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Bacci Pagano. Una storia da carruggi
Bacci Pagano. Una storia da carruggi
Bacci Pagano. Una storia da carruggi
E-book348 pagine

Bacci Pagano. Una storia da carruggi

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Info su questo ebook

Bacci Pagano è un vecchio investigatore privato che ha perso per strada tutti i sogni e le speranze della sua gioventù. Dopo aver creduto nella rivoluzione si è fatto cinque anni di galera come terrorista rosso, per uno scherzo del destino e senza mai esserlo stato. La moglie lo ha lasciato e da dieci anni non vede più sua figlia. Anche la giovane fidanzata lo ha mollato. Gli resta ancora qualche amico, come il commissario Pertusiello, dirigente della Squadra Omicidi della Mobile di Genova. I carruggi sono il suo territorio, nei carruggi vive e lavora muovendosi su una vecchia Vespa color amaranto. E il centro storico di Genova, sospeso tra degrado e speculazione travestita da modernità, rappresenta lo scenario su cui si muovono i personaggi del romanzo.
Mentre sta indagando su un oscuro faccendiere per conto di un’antica famiglia genovese assediata dalla mafia, Bacci Pagano conosce la giovane fidanzata del suo cliente, donna impetuosa e nevrotica che lo cerca e lo respinge, e scopre che costei è al centro di una situazione ambigua e complicata fatta di finte ingenuità e di cinici calcoli che portano fino al delitto. Nel frattempo un suo vecchio compagno del sessantotto lo assolda per ritrovare una carabina rubata dalla sede di una radio. Con quella carabina qualcuno vuole attentare alla vita del Presidente del Consiglio, in visita a Genova
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2012
ISBN9788875638177
Bacci Pagano. Una storia da carruggi

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    Anteprima del libro

    Bacci Pagano. Una storia da carruggi - Bruno Morchio

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    Il nostro indirizzo internet è:

    http://www.frillieditori.com

    info@frillieditori.com

    editing

    Michela Volpe

    Renzo Tebano

    Raoul Gazza

    progetto grafico

    Claudia Cornaglia

    Layout copertina

    Sara Chiara

    impaginazione

    Marina Ravazza

    copyright © 2012 Fratelli Frilli Editori

    Via Priaruggia 31/1, Genova – Tel. 010.3074224; 010.3772846

    isbn 978-88-7563-817-7

    Bruno Morchio

    Bacci Pagano

    Una storia da carruggi

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    Fratelli Frilli Editori

    Ringraziamenti

    A tutti gli amici (loro sanno chi sono) che mi hanno incoraggiato e consigliato. A Romolo Rossi, che poteva dissuadermi e non lo ha fatto. Un ringraziamento particolare ad Aldo Tarascio, a Checco Caccia, a Gianni Guasto, fidato e ironico correttore di bozze, al personale ausiliario del liceo D’Oria e a Luca Vallebona, titolare dell’armeria Black Hills.

    A Paolo, mio padre,

    e all’amarezza e alla rabbia dei suoi ultimi giorni.

    Avvertenza ai lettori

    Che piaccia o no, questo è un romanzo e non un libello fantapolitico.

    I personaggi pubblici che vi compaiono sono stati appositamente falsati secondo le esigenze del plot narrativo ed esistono solo nell’immaginario mediatico di certa cultura di massa (i comunisti, la sinistra, quelli che remano contro). I loro rapporti non sono né umani né reali.

    La responsabilità di ogni falso storico e di ogni esagerazione deformante va interamente addebitata all’immaginario di tale senso comune.

    Quanto al resto, personaggi e situazioni sono inventati di sana pianta.

    L’Autore

    e-mail: baccipagano@infinito.it

    Capitolo 1

    Notte di luna

    L’uomo delle Affissioni Comunali sputa per terra e si forbisce con l’avambraccio libero, il sinistro. Col braccio destro regge il secchio della colla e stringe sotto l’ascella un lungo rotolo di carta. Mugugna qualcosa, forse impreca contro quella smisurata gigantografia che si appresta ad incollare al cartellone con maestria da attacchino professionista. Posa il secchio e torna verso il furgoncino posteggiato in doppia fila. L’aria è pungente e nuvole di vapore esalano dal suo respiro. Afferra la pennellessa a rullo dal manico telescopico. Stenta a farla uscire dal deretano aperto del furgoncino e impreca di nuovo. Intanto, una falce di luna dondola nella gelida notte di dicembre sopra le luminarie natalizie e sopra gli alberi mutilati e spogli di corso Carbonara, nel silenzio.

    Con una manovra che rivela tutto il suo mestiere intinge la pennellessa nella colla e la fa scivolare sotto un manifesto della gigantografia, quello in alto a sinistra. Un colpo preciso ed è disteso sul cartellone come un tappeto.

    CINQUE PALLOT

    Io assomiglio a un pappagallo sul trespolo mentre lo osservo appollaiato sulla mia Vespa. La Vespa, una vecchia 200 PX color amaranto, sta in equilibrio sul cavalletto, davanti a un grazioso palazzotto del primo novecento dal quale prima o poi uscirà la graziosa fidanzata del mio cliente.

    Un altro colpo da maestro e un’altra porzione va a segno. Il secondo sesto da sinistra.

    TOLE PER RIPUL

    Ora l’attacchino sputa di nuovo e molla la pennellessa nel secchio. Si passa una mano sul collo e osserva compiaciuto il lavoro fatto. Sembra pronto a ripartire, invece infila una mano nella tasca del piumone nero e ne cava fuori una sigaretta. La accende, tira due profonde boccate e la lascia penzolare a un angolo della bocca. Il rullo si impenna di nuovo e come per magìa la fila superiore di manifesti è distesa sul cartellone.

    IRE L’ITALIA

    Lui torna a guardare in alto e ora sembra sorpreso. Non è la perfetta geometria della gigantografia a farlo trasalire, ma quello che ci sta scritto dentro.

    CINQUE PALLOTTOLE PER RIPULIRE L’ITALIA

    La sigaretta gli si impenna tra le labbra e una fregola si impadronisce della sua perizia manuale. In un lampo la terna sottostante si allinea a quella di sopra e il manifesto può urlare al mondo la sua abominevole bestemmia.

    VOTATE I CINQUE SIGNORI A CUI DESTINARE LE PRIME CINQUE PALLOTTOLE DELLA NOSTRA CARABINA DI PRECISIONE. AL RESTO PENSEREMO NOI.

    Segue una fotografia di cinque grosse pallottole in fila come birilli del bowling.

    TELEFONATE AL NUMERO 800121314. RADIO BABA YAGA

    Nel silenzio si sente un portone scattare. Stretta nella sua pelliccia, la bionda fidanzata del mio cliente esce sulla strada. Un frettoloso picchiettare di tacchi nella notte la porta fino alla sua Morris posteggiata sotto gli alberi nudi, come nuda è stata sicuramente lei fino a pochi minuti fa. La Morris fa una mossetta col suo culo radente terra, arretra appena in una breve retromarcia e parte a tutta birra. Do una pedalata e metto in moto la Vespa, la faccio scattare sul cavalletto e le corro dietro all’impazzata. La gigantografia resta lì, davanti alla bocca spalancata dell’uomo delle Affissioni Comunali, col suo urlo muto a squarciare il silenzio e il sonno dei benpensanti di Castelletto.

    Trovare un posteggio all’una di notte in via Fereggiano è come fare tredici al Totocalcio. E infatti la trafelata fidanzata del mio cliente finì col lasciare la Morris davanti ai contenitori della rumenta, dopo essersi prudentemente accertata che gli addetti alla Nettezza Urbana li avessero già svuotati. Va bene rischiare una multa per divieto di sosta. Ma uscire la mattina e non trovarsi più la macchina sotto casa sarebbe stato un pedaggio troppo salato da pagare. Anche se quelle ore d’amore rubate alla notte fossero state da tripudio dei sensi... In ogni caso, prima di sistemare la Morris e uscirne in tutta fretta con le chiavi dell’auto strette in una mano e quelle di casa già pronte nell’altra, dovette girare un po’ a vuoto. Giusto il tempo di inforcare la Vespa sul cavalletto e di presentarmi davanti alla portiera della sua Mini agitando davanti al suo naso un biglietto da visita. Sopra c’erano stampati il mio nome, la fumosa qualifica di investigatore privato, il mio indirizzo, i numeri telefonici e quello della licenza all’esercizio della professione di ficcanaso.

    «Non abbia paura, signorina Montello. Sono un investigatore privato e non voglio farle alcun male».

    Afferrò il biglietto e lo scrutò come se fosse un misterioso incunabolo.

    «Come fa a sapere come mi chiamo?».

    La sua voce era rauca. Dolcemente rauca.

    «È una storia complicata. Se mi dà cinque minuti provo a spiegarle tutto».

    Mi guardò con due occhioni neri da cui la passione degli amplessi aveva deterso quasi ogni traccia di trucco. Appena una bava di ombretto sulle palpebre, spalancate in una espressione di totale sbigottimento.

    «Cinque minuti? Qui? A quest’ora?».

    «E dove se no?».

    Avrei potuto riprendere l’ultimo interrogativo e domandare: «Quando allora?».

    Ma la prospettiva di continuare quella conversazione dentro casa, togliendomi dal gelo della strada che da oltre due ore mi mordeva le orecchie, suonava molto più allettante.

    «Cosa vuole da me?».

    «Solamente parlarle. A sposarla ci penserà il suo fidanzato, il dottor Gustavo Camillo Pellegrini».

    «Come fa a...?».

    La perspicace fidanzata del mio cliente aveva capito tutto. La frase si incagliò su quella pronta intuizione facendo naufragare la residua speranza d’essere incorsa in uno spiacevole equivoco.

    «Dunque non si fida di me! Mi ha chiesto di sposarlo e mi fa pedinare da uno scagnozzo!».

    La guardai con una faccia che si sforzava di mantenersi seria a dispetto delle circostanze. Esitò un attimo, poi di colpo scoppiò a ridere, a ridere a crepapelle. Il volto le si riempì di lacrime in un crescendo di esilaranti singulti. I suoi sghignazzi come fiotti di champagne si propagarono nel silenzio di via Fereggiano, mentre lei si teneva la pancia, piegata e ansimante in mezzo alla strada deserta. Rideva, rideva. Contagiosa. Anch’io non riuscii a trattenermi e cominciai a fare altrettanto. Tutti e due ridevamo, e sembravamo due pazzi sotto la luna. In quella concitazione la pelliccia di visone, probabilmente un regalo di Gustavo Camillo, si aprì lasciando sbocciare sotto il maglione un seno di tutto rispetto. Appena riuscì a ricomporsi, mi guardò con una complicità da vera bagascia di razza.

    «Vuole salire un momento? Le preparo qualcosa di caldo».

    Un trilocale truccato da appartamentino piccolo borghese in un grigio palazzone da ringhiera proletaria dell’anteguerra. Entrando, col conforto di un teporino da bagno caldo, mi assalì un vago effluvio di incenso. Ma fu subito sopraffatto dall’aggressivo profumo sprigionato dalla pelle e dalla pelliccia dell’inquilina, vero succedaneo di un primitivo feromone sessuale perdutosi con l’evoluzione della specie. L’esuberante fidanzata del mio cliente gettò la pelliccia sul fratino del soggiorno e mi invitò ad accomodarmi sul divano. Quindi sparì nel proscenio della casa. La sentivo trafficare in cucina, poi fare diverse abluzioni nel bagno e infine la vidi scivolare nella stanza da letto, dalla quale sbucò fuori con addosso una vestaglia di ciniglia a fiori che le arrivava fino ai delicati piedini da Cenerentola, calzati in due puffose pantofole rosa. Si infilò nuovamente nella cucina e finalmente ne uscì con un vassoio e sopra due tazze fumanti e una zuccheriera di finta porcellana inglese. Il tutto faceva magnificamente pendant con l’odore di incenso e col decoroso arredo piccolo borghese di quell’appartamentino di commessa dei grandi magazzini che, a suo modo, si apprestava a fare il salto della quaglia. Dalle stalle alle stelle. Fragranti, confortevoli, dignitosissime stalle. Ma il patrimonio del futuro sposo ammontava a qualche centinaio di milioni di euro, il che costituiva sempre una certa differenza. Sapevo poco di lei. Ma abbastanza da accettare l’idea che qualche merito le andava riconosciuto. Aveva schiodato da un impenitente celibato e da una fanciullezza protratta fino al limite dei quaranta, oltre il quale qualunque ragazzone comincia a impensierire anche la sua mamma, un compìto dottore commercialista rimasto folgorato dai suoi occhioni neri, dal suo seno esplosivo e dal succedaneo del feromone che, una sera di luglio, lo aveva assalito e rapito con la violenza di un tifone dei Tropici. In una affollata discoteca della Riviera.

    Posò il vassoio sul tavolino e si sedette sul divano vicino a me. Accavallò le gambe e la vestaglia scivolò giù, scoprendo una coscia compatta e bianca come il latte. Un rapido guizzo della mano subito la coprì. Mentre si chinava per versare lo zucchero nelle tazze, dalla scollatura aperta trasparirono due imponenti mammelle finalmente libere dal castigo del reggipetto.

    «Questa tisana me l’ha consigliata il mio omeopata. È buona e rilassa».

    La sua voce raschiava, come un’unghia che gratta una calza di nylon. Sorseggiava piano e soffiava sulla sua tisana bollente. I suoi occhioni neri mi guardavano da sopra la tazza con l’espressione di una bambina presa con le mani nella marmellata.

    «Mi perdoni se l’ho spaventata. Mi chiamo Bacci Pagano e sono un investigatore privato».

    «Piacere. Alma Montello», rispose allungandomi la mano.

    «Commessa ai magazzini Coin», dissi sfiorandole appena le dita coi miei polpastrelli.

    «Sa anche questo?».

    «Sì. E so che in primavera sposerà il dottor Gustavo Camillo Pellegrini. Il rampollo di una famiglia che gli lascerà una dote miliardaria».

    «Sì, il ventuno di marzo. All’equinozio. Gustavo Camillo ha voluto così. Dice che porta bene».

    «Auguri».

    Fece spallucce.

    «Ma adesso ha scoperto tutto».

    «Aspetti. Non è proprio così. Indagare sulla sua fedeltà in amore non rientra nel mio lavoro».

    Sul viso incorniciato dai finti boccoli tinti di biondo lo stupore sbocciò fresco come una rosa. Gli occhi senza più trucco e le labbra senza rossetto si illuminarono d’una gioia inattesa.

    «Vuol dire che... Non mi ha pedinato per sapere se ho un amante?».

    «Certo che no. Gli affari di corna mi fanno schifo e cerco di occuparmene meno che posso».

    «E allora perché?».

    «Voglio solo sapere con chi ha trascorso la serata».

    «Non è la stessa cosa?».

    «Neanche per idea. A me interessa conoscere il nome. Quel che avete fatto riguarda solo voi due. Tutt’al più, il suo futuro sposo».

    «Perché, non è stato lui a ingaggiarla?».

    «No. Lui non sa niente, anche se sono pagato coi suoi soldi».

    «Mi scusi ma proprio non capisco».

    «Non importa. Mi faccia quel nome».

    «Se lo scordi. O lei mi spiega tutto oppure...».

    «È sicura di essere nella posizione più adatta per porre delle condizioni?».

    «Mi sta forse ricattando?».

    «Se vuole metterla così. Coraggio, signorina, fuori quel nome. Mi risparmi la fatica di andare a far domande in quel palazzotto di corso Carbonara. Sa come vanno a finire queste cose, cominciano a girare certe voci. Genova è un grande paese».

    «Scommetto che è stata la madre di Gustavo Camillo ad assoldarla. Quella brutta strega...».

    «Diciamo che è stata la finanziaria Pellegrini Co. I miei clienti temono che lei, senza saperlo, intrattenga amicizie e conoscenze con personaggi della più pericolosa concorrenza. Così mi hanno assoldato per vegliare sui propri interessi senza creare problemi al vostro... come posso chiamarlo? Idillio d’amore?».

    «E Gustavo Camillo non sa niente?».

    «Se proprio insiste lo informiamo».

    «No no, per carità».

    Ora fui io a fare spallucce.

    Alma posò la tazza vuota e con le braccia allungate tra le gambe cominciò a raccontare, imbarazzata.

    «È una storia vecchia. È cominciata quando frequentavo l’istituto professionale. Alberto ci insegnava diritto commerciale e faceva girare la testa a tutte le ragazzine della scuola. Andavamo pazze per i suoi baffetti biondi. Io già allora ero abbastanza... vistosa, lui mi ha messo gli occhi addosso e siamo diventati amanti. Sì amanti, perché lui non è certo il tipo che si fidanza con una commessa. Ci vedevamo, facevamo l’amore, lui giurava eterno amore e prometteva di telefonarmi il giorno dopo e invece per due settimane non si faceva più sentire. È andata avanti così per anni. E dura ancora, perché non nego che a me Alberto continua a piacermi. Anche se adesso ci vediamo raramente. Forse una volta al mese».

    «Alberto e poi?».

    Un attimo di esitazione. Gli occhi cercano un punto del soffitto dove si possa saltare nel vuoto senza farsi male.

    «Alberto Losurdo».

    «Naturalmente sa tutto di lei e di Gustavo Camillo».

    «Sicuro».

    «E non le ha mai chiesto niente degli affari della famiglia?».

    «Se anche fosse, io non so niente dei loro affari...».

    «Meglio così. Il problema è che presto le chiederà di passargli informazioni dettagliate. Se lei non lo farà, magari la minaccerà di spifferare tutto a Gustavo Camillo. Vede in che brutto pasticcio si è cacciata, signorina Montello?».

    La preoccupazione diventa panico e i suoi occhioni neri si fanno lucidi. Implora aiuto, ma non solo. Si capisce che dietro l’apprensione per il futuro c’è l’amarezza del passato e del presente. Dunque Alberto non la cerca più perché lei è Alma Montello, la studentessa più vistosa dell’istituto professionale.

    Provo a tranquillizzarla.

    «Ma a tutto c’è rimedio. Troveremo una via di uscita».

    Un sussulto di spavento.

    «Non lo ucciderete mica?».

    «Per chi mi ha preso? Io sono un investigatore privato, non un killer. Anche Losurdo ha i suoi punti deboli. Useremo quelli per neutralizzarlo».

    Un sospiro di sollievo. Allora provo a consolarla perché, effettivamente, vistosa è vistosa.

    «Stia pure tranquilla, Gustavo Camillo la condurrà all’altare ignaro come un bambino. E vivrete per sempre felici e contenti».

    «Dice davvero?».

    Allungo una mano e col dorso le accarezzo una guancia.

    «Sa che la sua tisana è davvero buona? E rilassa».

    Sento il suo impercettibile irrigidirsi, ma la mia mano non si muove. Resta sospesa per aria, farfalla vogliosa e smarrita, sfiorando la pelle morbida della sua guancia. I grandi occhi neri mi guardano con desolata tenerezza.

    «No, la prego...».

    Con un gesto lento lento la sua mano si porta sulla mia e la spinge lontano.

    Mi lascio avvolgere da un malinconico languore e penso che, dopo tanto freddo, non mi prenderò nemmeno gli avanzi lasciati da quel figlio di puttana di Alberto Losurdo.

    Capitolo 2

    Al Caffè degli Specchi

    «E sia, guaglio’» mi aveva concesso Pertusiello al telefono. «È venerdì sera. E pigliamoci ‘sto aperitivo. Alle sette al Caffè degli Specchi».

    Sotto la festa delle luminarie natalizie Salita Pollaiuoli brulicava di arabi e di ispanici indaffaratissimi a non far niente. E di genovesi appena usciti dai loro uffici deserti fino al lunedì. Tra gli uni e gli altri la lingua, l’odore e il colore della pelle erigevano un invisibile muro di diffidenza. Si cominciava a respirare l’aria di Natale, con le vetrine addobbate a festa e i loro alberelli finti, le palline colorate, il vischio e tutto il resto. E tanta merce esposta in bella mostra in attesa della febbre degli acquisti. Tacchino e pesce fresco e crostacei. Moscato e spumanti. Pandori e panforti e panettoni. Speciali. Torrone e frutta secca. E regali, tanti regali. Abbigliamento, pelletteria, giocattoli, gioielli e bijoux. Oggettistica utile e inutile. Computer, stereo, dvd, telefoni cellulari, foto e telecamere digitali, playstation e x-box.

    Quando entrai nel caffè, il vicequestore Salvatore Pertusiello, il dirigente più ingombrante della Mobile, se ne stava seduto al primo piano, a un tavolino vicino alla finestra nella sala grande riservata ai fumatori. La sala era già piena. Alfio e le sue ragazze facevano la spola tra il bancone e i tavoli servendo aperitivi a una clientela mista né più né meno che gli ingredienti di quei cocktail. Studenti e studentesse, giovani in carriera e non più giovani dalla carriera solubile in alcol, intellettuali disoccupati o in pensione e rampanti di modesto intelletto occupati ad accumulare soldi, successo o potere. Fanciulle in fiore ed ex fanciulle sfiorite. Sinistrorsi botanici della politica senza più nemmeno le mutande appesi ai loro ulivi, alle loro querce sfrondate e alle loro margherite di carta e qualche forzitaliota clandestino sospeso tra la paura di essere scoperto e la vergogna di dichiararsi tale.

    Pertusiello aveva riempito l’attesa e la solitudine con una flûte di Bellavista intorno alla quale i rituali piatti con gli stuzzichini danzavano il loro girotondo di seduzione gastrica. Alfio mi vide e mi salutò con un cenno che voleva dire: arrivo subito da te. Il commissario mi indicò una sedia.

    «Asséttate Bacci, che mò viene Natale e dovremmo essere tutti più buoni. E invece siamo più stronzi e sempre pronti a farci del male. Tu che giri come la merda nei tubi, avrai visto in città un grande manifesto, un manifesto enorme».

    La mano ciclopica tracciò nell’aria con il pollice e l’indice aperti un’immaginaria sequenza di lettere.

    «Cinque pallottole per ripulire l’Italia. L’hai visto, sì o no?».

    «Come si fa a non vederlo un manifesto così grosso?».

    Batté compiaciuto le nocche sul tavolo.

    «Ecco, proprio questo è il punto. Non si può non vederlo. Tutti i genovesi stamattina si sono svegliati e hanno visto su tutti i muri di Genova il nostro grido di dolore travestito col turbante di Bin Laden. Una gigantografia che li chiama a votare i primi cinque da far fuori per ripulire l’Italia. E per votare gli dà pure il numero verde».

    «E allora?».

    Rise d’una grassa, compiaciuta, fragorosa risata che richiamò l’attenzione di alcuni ragazzi seduti al tavolo vicino.

    «Quelli della Digos sono sull’orlo di una crisi di nervi».

    Pertusiello è fatto così. Quando la Digos si rode il fegato a lui, dirigente della Squadra Omicidi, gli piglia il buonumore.

    «Si scaldano per così poco? Con l’aria che tira in Italia cinque pallottole mi sembrano roba da blando moderatismo liberale».

    Replicò facendosi serio.

    «Dopo il G8 Genova è considerata un obiettivo sensibile...».

    «Questa Radio Baba Yaga esiste davvero?».

    «Esiste, esiste. Si tratta di una radio locale molto ascoltata dai giovani. Sul genere intellettuale-creativo-militante. Musica selezionata, dibattiti politico-culturali, qualche collegamento con i centri sociali e il movimento no global. Frequenti dirette dalle assemblee delle scuole occupate contro la riforma della Ministra. È nata due anni fa e ha fatto molto parlare di sé durante il G8 con alcuni servizi che sono diventati materiale dell’inchiesta della magistratura».

    «Dunque si tratta di una iniziativa tutta genovese».

    «Già, e qui sta il bello. Il manifesto è uscito questa notte e sai quante telefonate sono arrivate alle cinque di stasera?».

    «Un milione, come i posti di lavoro promessi nel ‘94?».

    «Un milione no. Ma tremila. Tre-mi-la, capisci?».

    «Vuol dire che l’idea era buona. Chi c’è dietro?».

    «Un certo Samuele Lagrange, un piccolo editore genovese. Ebreo, ex sessantottino ed ex fricchettone. E una redazione fatta di tre o quattro ragazzi. Il più vecchio avrà venticinque anni».

    Arrivò Alfio con la sua riga di baffo e di pizzo e il suo sorriso da furetto.

    «Che ti servo, Bacci? Vuoi andare sul pesante o stare sul leggero?».

    «Per te cinque pallottole sono andare sul pesante o stare sul leggero?».

    Fece un cenno d’intesa e scoppiò a ridere.

    «Bravi, bravi. Mi sono proprio piaciuti. Pensa che ieri sera due ragazzi della radio erano qui, seduti a quel tavolo. E non facevano che ripetere che oggi a Genova sarebbe scoppiato un bel temporale. E poi scherzando mi hanno chiesto: - Alfio, ne hai arance? Caso mai ce le porti o ce le mandi dalle ragazze.

    «Io non capivo, ma loro non hanno scucito una parola di più. Volevano assicurarsi l’effetto sorpresa».

    Con gli occhi socchiusi Pertusiello si godeva la scena e sorseggiava la sua flûte di Bellavista. Il piacere gli faceva protendere a cuore le labbra sull’orlo del bicchiere, e piuttosto che bere suggeva il suo brut come se fosse il nettare degli dei.

    «Io dico che cinque pallottole vuol dire stare molto, ma molto, sul leggero» proseguì Alfio. «Perché per ripulire l’Italia ci vorrebbe un arsenale».

    «Bene. Allora andiamo pure sul pesante».

    «Che ne diresti di un margarita alla banana?».

    Assentii e il commissario si associò prontamente alzando la mano, come se prenotasse un taxi.

    «Due».

    Samuele Lagrange. Un nome che non sentivo più da tanti anni e che per me aveva lo stesso doloroso profumo della giovinezza. Una cascata agrodolce di memoria mi rovinò addosso smuovendo le più profonde ferite dell’anima col bisturi della nostalgia. Una nostalgia senza pace, dove il rancore e il risentimento per non averla vissuta tutta e fino in fondo, la giovinezza, si addolcivano nel ricordo delle prime esperienze della militanza, quando tutto sembrava ancora possibile. I primi comitati di base del sessantotto, i primi oceanici cortei studenteschi sull’onda del maggio francese. L’immaginazione al potere e il potere dell’immaginazione che trasfigurava la realtà in un empito di felicità senza il peso di alcun passato da scontare. Una musica struggente percorreva quei ricordi, e poteva risuonare con le note di Ticket to ride o And I love her dei Beatles, o di Tell me dei Rolling. Più tardi, coi timbri indios del charango e delle quenas suonati dagli Inti Illimani e dai Quilapayun. La parola che scopriva le cose e gli occhi che le guardavano come se fosse la prima volta. Anche una prepotente furia morale che aveva l’ingenuità e la freschezza del risveglio della primavera. Perché quando si è giovani lo slancio morale non sa mai di moralismo e, non conoscendo altro calcolo che l’algoritmo dei sentimenti, non può far danni se non a chi lo sente bruciare sulla propria pelle. C’è una sola età della vita in cui la pretesa che il futuro degli altri sia uguale al proprio è salutare. Perché, da sempre, è quello il sale che ha fatto camminare la Storia. La comune sensazione di essere insieme a vivere per la prima volta una giovinezza che non era solo la nostra ma che volevamo fosse la giovinezza del mondo. Ho imparato a mie spese che legare il destino della propria età dell’oro a quello del mondo è una scommessa rischiosa che può bruciarti l’esistenza al primo girare del vento. Ma, perdio, è anche la sola parola che la Storia abbia scritto a riscatto del proprio infinito dolore. Il resto è solo amministrazione delle cose. Magari eccellente e senza dubbio utile e perfino indispensabile. Ma questo porco mondo ha ancora tanto bisogno di sognare per svegliarsi un po’ migliore di quello che è.

    «Lagrange è stato mio amico. Tanto tempo fa. Nel sessantotto».

    «Il sessantotto è stata la fabbrica dei peggiori uccelli migratori che io abbia mai conosciuto. Migratori sempre a senso unico. Da sinistra a destra. A quanto pare ‘sto Lagrange fa eccezione».

    «A quanto pare».

    «Cosa mi dici di lui?».

    Ecco che, tra una flûte di Bellavista e un margarita corretto alla banana, in punta di piedi entrava in scena il commissario di polizia. Se ne stava seduto sulla sua seggiolina, con quella schiena da cetaceo di centotrentacinque chili curvata in avanti. Le braccia tese e le mani giunte tra le gambe aperte. E mi guardava con l’aria del poliziotto che apre l’interrogatorio di un testimone o di una persona informata sui fatti. Testimone scomodo, almeno quanto lui era diventato un commissario scomodo, in questa polizia tutta percorsa da fremiti postfascisti. Strumentalmente difesa da Ministri analfabeti in lingua italiana e in democrazia, che hanno troppo precipitosamente rimpiazzato la camicia nera col doppiopetto. E ogni volta che le forze dell’ordine picchiano a mansalva rossi e clandestini non trovano di meglio da fare che esprimere sempre e comunque piena solidarietà. A prescindere, come diceva Totò.

    «Cosa posso dirti? Sono passati più di trent’anni. Sapevo che negli anni settanta era andato in Israele a cercare il comunismo in un kibbutz. Tornò disgustato dopo aver visto i soldati israeliani massacrare senza pietà i bambini palestinesi. Poi ha provato con l’India e col buddismo tibetano. Deve essere stato via a lungo perché non ho più sentito parlare di lui».

    «Un altro che nel comunismo cercava se stesso. Buoni quelli che, per risolvere i conti in sospeso coi loro padri, volevano fare la rivoluzione proletaria. E sai dove sono finiti? Sul lettino dell’analista. Senza venire a capo di nulla. Se non altro gli uccelli migratori hanno subito capito che conveniva lasciar perdere le utopie collettive e si sono messi a cercare se stessi con l’aiuto del conto in banca di papà».

    «C’era anche chi non aveva un papà col conto in banca».

    «Pochi. Pochissimi. E comunque anche quelli hanno finito per trovarne uno nuovo di zecca. E gli hanno offerto il culo, facendo finta di pensare che solo gli imbecilli non cambiano idea».

    «Tutti cerchiamo noi stessi».

    Sorrise con sufficienza e mi guardò con uno sguardo affilato, tagliente, che faceva capire che su quel discorso non era disposto a compromessi.

    «I disperati della terra cercano di sopravvivere. E questo non gli lascia il tempo di cercare altro».

    «Se così fosse, i disperati della terra vorrebbero diventare tutti americani».

    «Perché, non è così?».

    Arrivò Alfio coi due margarita alla banana e un vassoio pieno di ciotole colme di

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