NELLA RICERCA DI UN SENSO LOGICO AL CAOS non serve scomodare Plutarco per trovare un ovvio parallelo tra i “Roaring Twenties” e l’attuale rinascimento della miscelazione italiana e internazionale d’inizio decennio. Ma nel semplificare in similitudini si rischia di far torto ai grandi protagonisti di questa nuova e crescente onda professionale, pensando che quello che sta succedendo dietro ai banconi d’Italia sia qualcosa di già visto prima. In una crescita sana e graduale la Bar Industry nostrana sta infatti abbandonando il “già fatto” e il “già assaggiato”, preferendo una direzione autonoma, spogliata degli stereotipi della categoria. Al posto dei baffi arricciati e dello stile americano, l’ispirazione diventano così i bar di quartiere, il mito dello speakeasy lascia il posto alla classe dell’hôtellerie della Dolce Vita, mentre frutta e verdura di stagione conquistano il centro della proposta, sostituendo l’estenuante ricerca dell’esotico. E il merito di tutto questo è di una nuova generazione di bartender – cresciuti all’ombra di una golden generation capace di insegnare loro a pensare fuori dagli schemi – che ora è pronta a diventare la nuova Italia del bar.
Ritorno al futuro: viva i bar di provincia
Parigi è Parigi, Londra è Londra, e l’Italia è tutta. Se nei più importanti paesi europei esistono delle megalopoli che fungono da attrattori per le nuove aperture e le rendono delle vere e proprie “capitali del gusto”, da noi funziona in modo diverso. Nel mondo del bar, ad esempio,