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Giudice Toccalossi: Indagine all'ombra della Torretta
Giudice Toccalossi: Indagine all'ombra della Torretta
Giudice Toccalossi: Indagine all'ombra della Torretta
E-book243 pagine

Giudice Toccalossi: Indagine all'ombra della Torretta

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Info su questo ebook

Savona, centro storico: all’interno di un appartamento fatiscente di via dei Cassari, da sempre adibito ad alcova, una prostituta viene trovata morta, con il cranio fracassato. È il tredici dicembre, giorno della fiera di Santa Lucia. Dell’indagine se ne occupa direttamente il Procuratore della Repubblica, Lorenzo Toccalossi.
La città, apparentemente calma e tranquilla, bacchettona e sonnolenta, addobbata a festa per il periodo natalizio, svela così i suoi misteri, che emergono da scottanti intercettazioni, una vita sommersa di traffici illeciti, di droga, di prostitute trattate come schiave e di clienti insospettabili.
All’interno di questa indagine rigorosa e stringente, si colloca una vicenda apparentemente “estranea” e fuorviante: da un telefono pubblico, sottoposto ad intercettazione, ogni sera un uomo chiama la sua amante leggendole una poesia. Il Procuratore Toccalossi, sorpreso a letto con l’amante e cacciato di casa cinque anni prima dalla moglie Arlette, tornato nella città in cui ha trascorso parte della sua infanzia, dopo una vita passata in giro per l’Italia, ormai è solo e senza affetti; sulla via di un declino non solo professionale ma anche interiore fatto di sconforto e solitudine, si appassiona a questo “caso” nell’assurdo tentativo di impedire che quell’uomo sconosciuto e misterioso possa ripetere il suo stesso errore.
E allora, sull’indagine principale, sulla ricerca dell’assassino, condotta con maestria e non priva di colpi di scena, se ne innesta un’altra, giocata sui sentimenti, nella convinzione che il destino delle persone si possa cambiare e che quando qualcosa si rompe, all’interno, sia necessario aggiustarlo. E non servono affatto gli strumenti giudiziari: per il delicato congegno delle emozioni, a volte ci vuole un meccanico, un meccanico dell’anima.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2012
ISBN9788875637552
Giudice Toccalossi: Indagine all'ombra della Torretta

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    Anteprima del libro

    Giudice Toccalossi - Centazzo Roberto

    Primo giorno di indagine

    Savona, sabato tredici dicembre, Santa Lucia

    A ben guardarla, la scala in ardesia che conduce alla zona letto della mia abitazione non è perfetta. Il terzo scalino partendo dal basso, nel lato destro, vicino al muro, è sbreccato. È sempre stato così. Il giovane apprendista che aiutava il muratore, nel collocarlo in posizione, colpendolo con un martello di gomma per assestarlo lo scalfì. Ma non si nota. Solo un occhio attento può accorgersene. Solo un occhio che si sofferma sui dettagli. È così anche per il lavabo nella lavanderia. Il muro su cui poggia non è perfettamente in squadra con la parete di fronte, quella piastrellata da cui esce il rubinetto, per cui c’è una lieve fessura tra la parte posteriore del lavabo e il muro che è stato necessario riempire di silicone perché l’acqua non coli di sotto. Ogni stanza presenta dei difetti. Lievi, quasi impercettibili, ma ci sono. Nell’insieme è però una bella casa. Su due piani, con la zona giorno al piano terra e le stanze da letto al primo piano. Chi entra rimane a bocca aperta. Io, che ci vivo, ne noto i difetti, ma soltanto perché li conosco. È strano, ma l’occhio cade sempre su questi, mai sulle cose fatte bene. Anzi, pare proprio che le cose belle, che sono tante, si annullino di fronte a quei piccoli, insignificanti dettagli che sono le imperfezioni. D’altronde un mondo perfetto non sarebbe umano. Le imperfezioni fanno parte del tutto. Strano sarebbe se non vi fossero.

    Da tempo ho imparato che tutti hanno una vita parallela. Una vita nascosta, tendenzialmente opposta a quella manifesta: una vita misteriosa, invisibile, che solo un occhio molto attento può percepire.

    Il cadavere della donna è stato rinvenuto nel letto di un’abitazione fatiscente in via dei Cassari al primo piano, alle undici del mattino, circa tre ore fa. Nessun segno di effrazione, nessuno scasso. I cassetti, riporta l’annotazione della Giudiziaria, sono stati trovati in ordine e anche il resto della stanza. Il corpo giace prono. Un piede ciondola fuori dal letto. La donna non aveva più di trent’anni. Capelli biondi, tinti, impiastricciati di sangue, collo tozzo, seno prosperoso. Una prostituta, albanese. Ha il cranio fracassato. Nome d’arte Sara. I documenti non ci sono.

    Bene! Non resta che aspettare. La Scientifica ci dirà qualche cosa di più, sulle impronte e tutto il resto. Le solite fregnacce.

    La topaia in cui si svolge la scena è al primo piano di uno stabile puzzolente da sempre utilizzato come base per le prostitute, già dai primi anni del dopoguerra. Una lurida scala in ardesia dagli scalini consumati conduce all’appartamento. Sui gradini tracce di sangue.

    In questo alloggio si sono alternati in sessant’anni centinaia di prostitute e migliaia di clienti. Chiazze di umidità giallognola punteggiano il soffitto.

    Un piccolo bagno, ricavato tra la camera e la cucina. Una sola stanza, un letto disfatto, un grosso televisore spento. Due ampie finestre, con le imposte chiuse, che danno sul vicolo.

    Per il momento si è fatta viva soltanto la sorella, Ana, quarantenne. Fa parte della lista dei sospettati, ovvio. Accanto a lei il marito, nervoso, scuro di capelli, fuma in continuazione. Si chiama Vasili. Alfred Vasili, albanese anche lui. Sono stati loro a trovare il corpo. Tutti e due assieme. Bella coincidenza. Erano usciti e rientrati alla medesima ora. Un alibi perfetto.

    La sorella dice che la vittima si chiamava Lula, Paulj Lula, per l’esattezza.

    Ma cosa gli ricordava? Quel corpo... in quella posizione... dove lo aveva già visto? Anche la camera esalava un odore che non gli era nuovo. L’odore tipico di tutte le stanze con la moquette, di acari stagnanti. Cosa c’era di strano in quel corpo?

    Uno dei tanti sbagli della sua vita, anzi, il peggiore. Una fuga d’amore, il suo scampolo di giovinezza in tasca. La ragazza, bellissima, si chiamava Carlotta.

    Alloggiarono in una pensione a due stelle. Il portiere li vide salire abbracciati, mezzi ubriachi, con la bottiglia di cognac ancora in mano. Lei fumava sigarette sottili, una dopo l’altra.

    Era stata passione. Per tutta la notte. L’alcool nelle vene, il cielo sopra i tetti d’estate. Le ore che sudavano implacabili. Lei che lo avvolgeva con i suoi occhi supplichevoli. Al mattino, al risveglio, Carlotta giaceva immobile, prona, l’arco della schiena ben visibile, i glutei protesi verso il cielo. E a lui era sembrata morta.

    La frenesia della notte, l’adrenalina, pareva fossero scomparse per sempre. Il piede di lei che ciondolava, i suoi capelli sciolti. Perché, dannazione, uno deve sempre avere dei ricordi?

    In quella posizione Carlotta sembrava senza vita. Più tardi, però, si sarebbe alzata per andare in bagno. Avrebbe fatto pipì, si sarebbe lavata i denti. Ma lui aveva continuato a vederla inanimata. Com’era possibile? Per quale ragione in ogni corpo, paradossalmente proprio nell’immediatezza di un’esplosione di vitalità come il sesso, lui vedeva, o meglio, riusciva a scorgere, l’ineluttabilità della fine? Come se la vita racchiudesse in sé anche il proprio contrario, come se vita e morte non fossero che due facce della stessa medaglia, due parti del tutto, dalle quali non si poteva prescindere, mai.

    Ma Carlotta non era affatto morta. Dormiva. L’alito pesante, il respiro affannoso. Il volto appoggiato sul cuscino rivolto verso l’esterno del letto, il braccio sinistro piegato sopra la testa, quello destro lungo il corpo.

    Ecco cosa non andava. C’era qualcosa di strano nella posizione del cadavere che aveva di fronte e su cui stava indagando. Indagando! Aveva appena cominciato a fare supposizioni, a incasellare indizi, a raccogliere elementi di prova. D’ora in poi, per giorni e giorni, la sua immaginazione non avrebbe fatto altro: nient’altro che elaborare ipotesi, svilupparle, confrontarle, escluderle, compararle, con procedimenti deduttivi di cui ignorava le modalità, affidando al suo pensiero cosciente un ruolo di secondaria importanza, relegato com’era a luogo di raccolta di quei risultati che, pur non sapendo come, finivano per concretizzarsi nella sua mente, come cifre apparse per incanto sul contatore di cassa dopo elaborati, oscuri procedimenti.

    Il volto della vittima era girato verso sinistra, all’esterno, come era stato un tempo quello di Carlotta, il piede ciondolava fuori dal letto, ma il braccio piegato sopra la testa non era quello sinistro ma il destro.

    Una posizione inconsueta, costruita ad arte o a casaccio.

    Una piccola imperfezione...

    Ordinò al fotografo di scattare delle foto.

    Com’è che nessuno parlava? Quando lui entrava tutti tacevano. Attendevano ordini.

    Nessun ordine ragazzi... non vi darò nessun ordine. Anzi, uno sì.

    – Aprite le imposte. C’è puzza qui dentro.

    Piove. Lo sguardo si perde fuori dalla finestra, ma va a sbattere subito contro il muro di fronte. Crudele bellezza dei centri storici. La dirimpettaia si rifugia dietro la tendina che ancora svolazza. Salnitro che si stacca dalla facciata. Piccioni appollaiati sui cornicioni. Le antenne muovono, scosse dal vento. La vicina ha i capelli color cenere, gli occhiali, quarant’anni circa. Non sufficientemente repentina da scostarsi in tempo.

    Giù in strada, all’ingresso del vicolo, le auto della Polizia e dei Carabinieri hanno attratto la sua attenzione. Null’altro che curiosità, ma non si sa mai. Meglio approfondire.

    – Qualcuno guardi come si chiama e la convochi – ordino indicando con un cenno del capo la finestra da cui è sbucata per pochi istanti. – Voglio sapere se ha visto qualcosa.

    Un poliziotto e un carabiniere si affrettano a eseguire.

    È sempre così ogni volta che c’è un omicidio. Accorrono entrambi, il Nucleo Investigativo dei Carabinieri e la Squadra Mobile, e ognuno tira a fregare l’altro.

    Quelli della Mobile chiamano la Volante, mentre quelli del Nucleo Investigativo chiedono l’ausilio della Gazzella. E in strada si crea una gran confusione di lampeggianti e sirene, la gente si affaccia. Poi arriva la Scientifica e un po’ di funzionari dell’una e dell’altra parte, e ognuno aspira a farsi assegnare il caso, ammiccando al magistrato affinché disponga a chi affidare le indagini.

    Il caso. Ecco cosa diventano un morto o una morta: semplicemente un caso.

    Gli investigatori ne parleranno un giorno ai loro nipoti o in qualche rimpatriata tra pensionati. – Ti ricordi? – diranno con vanto, – il caso di quella prostituta albanese? Me ne occupai io.

    Che tristezza! Questo cadavere è qualcosa di cui tratteranno i giornali. La capacità di un dramma di trasformarsi in lavoro di routine.

    ...e io invece attendo. Meglio approfittare della loro sana rivalità. Ognuna delle due parti conosce qualcosa. Infatti...

    – Era arrivata in città da qualche giorno, con il treno – afferma un poliziotto. – Gli uomini della Polizia Ferroviaria hanno controllato due straniere in arrivo da Ventimiglia. Il controllo risulta al terminale della banca dati.

    – Bene. Rintracciate l’altra.

    – Già fatto. Anche lei è una prostituta. Nome d’arte Milena, nome vero Raulj Malena. Esercita qui vicino, in via Pia, quel portone di legno di fronte al negozio di scarpe.

    – Avete il suo numero di cellulare?

    – Ovviamente. Era su internet.

    – Perfetto.

    Lo sguardo torna a scontrarsi con il muro dell’edificio di fronte. Un gabbiano si posa sopra un comignolo.

    Savona è una città che ha molto da offrire d’inverno a chi ama ubriacarsi di malinconia. Saranno le luminarie con le scritte di buon Natale, tese tra un palazzo e l’altro, nel centro, nei giorni che precedono le feste, saranno le vetrine addobbate, sarà la piazza del municipio che brulica di gente. Tutto sembra cospirare per stringere un nodo attorno alla gola. C’è qualcosa di dimesso nelle facciate austere dei suoi palazzi ottocenteschi, come se questi avessero uno sguardo, lo sguardo triste di un anziano: sembra di sentirne il mugugno.

    Io dico che mi parlano. Cosa mi vuoi dire, amico edificio? Come? Non sento. Ho capito, bisbigli par non farti sentire. Che stai dicendo? Disgusto? Ho inteso bene?

    Come se, accanto a pezzi scolpiti nell’avorio, abbondanti di intarsi e fregi, sopra una scacchiera antica, qualcuno avesse collocato altri pezzi moderni, scarni, essenziali.

    Passato e presente non si parlano. Tutt’al più si tengono il muso. Fanno il broncio.

    Basta guardare la Darsena: quel porto placido e sonnolento in cui attraccavano un tempo i pescherecci, sobrio e misurato, fatto di piccole case come un antico borgo marinaro, trasformato oggi in qualcosa di indefinibile: migliaia di metri cubi di cemento, rimasti invenduti.

    Lo scempio non ha più fine.

    L’indignazione dei vecchi edifici si riflette sui volti degli abitanti: forse un po’ chiusi, forse un po’ diffidenti, ma sicuramente non così ingenui da farsi abbindolare da chi erige prefabbricati di vetro e cemento e cerca di sbolognarli come investimenti. Appaiono rassegnati, consapevoli che nulla possono fare per contrastare la devastazione perpetrata a loro danno.

    D’estate come d’inverno, le navi da crociera attraccano alla banchina invadendo coi loro fumi le finestre di quei miseri loculi definiti abitazioni di lusso.

    Cosa vengano a fare i turisti in un posto come questo, è un mistero più grande di qualsiasi caso giudiziario. Può essere che alla compagnia convenga ormeggiare qui con la sua flotta anziché a Genova; sta di fatto, però, che gli ignari passeggeri, catapultati per caso in un porto più piccolo della nave su cui viaggiano, una volta sbarcati, non sappiano dove andare. Attraversano il ponte levatoio che congiunge la darsena al centro, fotografano alla loro destra la Torretta, monumento storico della città, e inevitabilmente si ritrovano all’altezza di via Paleocapa. Una volta arrivati lì non possono fare altro che proseguire sotto i portici, tra decine di negozi chiusi, serrande abbassate e bar col coprifuoco. E così, passo dopo passo, lo stupore disegnato sul volto per tanta disarmante provincialità, giungono in piazza Mameli, dove è d’obbligo la sosta sotto al monumento ai caduti, e infine in piazza del Popolo. Potrebbero trovare un po’ di riposo sulle panchine dei giardinetti, se queste non fossero tutte occupate da poveri sbandati senzatetto, sdraiati a dormire.

    Allora non resta loro altro da fare che tornarsene sulla nave e consumare qualcosa al bar.

    Ma è senz’altro d’inverno che Savona si offre in tutto il suo splendore, un fascino assassino capace di afferrarti la gola e soffocarti: in quel corso Italia che prosegue dritto sotto la fortezza del Priamar fino ai giardini del Prolungamento, ai piedi della statua di Garibaldi, dove il frastuono del luna park si mescola nell’aria con l’odore di croccante e di frittelle dando origine a un aroma unico, che sa distinguere solo chi c’è nato: l’odore appiccicoso del Natale.

    Gli altri non possono capire. Lì, tra bambini sui pattini e mamme con le carrozzine, si apre allo sguardo, nel punto esatto in cui la città finisce, lo spettacolo edificante del mare.

    Il mare sempre agitato, bizzarro, tormentato, eppure capace di aprire il petto in un sospiro, per la sola grande opportunità che può offrire: la fuga.

    I pensionati immobili, le mani giunte dietro la schiena e il quotidiano sotto braccio, lo contemplano pensando alle occasioni perse, e i ragazzi stretti, abbracciati in una promessa di eterno, fuggevole amore, lo scrutano, inquieti come la sabbia sollevata dal vento.

    Perché Savona è così: un luogo che non lascia scampo. Un luogo dal quale tutti vorrebbero fuggire, ma solo in pochi hanno il coraggio di dispiegare le vele al vento per affrontare le acque mosse di quel mare.

    Lui, il Procuratore, è cresciuto in una città simile a questa, non molto diversa. Sono tante le città anonime. Ha giocato in un cortile che adesso gli ritorna in mente. Poi, un giorno, ha affrontato il mare.

    È salpato, ha levato le ancore. Ma, allora, aveva vent’anni.

    L’università, il concorso in magistratura, il primo incarico nel sud della penisola. Trent’anni in giro, per approdare infine in un porto simile a quello da cui era salpato, come una nave in disarmo, un transatlantico fuori uso, un sottomarino bucato...

    Il suo sguardo ancora perso sul muro di fronte, scrostato, decadente.

    Quel muro gli ricorda l’odore: sudore, ginocchia sbucciate, fango, gatti randagi.

    Guarda distrattamente le auto ferme in piazza del Duomo. – Che giorno è oggi? – chiede a se stesso. È il tredici dicembre, Santa Lucia. La città bloccata, le strade chiuse al traffico. Le bancarelle della fiera nel quadrilatero compreso tra i portici, il municipio, corso Italia e via Manzoni.

    Adesso capisce il perché del suo stato d’animo e di tanta malinconia.

    Si fruga nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto.

    Un agente gli passa un Kleenex.

    Un cenno di ringraziamento, morbido come la carta che avvicina al naso.

    Tutti sempre così gentili con lui. Lo sarebbero anche se non fosse il Procuratore?

    Ancora ricordi, ricordi, solo ricordi. La sua adolescenza si condensa in una nuvola di vapore acqueo sul vetro della finestra: una mattina d’inverno del 1973. Il 13 dicembre 1973, per la precisione. Una di quelle mattine d’inverno in cui sembra che il

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