Nostra signora delle scaglie
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Narrativa - racconto lungo (37 pagine) - Riti per un’evocazione innominabile. Unici indizi una scatola, un libro e uno strano teschio all’interno...
L'anziano sacerdote Gregorio ascolta la turbata confessione di un suo parrocchiano: una strana storia riguardante una scatola, un libro e un bizzarro teschio ritrovati all’interno di un antico convento. È l'inizio di un'indagine che scava nel tempo, sulle orme di una suora vissuta secoli prima, di un suo pellegrinaggio di espiazione a Gerusalemme, e di una cripta sepolta tra le sabbie. Un percorso nel passato che rivela lentamente, come polvere che scivola via da uno scrigno, i contorni di un disegno inquietante e oscuro, un retaggio soprannaturale che affiora nel presente.
Francesco Corigliano (Vibo Valentia, 1990) è docente di italiano, storia e geografia nella scuola media. Nel 2013 si è laureato in Filologia Moderna con una tesi dedicata ai racconti del terrore, mentre nel 2019 ha conseguito un Dottorato di Ricerca con un lavoro sulla letteratura weird. Ha pubblicato diversi articoli di critica letteraria dedicati al fantastico, in raccolte e riviste specializzate. Nel 2015 con il racconto Ex machina (Hypnos 5, 2015; Strane Visioni, 2016) si è classificato al primo posto al Premio Hypnos, concorso in cui negli anni successivi è stato più volte finalista. Nel 2018 è stato vincitore della XIV edizione del concorso NASF, dedicato ai racconti di fantascienza e finalista nella XXIV edizione del Trofeo RiLL. Nel 2019 esce per Kipple nella collana K_Noir la sua prima antologia personale Malasacra, a cura di Danilo Arrigoni.
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Anteprima del libro
Nostra signora delle scaglie - Francesco Corigliano
9788825411928
I
– Ite. Missa est.
Un mormorio d’approvazione. Forse di sollievo. I fedeli si fanno il segno della croce, si salutano, lasciano le panche e le navate della chiesa. Il brusio dei loro passi e delle parole smozzicate ronza basso tra le arcate, perdendosi tra le volute screpolate dei capitelli di stucco.
Padre Gregorio li osserva in silenzio. La luce lanciata dalle finestrelle alte e sottili illumina volti noti, espressioni conosciute, contrizioni e gioie riconoscibili. Tra tutti, solo un viso è fisso, duro in mezzo alla folla. Guarda lui, gli occhi dritti in direzione dell’altare.
Padre Gregorio resta ancora sui gradoni del coro. Socchiude appena le palpebre, la pelle della fronte contratta in un leggero spasmo. Poi fa un cenno verso il confessionale.
L’uomo che lo fissa annuisce, senza dire nulla. Il prete ha tutto il tempo di andare in sagrestia, svestire i paramenti, fare un paio di raccomandazioni ad Antonio, il vecchio sagrestano. Poi è di nuovo tra le navate, ora deserte, tra la polvere che aleggia pigra nei raggi calanti colorati dalle finestre.
Raggiunge il confessionale, scosta la tenda del sedile per il sacerdote, si accomoda e ritira il drappo. Non si volta neanche verso la grata, verso l’intrico di anelli scuri che nasconde una sagoma rigida ma leggermente ansimante, nell’ombra.
– Padre – dice quello – voglio confessarmi.
– Ti ascolto, figliolo – mormora Gregorio, intrecciando le dita e poggiandosi le mani in grembo.
L’altro non risponde. Il respiro è pesante, sì, quasi affannato.
– Ebbene? – sollecita il prete.
– Padre – si decide finalmente quello – è successo qualcosa nel cantiere. Stamattina.
Il legno del confessionale cigola appena, mentre il sacerdote si muove sul sedile. – Paolo, figlio caro – dice – ti ho già detto che i tuoi guai con la giustizia dovresti risolverli con i tutori della legge. Le concessioni per…
– No, padre – lo interrompe – no. Questa volta le carte del cantiere sono a posto – e si ferma di nuovo, di scatto.
– Se il cantiere è a posto, allora…
– Non è a posto. Nel senso, padre, nel senso che c’è qualcosa che non va. Non con la legge. Ho pagato tutto al comune. Tutto sistemato. Ma è successa una cosa, stamattina, con gli operai.
Silenzio. Un respiro affannato, e un altro calmo, in attesa.
– E cosa è successo, figliolo?
La sapienza delle pietre
– Lei sa, padre, che il lavoro al convento va avanti da un mese. Un mese che io, l’architetto e gli operai andiamo ogni giorno lì a lavorare. Oddio, l’architetto non sempre, come può immaginare, ma viene spesso, è una persona precisa il dottor Calighi.
«Ogni giorno lì. Ormai conosco bene il posto. Il vicoletto per entrare nel gran portone principale, beh, da piccoli andavamo sempre a giocare lì davanti. Ma all’interno non c’ero mai stato, mai.
Eppure già quando vi entrai la prima volta, mi sembrò di aver già visto quei corridoi, quelle stanze, quella desolazione. Non so in quanti luoghi abbandonati sia stato, padre: sono sempre diversi ma si assomigliano tutti, sempre lo stesso strato di polvere, le stesse ragnatele, lo sporco incrostato sui vetri che colora la luce di quelle tinte verdastri e gialle, quasi come se l’aria, dentro, fosse invecchiata in un modo tutto suo.
Ma lì era diverso, è diverso. Mi sembrò davvero di sapere in che direzione si diramassero i corridoi, quali porte fossero quelle giuste per raggiungere il chiostro. Quarant’anni di chiusura non avevano intaccato gravemente la struttura, e