101 trattorie e osterie di Milano dove mangiare almeno una volta nella vita e spendere molto poco
Di Carlo Cambi
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Info su questo ebook
Carlo Cambi
toscano di nascita e di cultura, ha esordito giovanissimo nel giornalismo prima a «Il Tirreno» e poi a «la Repubblica» dove ha lavorato per vent’anni. Nel 1997 ha fondato «I viaggi di Repubblica», primo e unico settimanale di turismo in Italia, che ha diretto fino al 2005. Ha scritto per «L’espresso», «il Venerdì di Repubblica», «Affari e Finanza», «Epoca» e «Panorama», collabora con «Il resto del Carlino» ed è il curatore dell’inserto enogastronomico “Libero Gusto” che esce ogni sabato sul quotidiano Libero. Sommelier honoris causa dell’AIS, è tra i fondatori del Movimento Turismo del Vino, membro del Comitato Scientifico della Fondazione Qualivita per i marchi europei, già Presidente della Strada del Vino Terre di Arezzo. Autore televisivo e radiofonico è stato relatore in numerosissimi convegni e ha prodotto diversi saggi di argomento enogastronomico, turistico, antropologico ed economico. Nel 2009 è stato insignito del premio internazionale AIS, già Oscar del Vino, quale miglior giornalista scrittore enoico. Di formazione economico-giuridica tiene docenze ai master dell’Università Bocconi e de “la Sapienza” di Roma. Con la Newton Compton ha pubblicato Il Mangiarozzo, un bestseller dell’editoria enogastronomica; Le ricette e i vini del Mangiarozzo 2009 e 2010; 101 Trattorie e Osterie di Milano dove mangiare almeno una volta nella vita e Le ricette d’oro delle migliori osterie e trattorie italiane del Mangiarozzo. Attualmente vive e lavora a Macerata.
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Anteprima del libro
101 trattorie e osterie di Milano dove mangiare almeno una volta nella vita e spendere molto poco - Carlo Cambi
49
Prima edizione ebook: aprile 2011
© 2009 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3243-6
www.newtoncompton.com
Le illustrazioni a pagina piena sono di Michele Penco
Le illustrazioni delle icone sono di Antonio Bruno
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Carlo Cambi
101 trattorie e osterie di Milano
dove mangiare almeno una volta nella vita e spendere molto poco
con la collaborazione di Petra Carsetti e Luca Pollini
Illustrazioni di Michele Penco e Antonio Bruno
Newton Compton editori
NOTA
Le informazioni relative alle proposte culinarie possono variare a seconda della stagione, delle occasioni, della disponibilità degli ingredienti e determinare quindi menu soggetti a profondi cambiamenti. Vi consigliamo quindi di verificare sempre le informazioni al telefono, soprattutto quando la visita comporti un sia pur breve viaggio. Questo vale anche per orari, periodi di ferie e giorni di chiusura.
L’opera è stata chiusa il 31 settembre 2009 e le informazioni riportate sono aggiornate a quella data. Tali informazioni, tuttavia, essendo soggette a notevoli variazioni non possono far reputare l’Editore e l’Autore responsabili per eventuali inconvenienti o danni subiti dal lettore. La redazione sarà grata per qualsiasi suggerimento che possa contribuire a un miglioramento dell’opera.
QUEI TRANI A GO GO
Che Toccaj, che Alicant, che Sciampagn,
che pacciugh, che mes’ciozz forester!
Vin nostran, vin di noster campagn,
ma legittem, ma s’cett, ma sinzer,
per el stomegh d’on bon Milanes
ghe va robba del noster paes…
CARLO PORTA
Brindes de Meneghin all’Ostaria
(Che Tocai, che Alicante, che Champagne,
che intrugli, che misturazze forestiere!
Vino nostrano, vino delle nostre campagne,
ma legittimo, ma schietto, ma sincero,
per lo stomaco d’un buon Milanese
ci va roba del nostro paese...)
Mi viene un po’ di tremore ai polsi a pensare che ho osato ripercorrere le strade di Giuseppe Barigazzi, l’autore (per Mursia) di un volume che ancora oggi è considerato la summa delle osterie milanesi. «E perché mai?», vi chiederete, visto che non è certo la prima guida che scrivo. Perché l’osteria a Milano non è semplicemente un posto dove si va (o, per meglio dire, si andava) a bere il vino. È un elemento distintivo di questa città, rappresenta un’usanza antica che risale al Medioevo e si è evoluta nel corso della storia: l’osteria ha per i milanesi un’importanza tale che fare un semplice elenco di locali dove si mangia, si beve, si chiacchiera e si fa tardi la sera significherebbe ridurne in qualche modo il ruolo. Non voglio farvela troppo lunga, e tuttavia come faccio a non guardare un po’ indietro? Come faccio a non ricordare Trani a go go di Giorgio Gaber o Le coq est mort di Cochi e Renato in combutta con Enzo Janacci? Sì, perché il cabaret milanese è nato nelle osterie, e alla fauna umana che le affollava si sono ispirati tutti: dal Manzoni che proprio in un’osteria fa riposare Renzo Tramaglino in fuga dai tumulti di piazza (e il locale ancora esiste e lo trovate recensito) a Carlo Porta, da Monelli a Vergani, che scelsero un’osteria gestita da toscani per far nascere il primo premio letterario d’Italia e successivamente l’Accademia della Cucina (anche di questa osteria, diventata oggi un ristorante-museo, parleremo).
No, le osterie non sono certo un elemento trascurabile della milanesità. E allora ripercorriamo brevemente la storia di questa forma di ospitalità e di socialità: si dice che un censimento del Duecento ne avesse contate più di seicento, ridotte alla metà sotto la dominazione spagnola. Ma anche quando c’erano gli austroungarici ne resistevano altrettante. E sono state le osterie il crogiolo di tutto. Dei moti di piazza, della mala, della vita degli operai. Pensate addirittura che vi erano le osterie socialiste e quelle monarchiche, che i partiti letterari e artistici hanno disputato per secoli attorno ai tavoli di questa Milano del bere che era (ed è) tutt’altra cosa della Milano da bere.
Ma per tornare ai giorni nostri, la prima grande evoluzione dell’osteria milanese si registra all’inizio del Novecento: da semplice luogo di bevuta e di scarsa mangiata diventa il mitico trani. Si disputa molto sul perché si chiamassero così. Io ho una mia personalissima opinione che non pretendo soddisfi gli storici. Ma occupandomi di vino penso che li chiamassero trani
perché tutti erano consapevoli che la barbera (alla piemontese) che scorreva a fiumi non era della vigna lombarda, bensì arrivava dal tavoliere. E peraltro innumerevoli sono stati i gestori del Sud di queste fumiganti gargotte
, per dirla con l’icastica immagine coniata da Indro Montanelli. Se si andasse a rileggere la storia minore di Milano, si scoprirebbe che attraverso i trani sono passate figure che sono diventate leggende. Dai grandi ladri alle signorine della notte (ora le chiamano escort e hanno perso gran parte della loro umanità), dai piccoli truffatori ai commercianti divenuti ricchissimi: tutta la vita di Milano è passata attraverso i trani, dove al sabato sera si ballava, si giocava a carte e qualche volta si dava di coltello. Era una varia umanità: la ragazzina di buona famiglia, magari operaia a cottimo, accanto alla ragazza di vita, l’impiegato modello accanto al mariuolo, l’arricchito accanto allo spiantato. Tutti al trani avevano il loro posto e tutti alla fine avevano un posto nella vita: chi più scomodo, chi meno. Per dirla con Gaber, «si passava la sera scolando barbera», ma ci si poteva anche consolare vicendevolmente «col tuo bicchiere di barbera, col mio bicchiere di champagne». E non dimentichiamo che il trani è stato la palestra di tanti artisti. Ad esempio I Gufi sono nati per impulso di Berto, uno chansonnier dei poveri che si esibiva in un vecchio trani; alla trattoria della Magolfa sono nate le canzoni sboccate che tanto hanno alimentato il cabaret degli anni del dopoguerra, e qualcuno ancora ricorda le performance scatenatissime di Alberto Quacci soprannominato La Wanda da Wanda Osiris, con la quale aveva lavorato. Ma anche Cochi e Renato, Gaber e Jannacci hanno debuttato nei trani: i primi al Praticello di Porta Ticinese, gli altri alla Bocciofila della Martesana. A Milano un mito di popolo doveva necessariamente passare per i trani.
Che avevano un loro contraltare diurno: le latterie, che hanno sfamato generazioni di artisti in cerca di celebrità, di ballerine di fila, ma anche di scrittori. Le latterie facevano il cappuccino lungo, offrivano brioche, due uova al tegamino, un piatto di tagliatelle. Dalla latteria Pirovini sono passati Vittorini e Strehler, Dino Buzzati correggeva le bozze alla Latteria San Marco (che ancora c’è), e in epoca più recente tutti gli intellettuali, da Eco a quelli del gruppo ’63, si sono sfamati in latteria. Che era proprio come il trani: interclassista. Si racconta per esempio che la contessa Serbelloni Bossi – donna di una certa tendenza al risparmio – cenava tutte le sante sere con la sua dama di compagnia alla latteria di Giobatta Colombo. Una volta che lui le confidò che i cinesi gli avevano offerto una certa cifra per rilevare il locale, terrorizzata dalla prospettiva di perdere il suo desco economico, comprò lei il locale purché Giobatta continuasse a farle le due uova al tegamino.
Ora capite perché accostarsi a censire le osterie e le latterie di Milano è un’impresa che richiederebbe un certo tipo di sensibilità antropologica e sociale.
Con questo libretto ho inteso invece fare un’altra cosa. Semplicemente andare alla ricerca di ciò che resta del trani. Ho scelto 101 indirizzi che a mio modo di vedere rappresentano la continuità o l’evoluzione dell’osteria d’antan. Certo, non sono tutti i possibili, e non so dire neppure se siano i migliori. Chi ha letto altre mie guide (ad esempio il Mangiarozzo, che esce sempre per i tipi di Newton Compton) sa che io mi definisco un cronista dell’enogastronomia e non mi passa neppure per l’anticamera del cervello di stilare classifiche. Il che significa che queste centouno trattorie qui raccontate sono quelle che a me sono piaciute, che a me pare abbiano un loro tratto specifico. Ci sono quelle rimaste immutate nel tempo, quelle che hanno cambiato un po’ pelle, e ci sono anche i nuovi locali che sono una nuova versione dell’osteria. Ma per tutte ho cercato di individuare almeno tre caratteristiche: l’identità, l’autenticità e la qualità. Devo dire che questa ricerca è stata anche profittevole per capire come si sta evolvendo Milano. Una città che per definizione è in continuo movimento: che ha inventato il rito dell’aperitivo, che si innamora degli etnici, che ha i ristoranti più cari d’Italia e poi è stracolma di fast food e di self-service, che ha le disco-bar-enoteche (e mi chiedo cosa si possa capire del vino con la musica a diecimila decibel), che ha ristoranti che propongono la cucina di tutte le regioni d’Italia e di mezzo mondo. Ebbene, in tanto bailamme gastronomico ho scoperto che piano piano le osterie, o le trattorie classiche, o le riedizioni in chiave contemporanea di entrambe stanno tornando a nuova vita.
Non so dire se sia effetto della crisi, o di un certo ripiegamento intimista che ci ha preso un po’ tutti, però pare che il modello osteria stia soppiantando il modello fashion cafè, e sembra che il wine bar stia tornando a essere un luogo di degustazione e non più di ostentazione. Ho sentito dirmi dai gestori delle trattorie e osterie: abbiamo abbassato i prezzi, ridotto la carta, puntiamo sulla cucina di territorio. Vivaddio per me è un trionfo. Ma ciò che più conforta è che il messaggio è passato anche ai clienti, che ora sono più disponibili a cercare la sostanza e a farsi meno abbindolare dalla forma. Se è così, per le osterie e le trattorie c’è nuova speranza.
Ma è tempo che vi parli del libro, vi spieghi come è fatto e come va usato. Prima di tutto vi dirò come è stato concepito. È composto da un elenco di 101 tavole dove il conto è leggero (la media è sui 35 euro con punte al ribasso fino a 15 euro e punte massime, ma saranno al massimo tre locali, fino a 70 euro), la cucina è quella tradizionale, di territorio, e il vino coprotagonista. Un’altra caratteristica a cui ho fatto attenzione è che i locali avessero una loro storicità o un loro valore di socialità, che fossero posti, insomma, dove si può andare per stare insieme (nella tradizione dei trani). Infine ho cercato di stilare questo elenco toccando i quattro punti cardinali della metropoli. Ho inserito anche cinque indirizzi di cintura per chi deve andare agli aeroporti di Linate e di Malpensa. Perché, se si vuole, si può evitare di fare un viaggio o tornare da un viaggio a bordo del solito panino preconfezionato. Per ogni tavola è indicato l’indirizzo, il numero di telefono, il giorno di chiusura, il periodo di ferie, il numero di coperti (e se ce ne sono di esterni) e il prezzo medio per un pasto completo, escluse ovviamente le bevande.
Le schede sono concepite con una tripla attenzione: al locale come struttura, al gestore come personaggio, alla cucina come sintesi di entrambe le cose. Nella scelta ho cercato anche di privilegiare le trattorie e osterie che stanno aperte fino a tardi proprio per restituire a questa Milano che forse ha dimenticato il tempo delle balere, delle latterie, de La vita agra di Luciano Bianciardi (che scrisse il romanzo tra la latteria di porta Ticinese e il Jamaica di Brera) che si può anche «passare la sera scolando barbera in un trani a go go».
Ecco, dunque, potete leggere questo libro in due modi: semplicemente per conoscere delle microstorie di luoghi, uomini e sapori, o per usarlo come baedeker nella navigazione metropolitana alla ricerca di un buon piatto, di un racconto e di un sorriso.
Ora consentite che vi ringrazi di cuore per aver preso in mano queste pagine, ma anche che vi faccia partecipi di un grande grazie che devo al collega Luca Pollini, che si è fatto carico di fare scouting nella sua Milano per verificare le indicazioni, scovare le storie, testare i locali. Senza di lui questo libro non sarebbe stato possibile. E un altro grazie lo devo a Petra Carsetti: senza di lei questo libro sarebbe stato meno preciso, meno efficace. A lei è toccato l’ingrato compito di verificare tutte le informazioni riguardo agli indirizzi. Come al solito è possibile che ci siano errori, che ci siano stati mutamenti tra quando ho redatto il libro e quando voi lo state leggendo. Se capita perdonatemi: io ci ho messo il massimo scrupolo per far sì che questo 101 trattorie e osterie di Milano fosse, se non pari, almeno degno dell’opera – inarrivabile – di Barigazzi. Che tuttavia aveva lasciato un vuoto. Non credo di averlo colmato, ma forse ho aggiunto un posto a tavola. Che spero voi vogliate occupare con la consapevolezza delle informazioni che qui vi ho dato e con la levità d’animo di quei sabati sera quando basta una chitarra, un bicchier di vino e un po’ di risotto per scoprire che la vita è bella!
CARLO CAMBI
1.
RELAX A FUOCO LENTO
AI 3 CAMINETTI
via Cannizzaro 6 • tel. 02 48202237
anna@ai3caminetti.com • www.ai3caminetti.com
Coperti: 115 + 80
Chiusura: martedì • Ferie: agosto
Carte di credito: sì • Prezzo medio: 45-55 euro
Un posto caldo dove coccolarsi. Sì, questo è Ai 3 Caminetti, dove i caminetti ci sono sul serio, a riscaldare due sale molto accoglienti dove spiccano gli antichi mobili, le sedie impagliate e in legno, i tavoli ben disposti e distanziati. Il servizio puntuale e cortese e i toni del cotto del pavimento e dei mattoni faccia a vista contribuiscono all’atmosfera da casa rurale. Si dice che qui, esattamente qui, vi fosse già nel Cinquecento una locanda, punto di ristoro per gli avventori, i viandanti e i loro cavalli. Allora era fuori dalle porte di Milano; ora invece siamo a due passi da uno dei luoghi cospicui della città: nei pressi di San Siro, e precisamente all’angolo tra via Cannizzaro e via Fratelli Zoia. L’edificio è molto articolato con strutture in diversi stili, unite da un arco che si poggia
sopra un cancello in ferro battuto, ingresso per il delizioso giardino fatto di alberi, piante rampicanti, edera, rose e ortensie. Lo stile della casa
è quello di non lasciare che il tempo vada troppo velocemente: lo testimoniano le vecchie bottiglie, ma lo dice apertamente anche il clima che si respira poiché tutto è rilassante, come appunto in un tempo sospeso. Nelle due sale – una più ampia e l’altra più intima, ideale per cene romantiche o pranzi di lavoro – trovate belle travi (originali) in legno al soffitto, tavoli perfettamente apparecchiati, servizio cordialissimo e professionale. In cucina ci sono due chef: Tina e Valentino (Tina e Tino! Sarà destino?). La prima è di origine pugliese mentre il secondo è nativo locale, un lombardo DOC. E si sente nei piatti, perché da una parte vi è una certa solarità, dall’altra spessore. Particolare niente affatto trascurabile è il giardino, che nella bella stagione offre ai clienti l’opportunità di cenare sotto le stelle mentre (e a Milano sembra un plus assai apprezzato) per i più impazienti c’è anche il parcheggio interno garantito. La proposta, oltre che alla carta, si articola su altri tre menu: c’è il Gelsomino, che è un misto di carne e pesce, e prevede tra gli antipasti il prosciutto crudo di Parma e di cinghiale, il salame nostrano, lo speck, l’insalata di mare, il pasticcio della casa e i gamberetti con la rucola, tra i primi un risotto, le pipe Ai 3 Caminetti, i ravioli di carne fatti in casa, un secondo di pesce, uno di carne, come il traversino di vitello al forno o il roast beef all’inglese, e per finire formaggi, torta e frutta. Il menu Margherita invece è più di tradizione lombarda e tutto di carne, con la selezione di prosciutti e salumi locali, l’involtino di fesa al caprino e rucola, il pasticcio della casa e l’insalata russa; con un paio di primi, e poi un misto di arrosti di carni alla brace come la salsiccia, la costoletta di agnello, il filetto mignon di cavallo o di manzo accompagnati dai contorni, per chiudere sempre con formaggi, torta e frutta. Infine il menu Orchidea, a base di pesce fresco, con fantastici antipasti come salmone affumicato, insalata di gamberetti e rucola, polpo lesso con patate, cocktail di gamberetti, storione olio e limone, aragosta alla catalana; e poi risotto alla marinara, sedanini al salmone, branzino al cartoccio con patate al vapore, calamari e gamberetti fritti o gamberoni alla brace per chiudere con formaggi, torta e frutta. Tutti e tre i menu degustazione includono il caffè, l’acqua e il vino. Ovviamente potete scegliere anche alla carta. Tra le specialità dei 3 Caminetti potete optare per il cinghiale in salmì con la polenta (non mancano infatti piatti a base di selvaggina), l’agnello arrosto, il fagiano al cognac o l’oca in umido. Tra i primi piatti sono da segnalare le pipe Ai 3 Caminetti, i ravioli di carne (fatti in casa come tutte le paste) in salsa di noci, il risotto allo champagne. Da non perdere in stagione sono i piatti a base di funghi freschi: una vera goduria. Anche la scelta dei dessert è di impostazione casalinga. La cantina è misurata ma ha buoni spunti. Il resto è un tranquillo conversare in una vecchia casa di buon gusto.
2.
UNA BOMBONIERA DEL GUSTO
AL BACCO – ANDREA CAROLA
via Marcona 1 • tel. 02 54121637
Coperti: 30
Chiusura: domenica; a pranzo • Ferie: variabili in agosto
Carte di credito: sì (no American Express) • Prezzo medio: 35-45 euro
Là dove c’era un bar ora c’è una tavola di gusto il cui biglietto da visita recita così: Al Bacco – Andrea Carola – Cucina, Vini e Tradizione
. Andrea Parapini, formato alla scuola di Sadler, ha gettato insieme alla moglie Carola De Paoli il cuore oltre l’ostacolo e ha deciso di farsi ristoratore in proprio. Il locale è piccolo – la giusta dimensione per uno chef da one man show – ma molto gradevole e accogliente. Il punto di forza sta nella spontaneità della cucina: pochi piatti, ma tutti perfetti. Grande esaltazione della materia prima, nettezza nelle preparazioni e sapori ben amalgamati. Insomma, destinato al successo. Che già in poco tempo si è consolidato, merito anche di Carola che è perfetta nell’accogliere gli ospiti, puntualissima nel servizio, affabile nel consigliare i vini e soprattutto molto, molto cordiale. Piuttosto che andare al ristorante sembra di andare a cena a casa di vecchi amici. Anche perché, a dir la verità, Al Bacco proprio un ristorante in senso classico non è. È un posto – non lontano da piazza Cinque Giornate - dove si va per incontrarsi, per vivere momenti di relax, per condividere certo il piacere del cibo, ma soprattutto per far sì che il tempo scorra sulle note lievi del gusto. L’ambiente è accogliente, costituito da un’unica sala arredata con dei piccoli tavoli quadrati di legno, apparecchiati con tovagliette all’americana e tovaglioli in carta. Una sosta che va conquistata, data l’esiguità dei coperti, ma che una volta trovato posto (è quindi consigliatissima la prenotazione) può deliziare con una proposta culinaria degna di grande considerazione. Dalla cucina emergono sapori leggeri e delicati con la formula – diciamo così – del cinque (circa cinque opzioni per ogni portata). C’è molta rotazione però e il menu è assolutamente stagionale. Tra gli antipasti (il punto di forza del locale) provate i salumi con la soppressata, il salame di cervo – quasi impossibile da trovare – e lo strologhino, che è una sorta di piccolo salame tipico della zona di Parma e Piacenza, fatto con le rifilature magre del culatello e del fiocco di prosciutto. Da non disdegnare neppure il baccalà mantecato accompagnato dalla polenta: una perfetta esecuzione che neppure a Vicenza sa essere così corposa e insieme leggera. Tra i primi (sempre con porzioni più che soddisfacenti) potete provare la pappa al pomodoro, oppure le tagliatelle (le paste sono fatte in casa) che saranno condite secondo la proposta del giorno, e poi le pappardelle, gli gnocchi, i cavatelli, le lasagnette. Ovviamente non manca il tradizionalissimo riso al salto, e c’è l’omaggio alla Valtellina con i pizzoccheri. Tra i secondi ecco la cotoletta alla milanese, un ottimo fegato alla veneziana, un buon brasato al Barolo e una cassoeula d’oca incantevole. Molto sfiziose sono le polpettine di baccalà, come tutte le pietanze di pesce (che ovviamente non sono così frequenti in menu). Anche i dolci variano continuamente con citazioni non solo ambrosiane. Certo, la sbrisolona è da applausi, mentre la crema bruciata, divenuta ormai un classico, è un modo più che sicuro per chiudere in dolcezza. Non sconfinata la cantina, ma comunque di classe, con proposte a bicchiere che vengono scritte sulla lavagna appesa alla parete o segnalate a voce dalla padrona di casa
, grande appassionata di enologia. E potrete dire di essere andati a cena da Carola e Andrea come se steste parlando dei vostri amici del cuore. In una città come Milano, che consuma in fretta gli affetti, non è certo un valore aggiunto trascurabile.
3.
A CASA DELLE RANE
AL GARGHET
via Selvanesco 36 • tel. 02 534698
info@algarghet.it • www.algarghet.it
Coperti: 80 + 70 Chiusura: lunedì; a pranzo, tranne la domenica
Ferie: una settimana a Ferragosto e una a Natale
Carte di credito: sì (no Diners) • Prezzo medio: 35-40 euro
Per capire che state per entrare in quella che Emanuela Cipolla, la proprietaria di questa osteria, chiama la terra di mezzo
, bastano le sue parole: «Mi innamorai subito di questo posto, ne sentii l’anima. Perché l’aveva già un’anima, carico com’era di storia; era quello che cercavo». Ognuno di noi può andare alla ricerca di un suo altrove. Non necessariamente in un luogo fisico. Ma certo è che se vi spingete fin qua alla casa delle rane, alla periferia sud di Milano, dove la campagna ancora ha diritto di cittadinanza, sentirete che state per approdare in un vostro altro. Si lasciano da parte le frenesie metropolitane, si possono ascoltare i canali che scorrono, vedere le folaghe, ma soprattutto si può rientrare in intima confidenza con il tempo. Che è insieme infinitamente remoto e presentissimo. Siamo qui Al Garghet (in dialetto milanese vuol proprio dire il gracidare delle rane) in uno degli angoli più antichi del gratum solium. Ci sono tracce antichissime di insediamenti in questa zona, ma si sa che a partire dal XII secolo alcune comunità di monaci tennero qui badia e contado. Se di questi monasteri si sono perse le tracce, è invece rimasta in piedi la casa delle rane, che oggi è diventata una fantastica osteria, la terra di mezzo
di Emanuela. Questo edificio fu prima sede del campè, l’ufficiale spagnolo che regimava le acque delle risaie e dei canali, poi divenne gendarmeria, fornace, e infine balera. Abbandonato, è tornato a nuova vita da quando è rinata l’osteria. Che è un posto davvero unico. Piacevolissimo soprattutto in estate, quando il resto di Milano suda, mentre qui a sera si possono godere profumi di campagna e brezze di pianura. Ha uno splendido giardino con un pergolato, al riparo del quale sono sistemati tavoli in legno e un paio di alcove
in pietra: ecco perché venire qui nella bella stagione significa godersi un’atmosfera d’incanto. Che è data dalla campagna, dai fiori, dalle essenze che popolano questo spazio verde a pochissimi chilometri dal caos metropolitano. Ma anche in inverno la trattoria offre suggestioni: ci sono tre belle salette con i mattoncini a vista e una in particolare, quella del camino, con una finestra che illustra il dehors, ha intimità, calore e senso di accoglienza invidiabili. Vi siederete su poltroncine old style e pranzerete ai tavoli ben distanziati, ricoperti di tovaglie a quadri. A rendere ancora più intimo l’ambiente ci pensa il pianoforte (candido, dal suono caldo) sul quale ogni sera un maestro di musica si esibisce in un repertorio che va dal cameristico al contemporaneo. Stessa