La pasticceria napoletana in 300 ricette da non perdere
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Anteprima del libro
La pasticceria napoletana in 300 ricette da non perdere - Pignataro Luciano
219
Prima edizione ebook: ottobre 2014
© 2008 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
colDisegni di Luisa Montalto
Foto Stockfood/Olycom
ISBN 978-88-541-7304-0
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Luciano Pignataro
LA PASTICCERIA
NAPOLETANA
In 300 ricette da non perdere
Dalla tradizione millenaria all’arte pasticcera
dei migliori ristoranti
Newton Compton editori
INTRODUZIONE
La dolce Napoli
La pasticceria napoletana è uno dei tre filoni principali di cui è composta la tavola dolce italiana in città. Al Nord abbiamo la scuola piemontese in cui sono evidenti le decise influenze d’Oltralpe nelle preparazioni e nel gusto, e che trova la sua sublimazione nelle creme e nel cioccolato, al Sud c’è invece la grande tradizione siciliana in cui è notevole e preponderante l’impronta araba.
Napoli è una sfumatura del Nord vista dall’altra sponda del Mediterraneo, assolutamente Mezzogiorno esotico osservata da Parigi, la città europea che più di ogni altra ha dettato le sue mode in cucina grazie alla presenza dei monzù e al regno dei Borbone. In comune con gli altri due filoni ha una caratteristica molto importante che la distingue da tutte le altre regioni italiane, pure ricche di un grande patrimonio di golosità da pasticceria, e cioè aver assunto i suoi propri caratteri distintivi in città e non in campagna.
La preparazione di alcuni dolci, infatti, facciamo l’esempio di sfogliatelle e babà tanto per citare i più complessi e conosciuti, ha bisogno di una specializzazione difficile da trovare in casa e che dunque presuppone un mercato da asporto tipico della comunità urbana, nel caso partenopeo metropolitana. Se non c’è struscio è impossibile la vendita del dolce da passeggio: non a caso le più famose pasticcerie, e trattorie, sono nate nei pressi della Stazione ferroviaria o nel cuore della città aristocratica e borghese.
La tradizione dolciaria partenopea, come del resto quella gastronomica in generale, assunse la sua plastica classicità nel corso dell’Ottocento quando Napoli era la città più popolosa d’Italia ed è in questo contesto che è possibile individuare quattro grandi famiglie di dolci: la prima, comune a tutto il resto d’Italia, è il dolce di derivazione contadina, che in genere parte dal pane o dai cereali, il cui simbolo più conosciuto è sicuramente la pastiera, oggi presente tutto l’anno, ma che prima si mangiava solo durante le feste pasquali e che simboleggiava anche il ritorno della primavera con la speranza di un raccolto fertile. I pandoro, i panettoni, i panforte sono eredi della tradizione rurale quando il pane da salato si trasformava in dolce per la domenica o le ricorrenze da festeggiare, sono prodotti che a Napoli si affermano solo negli anni 70, con la nascita del mercato unico di massa e la capacità del Nord commerciale di esportare le proprie tradizioni in tutta Italia grazie all’industria. Insomma, il paradosso è che i dolci rurali italiani hanno conquistato il mercato di città con l’avvento del consumismo e grazie all’affermazione della grande industria come marchio di qualità e sicurezza veicolato dalla televisione. Oggi, con il ritorno dell’attenzione ai prodotti tipici, questi dolci vengono apprezzati solo se artigianali e integrati dalla fantasia arricchita dai prodotti campani come, tanto per fare un esempio, il panettone al limoncello.
La seconda famiglia della pasticceria napoletana ha le sue radici nella tradizione araba caratterizzata soprattutto dall’uso della frittura, parliamo delle zeppole e degli struffoli che meglio la simboleggiano perché molto veloci nella cottura, si possono anche fare a casa oppure mangiare per strada. Si tratta di dolci oggi un po’ messi all’angolo per ragioni dietetiche, molti per esempio preferiscono le zeppole di San Giuseppe al forno, e questo è il primo sintomo di come la grande fame di Napoli durata almeno quattro secoli non è più lancinante come sino a qualche anno fa. Magari è un problema mentale più che di pancia, ossia l’inconscia paura che il cibo possa improvvisamente mancare per una qualsiasi ragione. Una paura capace di accomunare da sempre la città alla campagna.
Terza famiglia, lo abbiamo accennato, è costituita dai dolci da passeggio, un preciso riferimento alla tradizione borghese e dei prodotti da laboratorio come le sfogliatelle, i babà, le zuppette, gli choux (sciu) ripieni di crema. È forse questa la tradizione più radicalmente urbana, capace di caratterizzare la città, e poi, proprio per questo, esportata in tutta Italia prima dell’avvento della grande industria dolciaria. Nasce cioè una vera scuola, molti dalle piccole realtà del Sud vengono a imparare a Napoli per poi aprire laboratori nel proprio paese o cittadina. È in questo momento che le pasticcerie della Campania hanno banchi simili a quelle della grande metropoli.
Infine la quarta famiglia è quella delle torte aristocratiche di chiarissima derivazione parigina, le costruzioni barocche create dai monzù per stupire la tavola, caratterizzate da preparazioni complesse e da formule tenute gelosamente segrete nel corso della carriera professionale degli chef.
Ecco dunque che la nostra ricerca spazia dalla tradizione classica così come ormai è tramandata nei migliori laboratori alle innovazioni dell’alta gastronomia, dai segreti custoditi in famiglia e nei conventi alle varianti presenti su tutto il territorio regionale attraverso una raccolta antropologico-gastronomica che non ha precedenti.
Questa poliedricità di cui abbiamo cercato una sintesi di comodo è comunque lo specchio della città, così come il sapore dolce, che arriva immediatamente al cervello rassicurandolo e saziandolo perché gli comunica l’arrivo dei rifornimenti per la sopravvivenza del corpo. Già, perché se per il resto del cibo è sempre necessaria un’evoluzione concettuale, una mediazione culturale per arrivare a un approccio e al giudizio, per i dolci l’impatto è immediato, diretto, oserei dire biologico: impossibile trovare qualcuno che non l’apprezzi, anche coloro i quali si piccano di essere salatisti
soddisfano in altra maniera, per esempio con il vino, il bisogno di zuccheri del proprio cervello, e dunque del proprio organismo. Ecco allora come l’autorappresentazione pasticcera di una città è il suo biglietto da visita più convincente e veritiero, consente di entrare immediatamente nella testa dei suoi abitanti. E Napoli, da questo punto di vista, spiega così il suo mistero inestricabile, cioè l’essere lazzara e aristocratica, raramente borghese, orientale e occidentale, una complessità difficile da trovare altrove dove spesso intere nazioni si identificano con un solo, al massimo due, dolci. Pensate alla sconcertante banalizzazione zuccherina degli States e confrontatela con la ricchezza e la varietà partenopea: cosa credete che avrà un futuro lifestyle, il muffin o la sfogliatella?
Luciano Pignataro
La tradizione
e la classicità
Il babà
Partiamo dal suono della parola, così importante per i napoletani ai quali interessa sempre anche la musicalità di una frase e di un discorso, meglio se accompagnata da gesti didascalici con le mani e ammiccamenti con gli occhi. Già, una comunicazione a tutto campo con la propria fisicità, tipica delle grandi città di un tempo visitate da genti straniere con le quali commerciare e fare affari, esigenza inutile se invece si era costretti a vivere nei campi o con le pecore o in piccoli borghi e cittadine fuori dalle rotte. Babà ha dunque nel suo suono (la seconda bi appena appena raddoppiata ma senza calcare sicché mai diventa babbà
ma non è neanche babà alla francese) uno dei segreti capaci di annunciare il suo successo, perché gioca sulla piacevolezza all’udito e sul successo della memoria: come dimenticare mai qualcosa, un dolce, con questo nome? Le prime due lettere dell’alfabeto, talmente facili da pronunciare che per i greci identificavano i popoli privi di una lingua costruita, bar bar, barbari appunto. Certo, in napoletano si scrive babbà, quindi in modo diverso da come si pronuncia, ma questa è forse la caratteristica principe del dialetto partenopeo, un po’ come l’inglese: per questo è l’unico linguaggio regionale così adatto alla musica, le parole si accorciano e si allungano seguendo le note, si personalizzano facilmente, hanno mille significati a seconda del contesto in cui sono inserite.
I napoletani hanno innumerevoli espressioni che associano il carattere a uno stato fisico più che mentale, alcune anche un po’ volgari come «hai scacato» per dire «hai sbagliato», «m’arrizzo» per «mi entusiasmo», «si nu’ strunz’» per «sei cattivo», eccetera, tutte ricche di sfumature la cui traduzione in italiano, a volte esportata nel linguaggio corrente nazionale proprio come la pasta e la pizza a tavola, spesso non rende esattamente l’idea di ciò che in realtà si vuole rappresentare. Questo vale anche per il cibo, la principale preoccupazione quotidiana con cui Napoli ha dovuto fare i conti dal ’600, quando era già metropoli, a tutto il Dopoguerra, sino agli anni 60, quando poi le calorie sono state sufficienti alla sopravvivenza fisica senza angoscia. Ecco perché «si nu’ babbà» detto ad una persona indica qualcuno dal carattere dolce, disponibile, oppure bravo nell’eseguire qualcosa di particolarmente difficile, o, ancora, si può usare per ringraziare di un regalo o di un’attenzione. Ma non solo una persona, anche una cosa può essere «nu’ babà», magari un oggetto particolarmente bello come un’auto sempre funzionante, una macchina fotografica, persino la vista di qualcosa di particolarmente bello.
Insomma, l’avete capito, babà ha un significato estremamente positivo per i napoletani che lo apprezzano in quanto capace di riflettere alcuni dei loro pregi migliori grazie ai quali sono passati direttamente dal precapitalismo alla società postindustriale senza incontrare la necessità della disciplina di fabbrica: parliamo dell’equilibrio dei sapori con cui si esprime questo dolce, la sua praticità e, al tempo stesso, l’estrema pazienza richiesta da ben tre lievitazioni nella ricetta classica. Già, perché i napoletani sono veloci ma disprezzano e non accontentano mai volentieri chi mostra segni di impazienza mentre irridono chi è troppo lento, nel capire la situazione più che nel fare. E come tutti i popoli commerciali, privilegiano sempre e comunque una soluzione equilibrata quando scoppia un conflitto tra le persone, un compromesso capace di chiudere una partita aperta e pensare alla prossima. Ebbene, conoscete nel vostro universo tattile qualcosa di più equilibrato della consistenza assunta dal babà ben lievitato e cotto? Già, e la praticità di cui ho detto all’inizio? Non come si fa, certo, quanto come si mangia: in piedi, rapidamente, usando il cappello per iniziare dal tronco, uno, due, tre morsi e voilà, nessuno potrà togliercelo. Il babà, infatti, si iscrive a pieno titolo nei dolci di città perché è necessaria sapienza consolidata per prepararlo, dunque forni pubblici più che casalinghi, una profonda conoscenza dei tempi di lievitazione rapportati alla temperatura esterna e all’umidità presente nell’aria, proprio come la pizza. È dolce da città perché da passeggio: si entra, si prende e si mangia continuando la camminata, non ha necessariamente bisogno di un piattino e della forchetta, si usano le mani e dunque, a dispetto delle sue origini regali, come vedremo da qui a poco, è molto democratico, perché mette sullo stesso piano chi ozia e chi lavora, ricchi e poveri.
Ecco come, cari amici, siamo passati inavvertitamente dal suono alla sua rappresentazione semantica. Già, perché, in fondo, il babà piace ai napoletani perché meglio di ogni altro dolce rappresenta il genius loci positivo della città, quello tanto amato anche fuori. Eppure, proprio come la pizza, la pasta, il caffé, il babà non è nato alle falde del Vesuvio ma nel freddo Nord, precisamente in una cittadina francese chiamata Luneville ai confini con la Germania: la sua storia è deliziosamente ricostruita da Flavia Amabile in un prezioso libretto pubblicato dalle Edizioni dell’Ippogrifo (Sì nu... babbà, 2001) arricchito dalle foto di Gérald Bruneau e dall’introduzione di Antonio Bassolino oltre che da alcune testimonianze di personaggi celebri. A inventarlo fu un re bidetronizzato, il polacco Stanislao Leszczynski, suocero di Luigi XV di Francia che aveva sposato sua figlia Maria. Grazie alla sua parentela importante, aveva avuto come buona uscita il Ducato di Lorena dove poté elaborare impossibili ricette politiche per il futuro dell’Europa e passare alla storia per l’unica cosa seria fatta nella sua vita, inventare il babà. Ancora oggi esiste un dolce, baba senza accento, ossia slavo e non francese, nella sua Polonia. Si dice che l’ex re abbia bagnato nel Madeira una fetta di kugelopf, il dolce austriaco ermafrodito, cioè mezzo panettone e mezzo brioche, e che da allora lo abbia sempre voluto così. La sua grande passione per la cucina portò a nuove e più ricche elaborazioni con l’impasto lievitato tre volte e sbattuto per ottenere una pasta più leggera, pieno di uvetta e con lo zafferano di cui erano ghiotti i turchi i cui gusti aveva conosciuto da prigioniero quando aveva perso per la prima volta il suo inutile regno. La forma diventa quella della cupola di Santa Sofia, il nome scelto è Ali Babà, il protagonista di Le Mille e una notte. Questo incrocio di culture e di suggestioni spesso più facili da cogliere in provincia dove ci si annoia porta Fabrizio Mangoni, autore di La Fisiognomica del Cibo e principale storico della pasticceria napoletana, a definire il babà come «dolce dei Lumi». In sostanza, mentre la stragrande maggioranza dei dolci nasce nella nebulosa indistinta della civiltà contadina, «il babà», afferma Mangoni, autore anche di uno spettacolo sul tema, «è figlio di un’idea». In questo caso sappiamo, insomma, chi, dove, quando, forse perché.
Un altro salto di qualità è la decisione della bagna, necessaria per sostenere la morbidezza del dolce altrimenti destinato rapidamente a pietrificarsi in poche ore. Stanislao sceglie il Madeira, a Versailles, dove si dettavano le mode, si usa il rhum giamaicano, l’ultimo dei benefici importati da Oltreoceano. Ma nella società capitalistica un cibo per diventare prodotto si deve reificare in merce, altrimenti resta solo una curiosità familiare. Ed è quanto avviene con il pasticcere, originario della Polonia, Sthorer che a Luneville ha seguito l’esilio del re mangione, trasferendosi poi con sua figlia Maria a Versailles quando, nel 1725, quest’ultima sposò Luigi XV. Infine apre un proprio laboratorio a rue Montorgueil, esistente ancora oggi al numero 52, dove crea i babà a forma di fungo o cappello di cuoco così come sono giunti fino a noi. Più tardi, Jean Anthelme Brillat-Savarin regala ai fratelli Julien il babà a forma di ciambella nel cui centro immergere la frutta per il loro laboratorio sul boulevard St.Honoré: eliminata l’uvetta, aggiunto il burro, una spennellata di marmellata di albicocche per salvare la bagna più a lungo ed è così che da Ali Babà si passa a Babà.
Il dolce è simbolo del filo diretto con cui Napoli è sempre stata legata a Parigi negli ultimi tre secoli. Un legame nato precisamente quando Maria Antonietta sposa Luigi XVI mentre la sorella Maria Carolina si lega a soli sedici anni nel 1768 per procura a Ferdinando IV di Borbone. Tra le due figlie di Francesco, duca di Lorena e imperatore d’Austria, e di Maria Teresa d’Asburgo matura una rivalità di cui probabilmente la prima non ha avuto modo di accorgersi, mentre la seconda l’ha coltivata nel suo esilio solare mandando in continuazione emissari a Parigi per scoprire le ultime tendenze dei sarti e degli chef: nasce così l’epopea del gattò, della besciamella, del gratin, degli choux e di quei termini francesi e francofoni con cui la cucina napoletana conosce l’influenza d’Oltralpe oltre un secolo prima del suo affermarsi in Italia come nouvelle cuisine. Evidentemente lo stile di una grande capitale poteva essere riproposto, sia pure non nello stesso modo, solo in una grande città, qual è stata Napoli sino all’inizio del ’900. Il resto, viene da dire, è storia di oggi: già nel 1836, ci ricorda Flavia Amabile nel suo testo, il babà appare come dolce tipico napoletano nel primo manuale di cucina italiana scritto da Angeletti per Maria Luigia di Parma. Status symbol, poi tradizione, il babà entra nelle case di tutti, segna la pasticceria del Regno delle due Sicilie e poi dell’Italia.
L’ultima moda è il babà al limoncello o alla crema di limone, nato a Capri e sull’altra sponda della Terra delle Sirene. Un infuso capace di scalzare rapidamente il rhum e di aprire così la disputa fra tradizionalisti e innovatori. Chissà se a Stanislao sarebbe piaciuto, noi pensiamo che il suo gusto legato all’esperienza in Turchia avrebbe apprezzato l’agrumato capace di risolvere quel problema affrontato e superato brillantemente da Savarin: trovare la necessaria acidità per equilibrare ulteriormente nel babà la sensazione di dolce, a volte zuccherosa quando