura trasalì. «Non me n’ero accorta! Lo temi?»

    «Nemmeno un po’».

    «Dovresti».

    «E perché?»

    «Hai una vaga idea di chi sono? Evidentemente no».

    «Vieni qui», le intimò di nuovo lui.

    «E se non volessi?»

    «Non farmelo ripetere. Non sono in vena di vedermi rifiutare un piccolo favore da parte di una donna che ha bisogno di me».

    Laura parve rimanere a pensare per un istante a quel che Schwartz le aveva detto.

    Poi pronunciò tre parole.

    «Una bella donna», sottolineò lei con un mezzo sorriso, «troppo bella per uno come te, Schwartz!».

    «Già», celiò lui, «da una parte o dall’altra la belladonna c’entra sempre, non è vero? Ma non darti tutte quelle arie o, com’è vero Iddio, con questa daga ti faccio un paio di regali sulla faccia che perderai tutto a un tratto il tuo fascino».

    Laura provò un sentimento indicibile. Era qualcosa di inestricabilmente legato a un passato lontano, che sperava di aver cancellato per sempre. Una rabbia profonda, comprensibile solo a lei, le accese lo sguardo. Ma fu solo per un istante e fece in modo di non darlo a vedere. Sperò di essere stata abbastanza rapida e accorta da aver ingannato Schwartz. Tanto più che, in maniera quasi inspiegabile, era attratta da quell’uomo.

    Schwartz la prese per i capelli e la obbligò a inginocchiarsi.

    «Questa volta, voglio che mi mostri appieno la tua gratitudine».

    «Che cosa dirà…».

    «Il nostro comune signore?», la interruppe lui. «Non preoccuparti, pensa solo a questa», e mentre diceva così le portò la lama alla gola.

    Laura capì. E senza aggiungere altro, si mise in ginocchio. Gli abbassò la calzabraca. Lo fece lentamente in modo da prolungare l’attesa e il piacere di Schwartz. E anche il suo. Dopotutto, sapeva molto bene come far godere un uomo. Prese il membro fra le mani. Era già turgido e grande. Le prime gemme d’umore ne imperlavano il glande.

    «Succhia, ora», le disse lui, «o ne andrà della tua gola».

    Laura lo prese in bocca e Schwartz si godette un piacere che non aveva mai provato.

    7

    La fede e il ferro

    Cosimo aveva bisogno di rimanere solo. Troppe cose lo avevano angustiato in quei giorni di dolore e follia. La morte di Giovanni aveva lasciato un vuoto incolmabile e sapere che non poteva essere escluso l’avvelenamento aveva aperto una ferita profonda e lo aveva reso consapevole della propria vulnerabilità. Qualcuno in casa aveva cospirato contro di loro. Forse era una fantasia di Lorenzo ma Cosimo ne dubitava. Giovanni era davvero peggiorato repentinamente e si era spento all’improvviso. E fino a qualche giorno prima gli era sembrato un uomo così forte.

    Non bastava, certo. Non avevano molte prove a parte le bacche di belladonna e i sospetti sulla cameriera, eppure… Eppure lo aveva detto anche sua madre: i nemici erano molti, quindi perché continuare a nutrire l’ingenuità?

    Lorenzo aveva tenuto d’occhio tutta la servitù ed erano stati scelti alcuni nuovi assaggiatori. Come se non bastasse, un intero nuovo gruppo di offiziali della bocca. Quando Piccarda aveva chiesto delucidazioni, Cosimo aveva fatto in modo di non allarmarla troppo e però aveva detto che riteneva giusto così, che in base ad alcune piccole mancanze preferiva cambiare buona parte del personale.

    Piccarda l’aveva guardato incredula, ma non aveva voluto approfondire. Si sarebbe fidata di lui come aveva promesso.

    Guardò in alto, fissando la bella cupola. La luce chiara dell’inverno filtrava dalla lanterna e dagli occhi alla base dei costoloni, e scendeva in una dolce pioggia di raggi.

    Quella visione lo rinfrancò. Ripensò a Filippo Brunelleschi, alla sua arte, che era felice connubio di genio e determinazione. Quell’uomo era ossessionato, rapito da architetture e decori, da numeri e soluzioni eppure, da quel suo consumarsi giorno dopo giorno, traeva un’energia stupefacente che assumeva forme meravigliose e fantastiche, come le perfette geometrie degli archi a tutto sesto della cappella di San Lorenzo che, alternate alle sobrie linee quadrate della pianta, realizzavano una commistione di linee e cerchi semplicemente perfetta.

    Avrebbe dovuto essere così anche lui, pensò: la solida sobrietà delle linee dritte e la capacità di osare del cerchio. Che poi era quanto gli aveva raccomandato suo padre, seppur con altre parole.

    Aveva paura di deluderlo, era un fatto. Non era la gestione del Banco a fargli paura. Sapeva come trattare con i fattori e inoltre c’era Lorenzo ad aiutarlo, era piuttosto la difficile arte delle scelte politiche e dei compromessi a turbarlo. Aveva tutta l’intenzione di fare il meglio per la sua famiglia, di aiutare quelli che ne avevano maggiormente bisogno ma si sentiva anche tirato per la veste da tutti coloro che, fra i Dieci di Balia, non vivevano che per metterlo alla prova e, possibilmente, sopravanzarlo.

    E poi c’erano Giovanni e Piero, i suoi figli.

    Piero, in particolare, gli dava maggiori pensieri. Aveva quasi quattordici anni, si stava facendo uomo e ultimamente aveva perfino manifestato strane intenzioni di

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