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ÈDOLCE, INTENSO E ASPRO allo stesso tempo. Dona equilibrio, intenerisce e ha anche proprietà curative. Una descrizione che potrebbe facilmente riassumere la complessità dell’amore. E invece, in questo caso, sto parlando del tamarindo, il versatile ingrediente che ravviva e mette in risalto tutto ciò che tocca. Il tamarindo riesce a inserire una provvidenziale nota acidula nel più zuccheroso dei dessert e a infondere una deliziosa, dolce asprezza in piatti piccanti e saporiti che poi soddisfano tutti i commensali. Quanto ti amo, tamarindo? Ora ve lo racconto.

Sono sempre stata una fan dell’agrodolce. Grazie alla mia discendenza in parte indonesiana, considero il tamarindo uno dei capisaldi della mia cucina; uso molto il frutto carnoso, simile a un baccello, in zuppe come la ikan kuah asam (Zuppa timorese di pesce e tamarindo, ricetta a pag. 95), per insaporire la salsa di arachidi o il piccante condimento al peperoncino chiamato sambal, e in una serie di piatti agropiccanti conosciuti come asam pedas, a base di tamarindo e peperoncino. In svariate culture gastronomiche è un ingrediente comune quanto il lime o il limone, ma il tamarindo ricopre spesso funzioni ancora più significative.

Originario dell’Africa, l’albero di tamarindo viene coltivato da migliaia di anni nelle aree tropicali del pianeta, tra cui l’Asia, i Caraibi e l’America centrale e meridionale. Può arrivare a 24 metri di altezza e vivere fino a 200 anni, con un rendimento di oltre 170 chili di frutta ogni anno. Le fronde dell’albero di tamarindo creano una copertura d’ombra simile a quella delle felci, grazie alle foglie quasi piumate che si aprono al mattino e si chiudono di sera. Un membro della famiglia dei piselli (Fabaceae), quest’albero delle leguminose produce un frutto pendente racchiuso in un baccello sottile e bulboso, simile a un dito di colore marrone chiaro, bitorzoluto e lungo tra i 10 e i 20 centimetri. All’interno c’è la polpa, una massa appiccicosa e fibrosa dalla consistenza simile a quella dei datteri, rivestita da venature e filamenti che proteggono fino a una dozzina di semi, a seconda di dove viene coltivato.

Nessuna parte di questo sempreverde va mai sprecata e la sua versatilità contribuisce alla sua magia. Nei secoli, la letteratura ne ha immortalato la bellezza (Edgar Allan Poe scriveva di «un sogno estivo sotto l’albero del tamarindo»), e molte culture addirittura lo venerano. Quest’albero, ad esempio, è sacro per il popolo Bambara del Mali, dove è simbolo di abbondanza e rinnovamento. In Birmania, alcuni lo ritengono la dimora del dio della pioggia e nel buddismo rappresenta fedeltà e tolleranza. Se il legno del tamarindo è perfetto in falegnameria, la sua polpa può servire a lucidare gli ornamenti di metallo dei templi buddisti. In India, le foglie vengono infuse in tisane che alleviano il mal di gola, oppure impiegate per dare un tocco fresco e aspro ai curry e ai chutney, mentre i semi vengono macinati e usati come agente lievitante per il pane. Nei Caraibi, invece, questi sono semplicemente tostati e sgranocchiati come snack.

Uno dei pregi del tamarindo è che sprona i cuochi amatoriali a imparare l’arte del bilanciamento dei sapori

Nonostante si possano utilizzare tutte le parti dell’albero, è il frutto

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