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Toccalossi e il boss Cardellino
Toccalossi e il boss Cardellino
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E-book293 pagine

Toccalossi e il boss Cardellino

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Info su questo ebook

Ferragosto: quale giorno migliore per iniziare a stilare una complessa requisitoria su un traffico di immigrati cinesi clandestini?
L’ennesimo espediente di Toccalossi per procrastinare la partenza per le tanto detestate vacanze.
Il maresciallo Centofanti, suo aiutante, non si tira indietro e resta a fargli compagnia, fotocopiando migliaia di fogli. Ma, a sera, la carta per le fotocopie è esaurita. Centofanti inizia a rovistare ovunque per trovarne un po’. In un cassetto rinviene per caso una foto che ritrae Toccalossi giovane: una foto del 1977 alla quale è pinzata una lettera, una missiva che inequivocabilmente sancisce la fine di una storia d’amore. Centofanti, incuriosito, cerca di saperne di più. Toccalossi lo accontenta raccontando con nostalgia la storia di quello scatto. Nella sua prima indagine si occupò di dare la caccia al boss Vito Cardella, in arte Cardellino, uno spaccone di periferia ambizioso e spregiudicato, desideroso di unirsi al clan dei marsigliesi per importare in Italia la droga. Un agosto insolito, passato in ufficio, tra ricordi, lavoro e imprevisti che fanno spostare ulteriormente (e con gioia) la data delle tanto bistrattate ferie.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2012
ISBN9788875637255
Toccalossi e il boss Cardellino

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    Anteprima del libro

    Toccalossi e il boss Cardellino - Centazzo Roberto

    Capitolo primo

    Procura di Savona, ferragosto, domenica

    Le ventidue. La campana del Duomo ha battuto i suoi dieci rintocchi. O è quella del Brandale? Qualunque campana sia, quale giorno migliore?

    Chissà se esiste un giorno migliore? Per fare quello che stiamo facendo sì. Questo è il giorno adatto: ferragosto. E, in più, domenica. Una doppia festività. Coincidenza non da poco.

    Da qualche parte ho letto che, secondo il calendario Maya, il ferragosto cade di domenica ogni trecentoventisei anni…

    Perché ogni tanto il mio cervello la spara? Eppure c’è anche chi crede a queste cose, alle cinque domeniche in un mese ogni 823 anni e fesserie del genere.

    Comunque, nessun giorno più adeguato.

    Forse.

    Il viso, fino a quel momento entusiasta e contento, si corruga in un’espressione incerta.

    A cinquantun anni le certezze cominciano a vacillare. O hanno vacillato sempre.

    Chiusi lì dal mattino, a sistemare quell’enorme fascicolo per l’udienza di settembre. Uno di quei compiti che non si ha mai il tempo di svolgere: predisporre tanti sottofascicoli quanti sono gli indagati, per la requisitoria finale.

    Un lavoro che richiede calma, silenzio, concentrazione e, soprattutto, non ammette interruzioni. Per questo la scelta è caduta sul mese d’agosto, periodo in cui le udienze sono sospese, la maggior parte del personale è in ferie e in ufficio non c’è proprio nessuno.

    Ferragosto! Di domenica!

    Lui, il Procuratore, e il povero maresciallo Centofanti.

    Avevano scelto. Aveva scelto! Costringendo il maresciallo a quel tour de force. E poi odiava il ferragosto. Odiava tutte le feste, se è per questo. Da quando sua moglie Arlette lo aveva lasciato! Avrebbe dovuto raggiungere i suoi parenti in Puglia. Gli avevano telefonato a inizio agosto, invitandolo. Zio Lino, zia Felicita, suo cugino Michele… che ci andava a fare?

    Il progetto era sin troppo semplice: approntare tante piccole cartelline dentro cui far confluire tutti gli atti d’indagine: verbali, perquisizioni, sequestri, interrogatori, consulenze tecniche e via discorrendo. Serviva infatti un resoconto di facile consultazione. Si trattava di un procedimento importante, con venti indagati, ognuno con responsabilità diverse. Un processo di mafia: cinese. Roba grossa. Mica bruscolini. Associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. Due anni di indagini, disposte dal precedente Procuratore, condensate in trenta faldoni, diecimila fogli circa. Un riassunto diventava inevitabile, pena la confusione. Al momento delle conclusioni lui avrebbe tirato fuori la cartellina e letto per ciascun indagato il capo d’imputazione con le relative fonti di prova.

    Questo era il suo piano. Un piano che adesso non lo convinceva più tanto. L’espressione immobile del viso, gli occhi persi nel vuoto. Venti indagati, venti sottofascicoli.

    A cinquantun anni le certezze cominciano a vacillare. O non ci sono mai state.

    Non era stato facile scegliere un criterio per la formazione di quei dossier.

    Alle nove del mattino, poco prima di iniziare, Toccalossi si era sorpreso incredibilmente risoluto e determinato. Due termini che ora, ripensandoci, gli sembravano del tutto identici, non soltanto sinonimi. A quell’ora, complici la freschezza e un ciccinin di testosterone prodotto nella notte, aveva deciso di puntare sull’ordine cronologico degli atti.

    Infatti esclamò perentorio:

    – Ho deciso, li mettiamo così, in ordine di data.

    Centofanti, approvando la scelta, si diresse alla macchina provvedendo a fotocopiare per ogni soggetto gli atti d’indagine nell’ordine in cui erano stati compiuti.

    A mezzogiorno, quando il lavoro pareva terminato in anticipo contro ogni più rosea aspettativa, il primo tentennamento.

    La convinzione che si tramuta in dubbio.

    – E se li mettessimo in ordine alfabetico?

    Centofanti, che già si pregustava un risotto ai frutti di mare a casa di un’amica, sorridendo rispose:

    – Come desidera, Procuratore.

    Fece per scomporre i volumetti appena creati, con l’intenzione di riassemblarli adottando il nuovo criterio, ma arrivò il contro-ordine.

    Toccalossi lo fermò.

    – No, questi lasciamoli. Potrebbero servire. Ne facciamo altri.

    – Altri?

    – Sì, altri venti, però suddivisi in ordine alfabetico: consulenze tecniche, deposizioni, interrogatori, perquisizioni, ecc. ecc.

    Centofanti aprì una nuova risma di carta e la inserì nella fotocopiatrice. Il sole bombardava le vetrate della Procura in un assolo di caldo e d’indolenza. Pareva di toccarla la statica immutabilità della canicola delle domeniche di agosto quando i gatti trovano rifugio in qualche cortile in ombra e la città vuota sembra un plastico inanimato. Nessuna vettura percorre le strade, nessuna persona circola. Soltanto il tremore esalante dall’asfalto infuocato e qualche aiuola arida, disadorna come il terreno levigato di un pollaio.

    Per fare ciò che il Procuratore desiderava sarebbero state necessarie almeno tre ore. Prelevò il primo foglio dal primo fascicolo. Sollevò il coperchio della fotocopiatrice, lo sistemò sul vetro, richiuse e premette il tasto.

    Luigi Centofanti prima di eseguire l’ordine buttò un occhio in strada. Che pomeriggio immobile! Istintivamente ripensò al cortile della sua infanzia, ai pomeriggi eterni riempiti di calci a un pallone, da solo, contro un muro sgretolato.

    In silenzio. Lui, il maresciallo, di qua, dalla fotocopiatrice in fondo al corridoio; l’altro, il Procuratore, di là, concentrato sulle carte, nel suo ufficio. Pochi metri di distanza li dividevano. Distese sconfinate separavano i loro pensieri. Toccalossi assorto nella difficoltosa ricostruzione dei dettagli, nella individuazione delle responsabilità di ciascuno di quei venti indagati, nella minuziosa opera di rilettura delle intercettazioni. Il maresciallo perso nei suoi ricordi, proiettati come per magia sul muro bianco su cui teneva fisso lo sguardo.

    Due modi diversi di vivere il presente.

    Toccalossi non trascurava nulla. Bastava poco per tralasciare un particolare, un’inflessione della voce, un vocabolo pronunciato in un modo anziché in un altro. E non doveva sbagliare. Non poteva.

    La ricomposizione dei legami tra i vari complici è sicuramente l’operazione più difficoltosa di ogni requisitoria.

    – Ci vediamo alle due – diceva uno in un colloquio telefonico – ti porto quelle scatole.

    E l’altro rispondeva: – D’accordo. Speriamo che non siano come l’ultima volta.

    I delinquenti usano simbologie da decodificare. Sono astuti. Non si lasciano cogliere in castagna. Come dimostrare, nell’aula di un Tribunale, che le scatole sono uomini e che l’ultima volta, a cui fa riferimento quella conversazione, sottintende un giudizio di merito relativo a uomini mingherlini, malati, non idonei ad alcuna attività lavorativa?

    Ricucire, annotare, collegare.

    Ritrovare quell’altra ambientale (una microspia collocata nel ristorante di Lo Ming) in cui, all’arrivo dei clandestini, l’indagato si lascia andare a considerazioni denigratorie nei confronti dei nuovi arrivati.

    – Che razza di uomini mi hai portato? Uno senza un braccio, due ragazzini, una donna incinta. Sono tutte scatole rotte, queste…

    Appunti: scatole sta per uomini. Leggere assieme la telefonata tra Lo Ming e Zu Yang e l’ambientale nel ristorante di Lo Ming. Meglio evidenziarla con il pennarello verde. Anzi, no. Giallo.

    Misteriosa complessità delle preferenze.

    Centofanti, occupato nel lavoro meccanico e ripetitivo di sollevare e richiudere il coperchio della fotocopiatrice, continuava a puntare lo sguardo sul muro bianco. Un bianco sporco, annerito dal tempo e dalla polvere. Talvolta ruotava la testa e allungava il collo per raggiungere con lo sguardo la sottile fessura di vetro aperta nel cemento come uno squarcio, una ferita in un corpo scheletrico. Si scorgeva il mare, oltre le cime dei palazzi, per un gioco seducente di prospettive difficile da disegnare. Sembrava in alto, l’acqua, sopra i tetti delle case, un cielo liquido e accattivante, di un blu più scuro, nel quale volavano navi da crociera e mercantili, piccoli puntini bianchi in lontananza. Che scherzi fa la fantasia! A lui il mare piaceva guardarlo ma non immergercisi dentro. Amava quella distesa d’acqua come sfondo di un paesaggio assolato con le ortensie e le ginestre in primo piano come in un quadro di Faccincani. Ma in spiaggia non ci andava mai. Era cresciuto in campagna…

    Lo sportello da aprire e richiudere. Un altro foglio da inserire.

    La piazza del paese in cui aveva trascorso le estati, tutte le estati della sua infanzia, ricompariva ora sulla parete dietro la fotocopiatrice, materializzandosi su quello schermo improvvisato. L’immagine di un bambino che tira calci al pallone. In agosto…

    …ogni giorno, mentre il suo amico, il signorino Amedeo De Finzi, si recava dalla maestra Prandi per le lezioni di pianoforte, lui, Luigi, restava ad aspettarlo in strada, da solo. A volte lo aspettava anche per ore. Non era infrequente, infatti, che dopo la prima ora dedicata alla teoria, la maestra volesse valutare i progressi del suo allievo nella pratica, imponendogli anche un’altra ora destinata all’esercizio. Così, suo malgrado, Amedeo ritardava l’appuntamento.

    Luigi lo attendeva sul sagrato della chiesa. Occupava il tempo tirando il pallone contro il muro, con i sandali scalcagnati e le ginocchia sbucciate. In paese non c’era nessuno, se non lui, gli adulti che lavoravano nei campi e quell’unico bambino, figlio dei padroni della villa e dei terreni, con cui inevitabilmente aveva fatto amicizia.

    Benché suo padre Celso gli dicesse che non era cosa, e cercasse di dissuaderlo dal frequentare persone che mangiavano con le posate d’argento (tu sei per loro come la cagnetta che portano a spasso: ti danno gli avanzi se scodinzoli – gli ripeteva cercando di metterlo in guardia da possibili delusioni. – I poveri non possono permettersi di affezionarsi – pensava), Luigi aveva solo sette anni ed era coetaneo di Amedeo e pur di non passare tutta l’estate a tirare il pallone contro il muro (come in effetti stava facendo), era disposto ad attenderlo anche l’intero pomeriggio.

    Spesso, quando Amedeo terminava la lezione, e ormai si erano fatte le cinque, Luigi poteva recarsi a casa del suo amichetto, dove una donna alta, bionda e con gli occhi azzurri, preparava per loro un’abbondante merenda fatta di latte di mandorle e di torta di frutta, per poi rituffarsi in un altro impegno, perché la tedesca non era soltanto una semplice governante ma un’istitutrice che, levato via il grembiule e sparecchiata la tavola, cominciava a impartire, nella sua madrelingua, lezioni di tedesco.

    Luigi rideva alle facce di Amedeo che volutamente, guardandolo di sbircio, enfatizzava le risposte calcando sugli accenti, cogliendone l’aspetto comico per sbellicarsi dalle risate insieme.

    La tedesca non lo rimproverava, anzi, sembrava divertirsi di gusto a quel gioco così spontaneo e genuino.

    Quando finalmente anche l’ora di lingua straniera terminava, ed erano giunte le sei di sera, per loro si apriva la porta della stanza dei giochi: la cameretta di Amedeo.

    I De Finzi erano proprietari a Roma di due alberghi e si vociferava possedessero, oltre alla villa al paese, anche venti appartamenti e una decina di negozi nel centro della capitale.

    A luglio arrivavano con la loro Maserati nera seguita da una Lancia Flavia amaranto su cui viaggiava la servitù. Nel 1970 le uniche auto che si erano viste a Mallare erano la 850 del sindaco e la Seicento del farmacista. Dunque il loro stesso arrivo era già un avvenimento per gli anziani che li aspettavano in piazza, seduti sulle panchine pubbliche, con il bastone in mano, i vecchi, e con l’uncinetto, le donne, e c’era di che parlare per giorni dei vestitini alla moda della contessa, con le sue scarpe décolleté e della gonna sopra il ginocchio e dei fiocchettini rossi di Laila, la cagnetta tenuta in braccio, e dei modi autoritari del conte Adalberto De Finzi che imponeva al povero maggiordomo Eugenio ritmi da ventenne, facendolo trottare a destra e a manca tutto il santo giorno…

    Per cinque anni consecutivi le estati di Luigi Centofanti trascorsero così, a riporto del signorino, usando i suoi giocattoli, godendo delle elargizioni che quest’ultimo gli riservava, quando, ad esempio, gli permetteva di utilizzare la sua bicicletta, il suo monopattino, nel suo giardino, oppure i suoi pattini, in giochi che iniziavano quando decideva il signorino e terminavano quando poco dopo si stufava, spesso perché stava perdendo nella gara e allora la interrompeva così, semplicemente con uno sbuffo di noia o di indignazione.

    Per cinque estati, in agosto, ossia per tutto il periodo delle elementari, Luigi e Amedeo avevano giocato assieme.

    Poi non lo aveva più rivisto, se non che un giorno…

    L’ultimo foglio uscì dalla fotocopiatrice.

    Le tre del pomeriggio. Sembrava fatta.

    Forse ci scappava ancora un gelato con quell’amica. O magari una cena.

    Centofanti sistemò la pila dei fogli cercando di allinearli il più possibile, battendo e ribattendo diversi mucchietti sul melaminico della scrivania e poi rientrò nell’ufficio di Toccalossi con il pacco delle fotocopie.

    – Ecco fatto! Le metto qui. Su questa sedia.

    Nessuna risposta del Procuratore.

    Il suo sguardo fermo a mezz’aria, come colto da una nuova incertezza. Esitazione.

    PERPLESSITA’

    Non tutte le combinazioni possibili nella scelta di quei bignami erano esaurite. Ciascun faldone infatti veniva numerato prima del rinvio a giudizio.

    Vi era dunque l’eventualità, neppure troppo remota, che uno degli avvocati difensori, in sede di arringa, se ne uscisse con:

    – La controperizia di cui a pagina trecentosedici…

    Meglio non correre rischi. Meglio non farsi cogliere impreparati.

    Meglio fotocopiare tutto in ordine di numero.

    – Maresciallo, pensavo che, forse, anche l’ordine numerico può essere utile.

    Centofanti abbozzò un sorriso.

    Anche il gelato passava in cavalleria. Considerato che i faldoni erano trenta, e che in ognuno di essi erano contenuti tre, quattrocento fogli, si può comprendere in quale attività il valido maresciallo sarebbe stato impegnato tutto il giorno: la difficile arte di eseguire fotocopie.

    Deglutì e tornò al suo angolo.

    Appoggiò i faldoni da fotocopiare sopra il tavolino basso sbilenco, privo di una gamba e tenuto in piedi alla bell’e meglio da un sistema di contrappesi. Essendo la cassettiera collocata in posizione opposta alla gamba mancante, il tavolino restava in piedi. Ma doveva prestare attenzione a non sbilanciare il peso, perché anche un piccolo mutamento avrebbe potuto essere fatale.

    Infatti ogni volta che levava un po’ di fogli dalla cassettiera per rifornire la fotocopiatrice, levando così sostanza al contrappeso e, soprattutto, ogni volta che aggiungeva un nuovo foglio, quello appena fotocopiato, alla pila posta sopra il tavolino, alterando così il rapporto di forza e contro forza, poteva accadere che l’equilibrio andasse a farsi benedire e il tavolino prima si inclinasse su un lato e poi si ribaltasse. Così, tolto il foglio appena duplicato dall’alloggiamento in plastica del macchinario, si divertiva a farlo planare con delicatezza, mollandolo dalla pinza di indice e pollice con cui lo aveva afferrato e guardandolo volteggiare mentre si posava sugli altri.

    Sospirò prima di ricominciare. L’ossigeno portò al cervello nuovi ricordi.

    …se non che, un giorno, appena terminata la maturità, lui, Luigi, si mise in testa che avrebbe dovuto mantenersi da solo e si determinò a cercare lavoro. Era luglio e centinaia di lavoretti attendevano persone di buona volontà per essere svolti: consegnare le bibite sulle spiagge, ad esempio, oppure i bomboloni caldi e, perché no?, i gelati.

    Fu assunto a giornata.

    La sabbia infuocata levigava i suoi piedi, costringendolo, quando poteva, a percorrere la striscia fresca e umida sul bagnasciuga, ma ora una voce lo chiamava a ridosso di un ombrellone, ora un’altra lo spingeva a condursi verso il muraglione infuocato che delimitava l’arenile, ora bambini capricciosi gli giravano attorno rischiando di farlo inciampare. Quand’ecco che, zigzagando tra gli asciugamani e i teli da sole, il suo sguardo fu rapito dal bagliore bianco lucente di uno scafo che conosceva bene: la barca dei De Finzi.

    Ricordava quel nome, Agata, che spiccava nero sulla fiancata e quella vela maestosa sull’albero maestro. Il signorino Amedeo, nella sua magnificenza, lo aveva reso degno di salirci sopra alla fine delle elementari, invitandolo a una mini crociera. Era stato soltanto perché altri suoi compagni di giochi per quell’estate avevano scelto mete diverse. Il figlio dell’ingegner Saviani era andato alle Lipari, Ugo, il prediletto della famiglia Notari, si era recato in Sardegna e Amedeo, trovandosi da solo a Bergeggi, in luglio, aveva chiesto a suo padre, chiesto con un pianto perentorio e la minaccia di saltare i pasti, di andare a recuperare Luigi a Mallare, per ospitarlo un paio di giorni. Ma questo Luigi non lo sapeva.

    Quando il conte De Finzi in persona si presentò alla porta di suo padre Celso, si trovò di fronte un grugno che era peggio di un portale in legno, serrato, una mascella scolpita digrignata di chi non accetta che la sua povertà, la povertà di chi produce la ricchezza di gente come quella che aveva di fronte, potesse essere ulteriormente umiliata, con la richiesta assurda di cedere in prestito il suo figliolo per fare compagnia all’altrui rampollo.

    Nemmeno la promessa di danaro lo smosse, nemmeno la lusinga di una ricompensa lavorativa (il mio autista sta per andare in pensione e lei potrebbe sostituirlo). Soltanto la carezza sulla nuca di sua madre Rosina poté compiere il miracolo. Sua madre che vedendo i lucciconi sgorgare dalle palpebre di Luigi per l’occasione perduta (quando mai gli sarebbe ricapitato di poter passare un intero fine settimana su una barca a vela) lo strinse al suo fianco e gli asciugò le lacrime. Poi, senza guardare suo padre, ma con lo sguardo lontano, perduto nel vuoto, in un vuoto che solo le mamme sanno dove si trovi e forse per questo è veramente distante, disse al marito, senza rancore, né rimprovero, semplicemente con la voce roca di chi non rinfaccia ma constata, che almeno lui abbia le gioie che noi non abbiamo mai avuto, abbottonando sul collo la maglietta del figlio e sistemandogli i capelli. Li pettinò nel modo più dolce che esista, spostando qua e là le ciocche con le dita, con un tocco leggero (che ancora adesso, pensandoci, gli vien da credere che forse c’era un po’ di magia in quei polpastrelli e ora – ma sono passati così tanti anni che nemmeno può dirglielo alla sua mamma, e quando avrebbe potuto farlo qualcosa lo aveva sempre trattenuto – ora ne è certo: quella magia aveva un nome soltanto e si chiamava tenerezza) quindi, così risistemato, lo allontanò con un buffetto sulla guancia e una pacchetta nel sedere come a dirgli vai, e lui era corso nella sua stanza a prendere il costume e l’asciugamano (la maschera e le pinne gliele avrebbe prestate Amedeo), sentendo soltanto, mentre saliva la scala in pietra, l’eco della voce di suo padre che borbottava sempre vinte gliele dai a tuo figlio e lei che lentamente si adoperava a stendere il bucato.

    Un’altra risma di carta era finita. Centofanti tirò su col naso, cercando di far rientrare la commozione da dove stava uscendo, ossia dalle narici, perché è quello il punto in cui si condensa, trasformandosi da stato emotivo a cosa liquida, appiccicaticcia come carta moschicida in cui restano impigliati i ricordi.

    … così, quando riconobbe il nome della barca, Agata, e ormai erano passati otto anni dall’ultima volta in cui aveva visto Amedeo, che adesso, come lui, doveva essere un giovanotto, si fermò sulla riva del mare, con l’espositore dei bomboloni sospeso a mezz’aria e lo sguardo immobile su quella plancia, concentrato a scorgere le sembianze dell’amico.

    Restò in quella posizione diversi minuti, sino a che lo schizzo gelido dell’acqua gli percorse la schiena cotta dal sole. Un bambino, colpendo un pallone, aveva alzato una parabola d’acqua bagnandogli tutti i krapfen.

    Luigi sollevò il telo di lino che li copriva per constatarne lo stato.

    Fradici. Tutti da buttare.

    Un’intera giornata di lavoro persa. Avrebbe dovuto rimborsarli. Si tolse la tracolla dalle spalle e lasciò cadere il vassoio sulla sabbia.

    Guardò ancora verso la barca. Un ragazzo magro, ossuto, con i capelli biondicci, stava appoggiato all’albero fumando una sigaretta.

    Strinse gli occhi contraendoli in una sottile fessura per cercare di focalizzarlo al meglio.

    Ma sì, non poteva essere che lui!

    – Amedeo – gridò.

    Quello non si voltò.

    Allora si tuffò in acqua. Persa per persa la giornata, tanto valeva farsi un bagno.

    Con ampie vigorose bracciate raggiunse l’imbarcazione. Gli ultimi metri li percorse sott’acqua. Era sua intenzione sbucare fuori all’improvviso, a ridosso dello scafo e cogliere di sorpresa il suo amico.

    Così fece. In un sussulto di ingenua emozione.

    Quando adocchiò la sagoma della prua, riemerse con uno sbuffo d’acqua dalla bocca.

    – Ciao, Amedeo – disse – ti ricordi di me?

    Il ragazzo lo squadrò con sdegno e un volto imperturbabile.

    Aspirò una lunga boccata di fumo poi gettò la sigaretta ancora a metà in acqua.

    – No.

    – Sono Luigi. Luigi Centofanti.

    Amedeo non mutò espressione. Non si ricordava di lui oppure non gli importava nulla vederlo.

    – Luigi – ribadì Centofanti – siamo cresciuti insieme. D’estate, per lo meno – si affrettò ad aggiungere.

    – Ah, sì – si limitò a rispondere Amedeo.

    Non aggiunse altro, infastidito. Non gli chiese come stai, né sì mostrò cordiale.

    Possibile? Possibile che fosse così freddo, come se avesse cancellato completamente dalla memoria quei cinque anni della loro infanzia estiva? Non lo invitò nemmeno a salire sulla barca.

    – Ciao – lo salutò allontanandosi. E sparì sotto coperta.

    Luigi rimase a galleggiare.

    Come uno stronzo.

    Erano le

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