VIVIAMO UN’EPOCA sovraffollata di segni e messaggi. Ogni giorno decodifichiamo una massa impressionante di pittogrammi e simboli e leggiamo l’equivalente di 34 gigabyte di testi (pari a un intero romanzo).
I marchi registrati nel mondo hanno superato i cinquanta milioni, senza contare la mole infinita di quelli non coperti da brevetto. Spendiamo una parte importante del nostro tempo (e anche dei nostri soldi) in uno spazio immateriale, oltre quello fisico che ci ospita realmente, in una condizione di illusoria ubiquità…
Tutto questo ha moltiplicato in maniera iperbolica il numero delle interazioni, modificando di conseguenza i comportamenti: nella virtualità della relazione, si è acuita la frattura tra l’essere e l’apparire, dando vita a vere e proprie messe in scena, che sembrano trasformare il mondo in un infinito teatro, dove tutti siamo attori e spettatori al tempo stesso.
È come se, d’un tratto, gli esseri umani avessero deciso di trasformarsi in brand, evocando mondi possibili, di cui sono essi stessi simbolo. La domanda viene perciò spontanea: se tutto diventa brand, cosa diventa il brand? La risposta va cercata dentro l’intricato binomio realtà-rappresentazione, che ha fatto la sua comparsa sulla terra insieme ai nostri più lontani