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Il settimo manoscritto
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E-book262 pagine2 ore

Il settimo manoscritto

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Info su questo ebook

Tra Dan Brown e Ken Follett
Il nuovo talento del thriller italiano

Dall'autore del bestseller Il quadro maledetto

Dalla cassaforte del monastero di San Gregorio al Celio è stato rubato un manoscritto, l’Unicum.
Redatto in italiano cinquecentesco, nessuno è mai riuscito a interpretarlo. Eppure non c’è alcun motivo che giustifichi il furto: in giro ne esistono infatti altre copie. Giulio Salviati, scrittore di successo da tempo in crisi d’ispirazione, vive in una piccola mansarda a Trastevere ed è a corto di soldi. Una sera riceve la visita di un personaggio incappucciato, che gli chiede di indagare su quel furto, in cambio di una cospicua somma di denaro: la logica stringente con cui Salviati scrive i suoi thriller – pensa il misterioso committente – lo porterà là dove la polizia non è riuscita ad arrivare. Grazie alle sue indagini Salviati scopre che esiste un libro, conservato alla biblioteca Angelica, che parla proprio dell’Unicum. Ma qualcuno lo sta già leggendo. Chi è? La rocambolesca ricerca sulle tracce del manoscritto lo condurrà dentro a storici palazzi romani, fino a sconosciuti e inquietanti sotterranei… Cosa cela quell’antico codice di così importante? Un segreto per cui qualcuno è disposto a uccidere…

Dall’autore del bestseller Il quadro maledetto
Ai primi posti delle classifiche italiane

Un antico manoscritto rubato in un monastero 
Una caccia agli indizi tra palazzi romani e antiche chiese 
Quale terribile segreto si cela in quel codice?

Hanno scritto del Quadro maledetto:

«Nei sotterranei dell’Urbe il pericoloso mistero di un quadro maledetto.»
la Repubblica

«Un romanzo da brivido, davvero mozzafiato.»
Di Più

«Un ottimo romanzo di esordio: originale, avvincente, imprevedibile e coinvolgente. Consigliato a tutti gli appassionati del genere.»
Letteratura e cinema
Fabrizio Santi
È nato e vive a Roma. È laureato in Lingue e letterature straniere e insegna inglese in un liceo scientifico romano. Il quadro maledetto, il suo primo romanzo, è stato per settimane in vetta alle classifiche.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2016
ISBN9788854198388
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    Anteprima del libro

    Il settimo manoscritto - Fabrizio Santi

    en

    1357

    Prima edizione ebook: ottobre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9838-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Fabrizio Santi

    Il settimo manoscritto

    omino

    Newton Compton editori

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    CAPITOLO 31

    CAPITOLO 32

    CAPITOLO 33

    CAPITOLO 34

    CAPITOLO 35

    CAPITOLO 36

    CAPITOLO 37

    CAPITOLO 38

    CAPITOLO 39

    CAPITOLO 40

    CAPITOLO 1

    Roma Ore 06:15

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    La striscia rosa dell’alba irrorava di luce i pini del viale delle Terme. Lentamente i contorni del Circo Massimo cominciavano a delinearsi, i lampioni si spegnevano e le vestigia del Palatino si definivano in maniera sempre più netta. Le strade a poco a poco iniziavano a popolarsi di auto e piccoli furgoni. Qualche raro passante intabarrato procedeva a passo veloce col busto chinato in avanti per riparare il corpo dalla sferzante aria del mattino. Aprivano le edicole, aprivano i bar, aprivano i primi locali. Pigramente la città iniziava il suo quotidiano risveglio. Il viale dell’Aventino, che da piazza Albania scende costeggiando il colle omonimo, cominciava a brulicare di scooter e auto. Un tram sferragliò davanti il palazzo della fao e, una volta fermatosi, rigurgitò un piccolo gruppo di persone che si diresse verso gli uffici del grande edificio bianco. Da piazza di Porta Capena si diparte via di San Gregorio che procede dritta verso l’arco di Costantino e il Colosseo. Subito all’imbocco della strada, sulla destra, verso l’alto, in cima a una scalinata, spiccano la chiesa e l’annesso convento di San Gregorio al Celio. Incantato tra gli alberi, il grande complesso domina la strada dal colle e fronteggia il parco del Palatino. La scalinata, viale del Parco del Celio e i dintorni del comprensorio erano praticamente deserti. Dopo qualche minuto, da dietro il muro dell’oratorio comparvero tre figure, probabilmente le più mattiniere, che gironzolavano sfaccendate tra il convento e i giardini retrostanti. Cercavano di riscaldarsi frizionandosi le braccia con le mani. Erano due frati camaldolesi e il frate giardiniere. I tre si scambiarono qualche parola fino a quando uno di loro si avviò verso l’entrata principale del convento per rientrare. Era padre Camillo, uno dei più anziani del convento. Una volta entrato, passò per i corridoi deserti e si diresse, con un’andatura un po’ traballante, verso la scala che conduceva al piano superiore. Salito al primo piano si avviò verso l’ufficio del priore. Lì giunto tirò fuori dal saio un anello su cui erano agganciate non meno di una ventina di chiavi. Ne scelse una e la infilò nella toppa della porta dello studio. Appena varcata la soglia lo sguardo fu subito attratto da un’immagine che lo sconvolse. Dietro la scrivania e la poltrona in pelle, il portello della cassaforte che conteneva il prezioso documento era spalancato, l’interno della cassaforte vuoto. Il povero monaco sentì il cuore sobbalzare in petto, guardò la scena per mezzo minuto con gli occhi stralunati, poi, senza dire una parola, si voltò di scatto e, sollevandosi con le mani l’orlo della tonaca, si precipitò in una goffa corsa per il corridoio urlando: «Padre Lambertooo!!!».

    Padre Lamberto Fiorini, priore del convento, seduto sulla poltrona, i gomiti appoggiati alla scrivania e la testa tenuta tra i pugni, sbuffava e biascicava frasi di cordoglio.

    «Il manoscritto Unicum… non è possibile… un furto, qui al convento… non può essere vero… come hanno fatto?…».

    Dritto di fronte a lui, il commissario Restelli, alto, asciutto, occhiali e baffi sottili, continuava a fissare la cassaforte spalancata, mentre due agenti ispezionavano lo studio e la porta d’ingresso. La prostrazione visibile del povero monaco rendeva il poliziotto quasi restio a porgli le domande.

    «Ricapitoliamo», fece il commissario, «stamani alle sei e mezzo circa, padre…».

    «Camillo», fece Fiorini, «padre Camillo».

    «Appunto… padre Camillo entra nello studio con le sue chiavi e scopre il furto».

    «Esatto».

    «Solo lui ha le chiavi del suo studio?»

    «Lui ha le chiavi di tutte le stanze e di tutti gli uffici».

    «Anche della cassaforte?»

    «Ovviamente no. Gli avevo chiesto di entrare un po’ prima stamani per sistemarmi dei faldoni che avrei dovuto consultare prima del nostro capitolo generale, la prossima settimana».

    «La cassaforte ha una combinazione. La ha solo lei?»

    «Sì. La combinazione, se la dimenticassi, è depositata insieme ad altri oggetti in una cassetta di sicurezza».

    «Non avete sistemi d’allarme, telecamere a circuito chiuso?».

    Il priore scosse la testa.

    «Uhmm…». Il commissario si strofinò il mento. «Comunque quand’anche aveste avuto qualcosa del genere non avrebbe ostacolato il ladro, o i ladri, più di tanto. È certo che sono professionisti di alto livello. Non si sa da dove sono entrati, non ci sono segni di effrazione sulle porte esterne e soprattutto… be’, la cassaforte, a parte quei piccoli segni di bruciature, non sembra aver subito grandi forzature. È impossibile aprire un forziere del genere senza farlo esplodere».

    «È terribile, è terribile…».

    «Mi può parlare di questo celebre manoscritto?», chiese Restelli lisciandosi un baffo. «Come ha detto che si chiama?»

    «Unicum…».

    Il priore prese un profondo respiro prima di parlare.

    «È un manoscritto, come dice il nome, unico nel suo genere. La datazione con il carbonio lo fa risalire al Cinquecento circa e la lingua usata è quella di quel periodo, un italiano di epoca rinascimentale. Un mercante di libri rari, agli inizi del Novecento, lo regalò a un nostro convento che si trova a Novalesa sulle Alpi Graie, in Piemonte. Il mercante aveva ricevuto dei favori dai frati di lì e volle sdebitarsi con quel dono. Questo è quello che si tramanda, anche se molti aspetti della donazione rimangono oscuri. Comunque, dopo la seconda guerra mondiale l’abate di Novalesa venne trasferito qui e pensò che in una struttura come la nostra, fosse più facile proteggere il manoscritto».

    «Bene, il testo è antico e avrà anche un contenuto importante, immagino».

    Padre Lamberto volse gli occhi al cielo sospirando.

    «Non ne ha mai sentito parlare?».

    Il commissario scosse il capo e guardò l’abate con un’espressione interdetta.

    «No, non ne so niente».

    «Il testo di quel manoscritto», continuò Fiorini, «è avvolto nel buio più totale».

    Restelli aggrottò le sopracciglia.

    «Si spieghi meglio».

    «Il fatto è che nessuno è riuscito mai a interpretare il racconto narrato».

    «Però ha detto che la lingua è conosciuta».

    «Certo, confermo. Si tratta di un italiano più o meno cinquecentesco, la sintassi è più che chiara. Purtroppo è il significato della storia in sé che è assolutamente oscuro».

    «Cosa intende? Che è un testo… di natura ermetica?»

    «Potrebbe. Sta di fatto che nessuno è riuscito a decodificarne il messaggio».

    «Cosa dice, dunque?».

    L’abate Fiorini attese un attimo prima di rispondere. Guardò la cassaforte scassinata, i poliziotti, poi, con tono pensieroso, rispose.

    «È tutto molto strano. Nessuno lo ha mai capito. Il testo racconta di una bambina che entra in un castello e ne visita le stanze arredate nelle maniere più strane. Non si può neanche parlare di un racconto vero e proprio. Tutta la storia verte sulla bambina che passa da un stanza all’altra descrivendo quello che vede. Oggetti bizzarri, piante semisconosciute in Europa, pitture insolite sulle pareti, ritratti di personaggi ignoti, alambicchi e strumenti che sembrano musicali ma non lo sono… tutto così… senza un senso, senza una logica apparente».

    «Probabilmente è una metafora».

    «È stata la prima tesi degli studiosi che si sono cimentati a decifrarlo. A tutti sembrava la chiave interpretativa più probabile. Ma, ahimè, ogni tentativo è naufragato in ipotesi confuse e poco convincenti. Che senso poteva mai avere nel xvi secolo stilare un documento di quel genere?»

    «Il contenuto potrebbe riguardare la religione?»

    «Sì, potrebbe, ma l’argomento, comunque, rimane oscuro».

    Restelli rimase per un attimo pensoso.

    «Può avere un valore sul mercato degli oggetti d’arte?».

    L’abate sollevò le spalle.

    «Il manoscritto è antico e sicuramente ha un certo valore ma ce ne sono altri simili conservati nelle biblioteche. Per altro gli studiosi dicono che è probabile che il documento sia incompleto. No, no… chi è venuto qui voleva quell’oggetto specifico».

    «Chi l’ha rubato quindi era convinto che il messaggio da decifrare fosse di grande rilevanza per l’umanità o ancora meglio… per i propri interessi».

    «La seconda ipotesi mi sembra la più probabile anche se non credo che il messaggio celi la formula della pietra filosofale che trasforma il piombo in oro».

    Il commissario continuava a fissare la cassaforte.

    «C’è un’altra cosa inoltre che non le ho detto», fece l’abate.

    Restelli lo guardò con un’espressione interrogativa.

    «Il manoscritto a suo tempo fu copiato. Ci sono delle copie custodite in alcune biblioteche. Consultarle non è un’impresa impossibile».

    Il commissario sbalordito guardò l’altro con la bocca aperta.

    «Vuol… vuol dire che chi si è dato la pena di rubarlo poteva, per vie semiufficiali, consultarne una copia?»

    «Sì… credo che avrebbe potuto».

    «Forse il ladro non sapeva dell’esistenza delle copie».

    «No, non penso. Chi conosce la storia dell’Unicum sa sicuramente delle copie».

    Il commissario non riusciva a venirne a capo.

    «Ma allora…».

    «Allora c’è una sola spiegazione. Chi lo ha rubato è certo che solo sull’originale si possa trovare la chiave per interpretarlo».

    Restelli appariva pensoso.

    «Non capisco, cosa vuol dire?»

    «Per esempio potrebbe esserci qualcosa scritto in trasparenza sulla carta. Oppure la carta potrebbe essere stata trattata in modo particolare da fare apparire frasi nascoste… non so… cose di questo genere».

    «E gli esperti che hanno lavorato sull’originale non hanno mai pensato a soluzioni di questo tipo?»

    «Pochi hanno visto l’originale quando era a Novalesa. Da quando è qui la maggior parte degli studiosi hanno lavorato solo sulle copie».

    Il dialogo fu interrotto dall’entrata di un uomo dalla corporatura massiccia che irruppe nello studio come una furia eludendo il controllo degli agenti.

    «Padre Lamberto, padre Lamberto! Ho saputo… Dio onnipotente… ma come hanno fatto?»

    «Chi diavolo…», esclamò il commissario che era stato quasi spostato di peso dall’irruenza dell’uomo.

    «Mi perdoni», fece Fiorini alzandosi. «Tiberio Bodoni è il nostro ragioniere economo. Tiberio, il commissario Restelli».

    «Mi scusi commissario», fece Bodoni asciugandosi la fronte con un fazzoletto. «La notizia mi ha sconvolto. Era per noi un oggetto di grande valore. Spero li prenderete, quei bastardi!».

    «Faremo del nostro meglio». Il commissario appariva leggermente stizzito. «Lei lavora qui dunque?»

    «Sì, da più di dieci anni».

    «Non vive qui, però».

    «No, sono un laico. Curo la parte contabile del convento e ho anche altre mansioni amministrative. Ho uno studio e i frati mi hanno messo a disposizione una stanza. A volte ci sono eventi che finiscono tardi la sera. Stanotte non ho dormito qui, comunque».

    Il commissario rimuginò per un po’.

    «Non ci sono state persone estranee che avete visto vagare intorno al convento in questi ultimi giorni?», chiese rivolto a entrambi.

    L’abate allargò le braccia scuotendo il capo.

    «Che io ricordi, no… lei Tiberio?».

    Anche l’economo alzò le spalle.

    «Guardi commissario», proseguì l’abate, «c’è molta gente che viene a parlare con me durante la settimana. La nostra comunità qui svolge molte attività e siamo presenti in molte iniziative… però…», s’interruppe per un attimo, «mi faccia pensare. Sì, sì… c’è stata una coppia, un uomo e una donna… sono venuti un paio di volte. A dire il vero non ricordo bene la ragione della loro visita, ricordo solo che mi sembrò aver poco a che fare con le attività del nostro convento. Lei, Tiberio, si ricorda di loro?»

    «No, mi pare proprio di no», fece il ragioniere.

    «Saprebbe riconoscerli?», chiese Restelli all’abate.

    «Mah… forse, se li vedessi… Si presentarono, ma certo, i loro nomi, ora come ora…».

    «Comunque ha poca importanza. Se fosse stata gente sospetta non si sarebbero certo presentati con i loro veri nomi».

    Il commissario percorse per l’ennesima volta il perimetro della stanza ricontrollando, con la massima attenzione, che non gli fosse sfuggito qualche particolare. Purtroppo i ladri avevano agito con un’accortezza da chirurghi e, soprattutto, dalle testimonianze dei monaci che dormivano al piano di sopra, in assoluto silenzio. L’indagine sarebbe stata alquanto complessa.

    «Troverà qualche informazione sul web riguardo al manoscritto. Magari può servirle…», disse Fiorini con tono stanco e rassegnato.

    «Faremo il possibile, ma sull’esito positivo delle ricerche ho seri dubbi. È un furto molto singolare. Dovremo indagare in ambienti che conosciamo poco».

    «Siamo nelle vostre mani», disse Bodoni.

    Restelli pose qualche altra domanda ai due uomini ancora allibiti poi, insieme agli agenti che intanto avevano compiuto tutti i rilievi necessari, lasciò il complesso di San Gregorio al Celio.

    CAPITOLO 2

    Roma, piazza San Cosimato Ore 00:01

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    Le luci dei locali della piazza si stavano spegnendo a una a una, i passanti si facevano sempre più radi e si udiva solo, di tanto in tanto, il fragore delle serrande che si abbassavano. Il bistrot Il Camaleonte continuava a rimanere aperto nonostante fosse completamente deserto e avesse già spento la macchina del caffè. Stravaccato su una sedia dietro a un tavolino su cui c’erano un bicchiere vuoto e un quotidiano spaginato stava Giulio Salviati, giallista in pausa dalla scrittura. La pausa, a dire il vero, andava avanti da circa tre anni ma, nonostante le ire furenti del suo editore e il rapido esaurirsi delle sue risorse economiche, Salviati non sembrava darsi eccessiva pena. Forse, a dire il vero, la questione finanziaria lo pungolava un po’ di più ma quella che in gergo veniva chiamata la crisi della pagina bianca non poteva essere, secondo lui, vinta asservendosi alle più bieche leggi commerciali che forzano lo scrittore alla sciatta stesura di un prodotto da supermercato. Le sue teorie sulla letteratura erano ben salde. Il suo conto in banca molto meno, difatti era agli sgoccioli. Si consolava così, pensando di fare tutto quello per cui non avrebbe avuto tempo quando avrebbe scritto il nuovo libro. Bighellonava tutto il giorno per la città, seguiva qualche spettacolo, costruiva modelli di locomotive in resina e la sera si schiantava di brandy al Camaleonte. Anche quella sera Salviati stava cercando di battere il record di orario chiusura del locale, con grande afflizione del gestore che infatti stava in piedi, piegato in avanti con i gomiti sul bancone, il mento tra i pugni e un’espressione rassegnata dipinta sul volto. Giulio prese un residuo di pagine del giornale sul tavolino, lo sfogliò, rilesse la stessa notizia di atletica leggera per la quarta volta.

    «Gino? Me ne porti un altro?»

    «Non ti porto un bel niente. È ora di sloggiare».

    «Ma…».

    «Niente ma. È il terzo Armagnac che ti scoli stasera, è l’una passata, devo chiudere e andare a letto. Tra neanche cinque ore devo riaprire».

    Salviati sbuffò.

    «Sei un rompipalle. Stai proprio invecchiando male».

    «Tu invece non invecchierai per niente se continui così. Io non riesco proprio a capirti! Eri uno scrittore di successo. Perché non scrivi un altro dei tuoi thriller? Guadagni una valanga di soldi e la pianti di fare questa vita da scemo».

    Barcollando un po’, Giulio si sollevò dalla sedia con lo sguardo leggermente intontito.

    «Sì, va bene, va bene… la solita musica. Lo scrittore di successo, la vita dissoluta, un libro nuovo, bla, bla, bla… Dimmi quanto ti devo per questa ciofeca di brandy che m’hai dato».

    «Per essere precisi ci sarebbero anche quelli di ieri e di lunedì».

    Salviati estrasse dalla tasca una banconota accartocciata e la buttò sul bancone.

    «Tieni pure il resto».

    «Veramente con questi ci paghi solo lunedì…».

    «Sei di un pignoleria esasperante. Ci vediamo domani…».

    Era quasi sull’uscio quando la voce del gestore lo richiamò.

    «Giulio! Giulio, aspetta. Guarda che parlo così perché ti voglio bene».

    «Certo, certo…».

    Così, con lo sguardo assonnato e l’andatura dinoccolata, Salviati uscì dal bistrot, attraversò piazza San Cosimato e si diresse verso casa sua. Giunto all’incrocio con via Manara voltò a sinistra salendo verso la parte che confluisce in via Mameli. Di fronte al n. 92 di via Manara si fermò, frugò nelle tasche in cerca delle chiavi, le tirò fuori e aprì il portone. La mansarda in cui abitava, un monolocale che aveva affittato a un amico, un catorcio di auto che aveva probabilmente partecipato al Rally di Montecarlo nel ’68, pochi spicci sul conto corrente: ecco cosa rimaneva del patrimonio che aveva dilapidato da quando aveva smesso di scrivere.

    Salì con l’ascensore al quinto piano, poi salì a piedi l’ultima rampa di scale che lo portava alla sua mansarda. Stava per infilare la chiave nella toppa, quando udì una specie di fruscio alle sue spalle. Pensò al battente di una finestra e non si girò. Aveva già dato una mandata quando avvertì nettamente una presenza che si muoveva nella parte più buia del pianerottolo. Rimase impietrito e con la coda dell’occhio scorse un’ombra che veniva verso di lui. Provò a dare l’ultima mandata per poi precipitarsi dentro l’appartamento ma non fece in tempo. L’ombra era davanti a lui.

    «Buonasera signor Salviati».

    Era un uomo con un lungo impermeabile scuro, un cappello a grandi falde e una maschera sul volto.

    «Caz..!», imprecò Giulio. «Ci mancava solo questo. Senti, non ho un centesimo. Prenditi il portafoglio, l’orologio e vattene», e così dicendo cominciò a sfilarsi l’orologio.

    «Ma che dice, Salviati. Guardi che non ha capito…».

    «Ho capito benissimo invece. Vuoi entrare dentro casa? Senti, è una topaia e non c’è un cacchio che valga

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