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AI-Work: La digitalizzazione del lavoro
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E-book392 pagine5 ore

AI-Work: La digitalizzazione del lavoro

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Le tecnologie digitali rappresentano una sfida dal punto di vista della loro interpretazione teorica. L’umanità si trova di fronte ad un passaggio storico o il quadro rappresenta l’«evoluzione» di una tendenza che non modifica il senso dei processi? Le trasformaCi sono passaggi della storia in cui si aprono scenari che vanno oltre le generazioni in vita. L’invenzione della scrittura, la messa a punto del metodo scientifico, l’uso dell’elettricità, sono esempi di tali discontinuità che, pur «dirompenti», nell’epoca della loro introduzione non furono percepite come «punti di non ritorno». zioni nella produzione e nel lavoro rappresentano il luogo privilegiato per comprenderne il senso. Il libro affronta il nodo di questo dibattito con un vero e proprio confronto teorico tra letture diverse, e in parte divergenti, delle conseguenti necessità per la politica e l’agire umano. Bellucci descrive il passaggio come epocale da una formazione economico-sociale ad un’altra, una Transizione. Per l’autore è in atto una vera e propria «rottura di civiltà e di senso», come quella che segnò il tragitto dall’era della società agricola a quella della società industriale. I contributi degli altri autori ingaggiano un confronto teorico che rimane aperto e darà al lettore strumenti per maturare la propria idea sul passaggio storico.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita1 giu 2021
ISBN9788816802940
AI-Work: La digitalizzazione del lavoro
Autore

Sergio Bellucci

Saggista e pubblicista, è stato presidente del quotidiano «Liberazione», dirigente sindacale e politico. È tra i fondatori di «Net Left». Ha pubblicato E-work. Lavoro, rete e innovazione (2005). Insieme al fisico Marcello Cini ha scritto Lo spettro del capitale. Per una critica dell’economia della conoscenza (2009). Nel 2019 è uscito L’industria dei Sensi.

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    Anteprima del libro

    AI-Work - Sergio Bellucci

    AI-WORK – IL LAVORO DOPO IL DIGITALE

    Sergio Bellucci

    Sono passati più di quindici anni dall’uscita di E-work. Lavoro, rete, innovazione e questo testo vuole raccogliere alcune riflessioni sulla condizione e le tendenze circa il lavoro dopo la prima fase di inoculazione del digitale nella produzione. Questa riflessione collettiva è partita prima della grande crisi pandemica del Covid-19 e si chiude con la crisi in atto, almeno nella sua prima fase, quella dello shock emotivo del contagio, della chiusura delle attività produttive imposte dai governi e delle prime domande sul: Che fare?

    Queste riflessioni, però, ci dicono molto su ciò che erano i processi in atto e su ciò che ora si sta preparando. Come vedremo, infatti, molte delle apparenti novità, nelle forme dell’organizzazione del lavoro che si sono velocemente incrementate o rese visibili in questi mesi, erano, in realtà, già in atto da tempo. Queste riflessioni saranno importanti per consentire di comprendere il nuovo che sta emergendo connettendone i nessi con i processi che l’hanno preceduto.

    La riflessione poggia sulla speranza di comprendere il senso complessivo dei processi che si avviano e di saperne indirizzare gli esiti verso l’emersione di una consapevolezza che sappia orientare movimenti, riorganizzazioni e capacità di conflitto, in grado di indicare le possibilità di una liberazione della vita umana dai meccanismi di sfruttamento e alienazione, caratteristici del modello di società precedenti, rendendo compatibile la presenza dell’umanità nei cicli vitali del pianeta.

    Quindici anni fa si dispiegava, in modo rapido ed esponenziale, un processo di matematizzazione del reale capace di ri/descrivere interamente non solo le forme del fare lavorativo e quelle delle relazioni personali e sociali, ma sviluppava la propria potenza in ambiti fino ad allora impensati, come quelli relativi allo stesso percorso dell’evoluzione della specie umana e della vita sul pianeta. Un divenire del processo di matematizzazione del reale che si candida alla costruzione di un vero e proprio gemello digitale del reale in grado di intervenire sia nella catena di produzione del valore, sia in quella della distribuzione e del consumo e di aprire la potenziale realizzazione di ambiti di vita completamente virtualizzati. Produzione, lavoro, relazioni, conoscenza, estensione delle capacità d’intervento del fare umano: tutto sembra dilatarsi e accelerare, andando a costituire un confine d’intervento che è, al contempo, sia enormemente esteso sia assolutamente invalicabile. Una nuova sfera info-cognitiva, una nuova cornice di senso dell’essere, in grado di travolgere forme sociali e produttive, istituzioni politiche e religiose, forme di rappresentanza sociale, di relazione e d’interpretazione del sé e del mondo. Una tendenza che l’attuale rottura rappresentata dalla nuova fase di crisi dei vecchi equilibri produttivi del valore, mascherata dalla pandemia del Covid-19, ma già ampiamente annunciata da tutti gli osservatori economici, sta accelerando in maniera dirompente, azzerando forme di resistenza e consuetudini consolidate.

    È quella che, un quindicennio or sono in E-work, definivo come l’ubiquità del digitale, una qualità non compresa dai più che, al massimo, affrontavano e affrontano il passaggio del digitale o come una semplice stratificazione tecnologica su un assetto della vita che sarebbe rimasta immutata o come il susseguirsi di una normale fase di avvento di nuova tecnologia, un passaggio come altri già fatti nel nostro passato. Pochi compresero la differenza tra le tecnologie del passato, in grado di moltiplicare il fare delle mani, e le tecnologie sviluppabili con la digitalizzazione, in grado di moltiplicare anche il fare del nostro cervello. Una ubiquità che si somma a una velocità che è caratterizzata dalla potenza della logica esponenziale. Un mix qualitativo che sfugge alla comprensione sociale e politica e che sembra produrre un inedito braccio di ferro per il ponte di comando futuro delle nostre società: da un lato, i vecchi poteri della finanza e dell’industria classica, con le loro istituzioni nazionali e sovranazionali concentrate a controllare i meccanismi di gestione del loro conflitto di interessi interno allo scambio e, dall’altro fronte, le grandi Corporation Digitali (quelle chiamate OTT, gli unicorni del mondo digital che ormai non possono essere più rappresentate solo dal gruppo di testa di Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft ma da un vero e proprio esercito produttivo nuovo) dirette dalle logiche della tecno-scienza, non regolamentabili attraverso le vecchie forme decisionali e istituzionali della fase storica precedente. Certamente le une e le altre dialogano e si scontrano come sempre è accaduto nelle grandi fasi di Transizione. Interessi trasversali si sommano a divergenze d’interesse strategico. Nulla di nuovo nelle fasi di Transizione che risultano essere ambigue per definizione stessa. Quello che è necessario, in fasi come queste, è comprendere sia la prevalenza sia la tendenza, non necessariamente per aderirvi, ma per essere coscienti delle forze in campo, delle tensioni che attraversano i processi e le stesse dislocazioni sociali delle classi in campo. Naturalmente, come in ogni grande fase di passaggio storico, esistono gli schieramenti che negano la fase (per ricondurla tutta negli schemi precedenti), quelli che la sottovalutano e quelli che tendono a recidere il passato tentando una sorta di cortocircuito nella storia. Anche per chi si candida a guidare le mosse delle classi subalterne. Ad esempio, la storia politica dell’Ottocento, quella caratterizzata dall’ultima Transizione di formazione economico-sociale, è piena di letture fuori centro rispetto ai processi egemonici in atto. La situazione attuale, inoltre, risulta vieppiù complessa per la potenza delle strutture che vedono terremotata la loro base di valorizzazione e per la forza degli apparati statuali che tali interessi hanno generato in duecento anni di storia. In alcuni casi, come per gli USA e per la Cina, le forme istituzionali esistenti, che pure hanno allevato al loro interno lo sviluppo del nuovo, provano a restare in sella ai processi che li stanno mettendo in discussione, processi che loro stessi hanno fatto nascere, hanno garantito e difeso, pensando di poterne governare gli esiti e che ora non sembrano in grado di arrestare nel loro autonomo sviluppo.

    A osservare dall’esterno, infatti, la società contemporanea risulta separata in due grandi schieramenti: il primo, quello composto da chi, nato prima dell’avvento del digitale, sembra incapace di comprendere il "senso qualitativo di questo passaggio. Incapace di leggerne le caratteristiche, piega i processi in atto all’interno degli schemi precedenti, invocando una sorta di fedeltà agli schemi di lettura pre-esistenti. Il secondo, quello nato dopo l’affermarsi nella società del digitale, che assorbe in maniera acritica il dilagare della sua logica e della sua potenza. Incapace di vedere un orizzonte non matematizzato" si appiattisce intorno alla sfera di senso e di vita che le tecnologie digitali propongono in sovrabbondanza rispetto alla capacità sensoriale, fisica ed economica.

    Quello che manca è una lettura critica che non sottovaluti né si appiattisca, mantenendo salda la prospettiva, che non è il ripristino di una società basata sullo sfruttamento del lavoro salariato (che non si esaurisce nella fase rivendicativa di un buon salario, di un orario che lasci spazio alla vita non produttiva né di consumo e di diritti democratici nel luogo di lavoro), ma il suo superamento verso una società dei liberi produttori associati.

    Siamo in presenza, invece, di un’accettazione del digitale che avviene o per incomprensione e sottovalutazione della sua portata qualitativamente nuova, o per scambio del suo paradigma, del suo portato ideologico, come l’ambiente naturale dell’umano. Quando si pensa o si parla del digitale, infatti, i più fanno riferimento a ciò che si può fare con uno smartphone, all’ultima APP o, alcuni, alle fantascientifiche performance delle macchine robotiche più avanzate. Pochissimi si accorgono del passaggio di potenza che ha investito il fare umano quotidiano, abilitato, in ogni campo, dalle strumentazioni digitali.

    Solo pochi decenni or sono, ad esempio, non conoscevamo neanche l’esistenza del DNA. Dopo solo qualche anno di ricerca, realizzata proprio grazie alle strumentazioni abilitate dal digitale, assistiamo alle pratiche d’intervento sul codice genetico di embrioni umani in grado di modificare, in maniera permanente, lo stesso percorso evolutivo del singolo individuo e della stessa sua discendenza. Le cronache del 2019, ad esempio, raccontano della nascita di almeno tre individui della nostra specie geneticamente modificati (per resistere alle infezioni da HIV). Una pratica che ha condotto a una condanna del medico che ha realizzato l’intervento (tutto sommato lieve, in relazione alla portata storica dell’evento), ma che più che rappresentare un argine sembra essere solo il prodromo di una valanga in grado di travolgere gli assetti evolutivi della vita. Immaginate quando tra poco un’azienda biotech offrirà la possibilità (almeno presunta) di rendere il nostro DNA o quello dei nostri figli, immune al COVID-19, ai Corona-virus o qualunque altra capacità di resistenza a malattie. Oppure a modificare il DNA per ridurre il fabbisogno di ore di sonno o aumentare la capacità di un nostro senso o ringiovanire le nostre cellule. Dalla creazione di batteri utili a scopi industriali o d’interventi ambientali, siamo ormai giunti alla creazione di DNA completamente artificiali e di modifiche di specie vegetali, animali per giungere allo stesso DNA umano.

    Nel febbraio del 2019, il fisico Freeman Dyson, morto nel febbraio del 2020, pubblicava sulla rivista «Edge» un saggio dal titolo: Evoluzione Biologica e culturale. Sei personaggi in cerca d’autore (Dyson, 2019). Quel saggio si apriva con le seguenti parole:

    Nel prossimo futuro, saremo in possesso della tecnologia di ingegneria genetica che ci permetterà di spostare i geni con precisione e in maniera massiccia da una specie all’altra. Un uso sbadato o puramente commercialmente guidato di questa tecnologia potrebbe rendere il concetto di specie insignificante, mescolando popolazioni e sistemi di accoppiamento così che gran parte della individualità di specie sarebbe perduta. L’evoluzione culturale ci ha dato il potere di farlo. Per preservare la nostra fauna selvatica per come l’evoluzione naturale l’ha selezionata, il meccanismo dell’evoluzione biologica deve essere protetto dagli effetti di omogeneizzazione derivanti dalle capacità accumulate dall’evoluzione culturale della specie umana.

    Ecco, questa è la discontinuità introdotta dall’avvento del digitale: un salto quantico, nel fare e nel conoscere, che ri/descrive le forme dell’abitare umano sul pianeta. Immaginiamo cosa si potrebbe scatenare nel momento in cui i confini tra i DNA delle specie saranno abbattuti, se il salto di una piccolissima frazione di aminoacidi all’interno di una catena ha potuto scatenare la pandemia del Covid-19. Queste possibilità, inoltre, non sono le sole e oggi sappiamo che non sono più fantascienza. A queste potenzialità, ad esempio, si sommano i processi di robotizzazione, di Intelligenza Artificiale, lo sviluppo dell’auto-apprendimento delle macchine che alludono all’emersione di un vero e proprio nuovo continente abilitato dalle potenzialità che discendono dalle qualità intrinseche del digitale: ubiquità ed esponenzialità. Spesso tale ovvietà viene sottaciuta, forse perché troppo… evidente per chi partecipa ai processi della tecno-scienza e, al tempo stesso, incomprensibile ai più che subiscono il processo in maniera inconsapevole.

    Troppi umanisti ignorano le qualità del mondo nuovo che abitano e si sforzano a ricondurlo dentro gli schemi precedenti, quelli a loro noti; troppi tecno-scienziati utilizzano e creano nuovi strumenti e conoscenze senza porsi le domande necessarie sull’umano e la sua permanenza su questo pianeta. Su tutto ciò, oggi, la logica di mercato sembra restare sola al comando, a meno che…

    La Tramoggia Digitale ovvero la sussunzione del reale

    In apertura di E-work parlavo, come ricordavo all’inizio, di una delle caratteristiche fondamentali del digitale, cioè la sua ubiquità. Nessuna delle attività umane sembra esserne immune. Tutto viene ri-descritto, passato al setaccio matematico della costruzione di quelli che vengono chiamati i Digital Twin, i gemelli digitali dei processi del fare e del reale (caratteristici, nel settore manifatturiero, dei processi che, sinteticamente, vengono chiamati "Industria 4.0").

    Questa vera e propria tramoggia digitale costituisce non solo una selezione coerente di ciò che può essere matematizzato (inglobato, digerito e reso disponibile nella sua nuova forma) o meno, ma distilla i materiali informativi che rappresentano, allo stesso tempo, la nuova materia prima necessaria al fare. L’apparato trasformativo/produttivo/lavorativo e, in maniera incessante, anche la merce, nella sua nuova forma, assumono qualità e fisionomie nuove permanentemente in divenire, esattamente come ci descrive la logica dell’economia circolare. Tutto, nell’era digitale, è, infatti, contemporaneamente merce e materia prima pronta ad essere ri-trasformata. Questo vale in particolare per l’accumulo rappresentato dalla montagna di dati che vengono archiviati e processati incessantemente, ma la sua logica tende ad estendersi in maniera onnivora. L’unica esclusione dal processo si determina per l’impossibilità di un processo di matematizzazione e, in quel caso, emerge ciò che rappresenta, per questa ideologia, il vero residuo.

    Non mi soffermerò qui nella descrizione dettagliata del ciclo produttivo immateriale (Bellucci, Cini, 2009), ma è sufficiente soffermarsi sul ruolo crescente, nell’ambito dell’economia tradizionale materiale, che la componente immateriale ha sia nella determinazione sul e del prodotto, sia sui cambiamenti degli apparati necessari a produrlo, sia nei processi di selezione, commercializzazione e, per finire, in quelli del consumo. Sarebbe utile, da questo punto di vista, integrare la strada aperta dal Premio Nobel dell’economia Paul Romer e analizzare non solo l’apporto che l’informazione contribuisce a iniettare nella produzione, ma anche nella trasformazione dello stesso ambiente sociale, nella forma dello scambio e delle sue garanzie – come negli smart contracts e nelle criptovalute abilitate dalla tecnologia della blockchain – e, come accennato, per le sue ricadute in tutti gli ambiti e sull’evoluzione dei processi vitali.

    La potenza di tale processo, estrapolata al limite delle sue stesse tendenze intrinseche, porterebbe a una possibilità, come accenneremo più avanti, di organizzare la vita senza moneta e con la soddisfazione dei bisogni attraverso la sostanziale produzione diretta di valore d’uso, archiviando la fase, storicamente arcaica, superata e superabile, della produzione di valore di scambio.

    Uno degli errori principali, quindi, è continuare a osservare questi mutamenti soffermandosi semplicemente su due aspetti: o sulla soglia degli effetti che producono all’interno del settore manifatturiero o sui cambiamenti che avvengono nella forma delle relazioni individuali derivanti dall’uso dei social network. È il mondo che è investito dalla logica digitale!

    Questo approccio miope è l’errore più grande commesso dagli economisti (quei pochi che si interessano agli aspetti anche qualitativi dei processi innescati dal digitale), dai politici (che si occupano solo di come affinare gli strumenti di costruzione del consenso che derivano dall’uso di alcuni degli applicativi per la loro propaganda) e degli umanisti (che si illudono di esorcizzare la portata della trasformazione sulla base di un ritorno ai vecchi fondamentali, quelli di cui si sentono interpreti e garanti).

    Il processo, infatti, è molto più complesso ed entanglement con l’intero ambiente del vivibile, al punto di essere definibile come un vero processo di terraformattazione del reale¹. Quello che sta vivendo l’umanità (e il pianeta con essa) è una vera e propria discontinuità, un salto di qualità, una vera e propria biforcazione per come Prigogine² la intendeva. La freccia del tempo, infatti, scorre in maniera più o meno lineare all’interno di regole per lunghi periodi per poi incontrare un crocevia. L’evoluzione di un determinato sistema che, vissuto dall’interno, sembra immutabile ed eterno, lo porta a un punto in cui la sua evoluzione passa per una scelta, per un bivio. Quel crocevia rappresenta un’alternativa sistemica: una volta intrapreso uno dei tanti sentieri che ci si dispiegano davanti, quel sentiero avrà in sé le nuove regole del gioco, le nuove leggi del fare, i nuovi principi di funzionamento generale, sistemico. L’avvento del digitale rappresenta una biforcazione: su quale strada ci indirizzeremo dipenderà dalle idee, dalla forza e dalla consapevolezza dei gruppi dirigenti umani che governeranno il passaggio. La crisi legata alla diffusione pandemica del COVID-19, da questo punto di vista, rappresenta solo la cartina al tornasole in grado di misurare ritardi ed eccellenze, di spingere in avanti i processi e rimuovere ostacoli, determinando un nuovo punto di equilibrio generato senza la consapevolezza politica, un processo decisionale democratico e rappresentativo, senza la complessità rappresentata dalla dimensione della politica.

    È questo il tema della Transizione. Un passaggio di formazione economico-sociale che investe non solo la produzione di ricchezza (individuale e collettiva), l’economia e la stessa società umana (che, come ci annunciava il Gramsci di Americanismo e Fordismo, forgia l’uomo di cui necessita per il ciclo della sua riproduzione), ma che si candida a riscrivere i codici genetici del vivente, gli equilibri vitali del pianeta, la stessa evoluzione della specie umana. In una fase come questa, è necessaria la lotta per stabilire quale classe e con quale logica di vita dovrà stare al comando dei processi.

    Il Digitale e il Lavoro: Taylorismo Digitale, Lavoro Implicito e/o Operoso

    Questa Transizione, quindi, non si limita a una semplice sostituzione di formazione economico-sociale al comando. C’è bisogno urgente di teoria, di analisi critiche all’altezza, di proposta politica che sappia indicare una strada, qui ed ora. Ancora pochi anni e la Transizione potrebbe generare una nuova classe al comando e nuove forme decisionali, nuove istituzioni, nuove leggi, che stabilizzeranno la loro nuova egemonia.

    All’interno di questa Transizione in atto, se si vuole mettere a fuoco il tema del Lavoro, occorre, in primo luogo, cercare di comprenderne le trasformazioni di fondo e fuoriuscire dal trantran del dibattito quotidiano. Nelle fasi di transizione, infatti, qualunque esercizio e impegno di stampo "continuistico – anche fatto in buona fede e con l’idea di essere concreti e realisti e di dare risposte tangibili immediate" – si risolve o nell’impraticabile e illusoria scelta conservatrice di far tornare le lancette della storia all’indietro (come se alle spalle avessimo una età dell’oro) o nella produzione di uno slittamento temporale che aumenta la portata dei problemi da affrontare e rischia di rendere marginali proprio gli interessi sociali dei più deboli che si pensa di voler difendere.

    Per essere realmente concreti, potrà sembrare un paradosso, occorre un passaggio di tipo strategico, una lettura che sappia individuare tendenze e prospettive sulle quali intervenire, lavorando per imporre gli esiti che ci si prefiggono, nel quadro dei panorami del possibile disponibili nella biforcazione. È una condizione metodologica che spesso non viene compresa da chi si lascia trasportare dalle consuetudini, dalle incrostazioni del fare, dalle risposte automatiche che sono state (almeno in parte) valide fino a ieri e che invece, nel momento, impediscono di essere all’altezza del confronto e delle scelte necessarie a difendere proprio quegli interessi che si pensa di continuare a tutelare, usando le vecchie modalità. È una deriva comprensibile, quasi una condizione naturale quella di ripercorrere le stesse strade, ma esse, in epoche diverse, conducono a risultati inferiori e, spesso, non solo contraddittori, ma anche opposti a ciò che in teoria ci si prefiggerebbe. Nei momenti di Transizione occorre tornare ai fondamentali, comprendere il senso degli eventi e indicare nuove strade per tentare di restare fedeli agli orizzonti che si prefiggevano.

    Il tema del lavoro (intendendo, almeno al momento, quello del lavoro salariato), oggi, non è semplicemente inquadrabile all’interno delle due condizioni generali che vengono denunciate: la tendenziale insufficienza a garantire la dignità e la stessa sussistenza (all’interno del modello di vita percepito come normale e giusto) e la sua già difficile redistribuzione, con la sua sempre più marcata riduzione nella sua forma ufficiale del lavoro salariato a tempo indeterminato. I livelli del salario e quelli occupazionali (sia dal punto di vista della loro qualità assoluta e relativa, sia numericamente) riducono progressivamente la copertura del loro impatto sul punto di equilibrio dell’equazione economica del sistema.

    Date le condizioni macro, la riduzione drastica dell’orario a parità di salario, rimane forse l’unica scelta possibile per garantire che il lavoro salariato mantenga una funzione redistributiva generalizzata di ricchezza. Anche realizzata tale opzione (che però è ben lontana da qualunque prospettiva di rivendicazione del mondo del lavoro salariato e delle sue organizzazioni) il tema del lavoro nell’era aperta dal digitale non sarebbe risolto né sul terreno delle necessarie nuove rivendicazioni e né su quello delle potenzialità oltre-capitalistiche che la fase offre.

    L’analisi del lavoro (vedremo meglio nel prosieguo come sia necessario parlare, in realtà, di lavoro nelle sue varie forme storiche) non può essere affrontata solo dal punto di vista di quello che è, oggi, il lavoro salariato (operaio o meno), ma ci obbliga a una sua storicizzazione e a una sua delimitazione nella attività della catena del soddisfacimento dei bisogni, una perimetrazione che lascia trapelare forme nuove di soddisfacimento e che rappresentano il vero terreno dello scontro storico attuale tra capitale e lavoro umano, tra capitale e umanità, tra capitale e gaia. Il capitale, infatti, da un lato lotta incessantemente per inglobare (nel suo schema di funzionamento) tutte le forme di esperienze di soddisfacimento dei bisogni che oggi eccedono la forma mercificata. Queste forme sono prodotte dalle esperienze che i corpi sociali, nel e con il digitale, producono sempre più incessantemente. Esse si collocano già oltre il processo di produzione capitalistico e oltre lo schema del lavoro salariato (la marxiana sussunzione formale). Dall’altro lato, le stesse strutture politiche e sociali del mondo del lavoro salariato, nate all’origine per contrastare il processo di alienazione capitalistica del fare umano, spingono, paradossalmente, per un’inclusione dei soggetti e delle attività extra-mercantili all’interno delle forme salariate, spingono a favorire la sussunzione formale capitalistica. Tutte le forme di produzione collettiva – come la produzione Open Source nel mondo informatico o le forme di soddisfacimento di bisogni relazionali o economie di condivisione, basate sulla possibile esistenza di piattaforme sociali, ma anche le capacità di autoproduzione di beni materiali, rese possibili dalla condivisione gratuita e aperta delle istruzioni necessarie alla produzione e dalle tecnologie di produzione decentrabili, come nel caso delle stampanti 3D – testimoniano come sia oggi possibile il soddisfacimento di un crescente numero di bisogni al di fuori della produzione classica industriale, cioè sotto forma di merci e di lavoro salariato. Vedremo più avanti come queste potenzialità producono la possibilità di generare valore d’uso e rompere lo schema mercantilistico del capitale, generando un’economia dello scambio.

    Figura 1.

    Fonte: Economic Policy Insitute: www.epi.org - https://www.epi.org/productivity-pay-gap/

    Il paradosso a cui assistiamo, però, è che quello che la fase di Transizione fa emergere come realtà autoprodotta dalle esperienze sociali, quello che si genera di oltre-capitalistico nell’esperienza concreta del fare nella società, viene stretto da una sorta di tenaglia che spinge a una conversione di queste forme in quelle canoniche dell’alienazione e dello sfruttamento capitalistico del fare umano: da un lato la logica e la potenza dei meccanismi capitalistici e, dall’altro, l’attività di difesa sociale (in particolare dei sindacati) che dietro l’apparente difesa dalla disumanità dell’alienazione capitalistica, lotta per ricondurre quelle forme alla condizione salariata, schiacciando l’individuo verso una ennesima condizione di sudditanza alla logica capitalistica.

    Non dobbiamo pensare, però, a una lotta totalmente contro corrente, anzi. Le tendenze in atto ci fanno dire che la necessità di ristrutturazione della produzione capitalistica globalizzata potrebbe essere piegata a una dimensione sociale più facilmente di quanto non si pensi.

    Due economisti francesi come Olivier Bargain e Jean-Marie Cardebat, in un forum tenuto presso «Le Monde» nel maggio 2020, stimano che la riconversione locale delle economie sarà obbligata dalla crescente richiesta di confini da parte dei cittadini e dalla potenza delle nuove macchine digitalizzate. La ristrutturazione economica, inoltre, avrà un costo colossale e produrrà economie meno dipendenti dall’esterno. Secondo i due economisti: Il futuro modello economico e industriale dovrà funzionare in maniera contraria rispetto a quello attuale, quello che morirà con il Covid-19. Promuoverà i cortocircuiti, aumenterà il numero di piccole unità produttive che collegano i territori in modo più fine. L’attuale uso massiccio di stampanti 3D per produrre e superare localmente l’interruzione delle catene del valore è un segnale di avvertimento di questo nuovo modello industriale, agile, reattivo, locale. Questo modello farà rivivere la nozione di distanza in un mondo iper-globalizzato che si era liberato da esso. Farà emergere risposte e beni diversi da una regione all’altra per soddisfare la stessa esigenza, poiché le risorse disponibili saranno diverse da un territorio all’altro. Favorirà le periferie più delle aree urbane densamente popolate (Bargain O., Cardebat, J.M, 2020).

    Ecco che emergono Adiacenti Possibili³ come direbbe Kauffman, ipotesi generate dal divenire dei processi che vanno oltre i processi stessi. La domanda che dovremmo porci è se oggi si debba agevolare o meno il tentativo del processo capitalistico di dominare la selezione e lo sviluppo degli Adiacenti possibili. Se si debba ricondurre tutto, parlando di lavoro, alla sua condizione salariata, oppure incentivare e scommettere sulle forme oltre-capitalistiche praticabili negli Adiacenti a disposizione. La prima ipotesi mi sembra quella più praticata.

    Non era questo, però, l’insegnamento della storia del movimento del lavoro quando, oltre un secolo fa, organizzava le leghe, si riuniva nell’Associazione internazionale dei lavoratori, fondava il movimento cooperativo per dare risposte all’alienazione del lavoro salariato e tentare di costruire un lavoro che non fosse sottomesso alla logica del capitale.

    Il paradosso, in realtà soltanto apparente, è che nell’attuale fase storica tutte le forme organizzate esistenti sembrano lavorare per ricondurre tutto il reale all’interno delle necessità dello scambio capitalistico o attraverso un processo di omologazione alla sua logica o nell’illusione della ricostruzione della forma del conflitto tra capitale e lavoro esistente prima del digitale, attraverso un’omologazione alla forma salariata del fare tipica della produzione industriale.

    La realtà, invece, già eccede dalle vecchie forme. Quello cui i soggetti sociali si trovano di fronte, infatti, è un processo di Transizione, una fase della Storia che è sempre abitata da elementi conosciuti ed elementi sconosciuti, da fattori stabilizzanti e da rotture anche istantanee, da fratture che rompono la continuità, da processi ambigui, da rinculi e avanzate.

    Quindici anni fa era già possibile iniziare a parlare di Transizione, oggi è obbligatorio.

    Un approccio sistemico alla transizione di modello

    Ma cos’è una transizione, in cosa consiste realmente? Perché una transizione si differenzia da una crisi?

    Una delle caratteristiche della rivoluzione digitale, come abbiamo accennato, è definita dalla sua ubiquità. Non si tratta, infatti, di ragionare, semplicemente e separatamente, sulla trasformazione introdotta nella produzione, nelle merci, nei servizi o dei cambiamenti delle professioni necessarie al ciclo produttivo, oppure sull’impatto che le tecnologie di rete hanno avuto sulla qualità e la forma delle conoscenze a disposizione o nelle relazioni sociali e individuali. Né ci si può soffermare sul semplice impulso trasformativo delle forme digitali nelle stesse strutture cognitive dell’individuo. Cose che, già da sole, segnerebbero l’inizio di una stagione nuova della Storia umana e della stessa forma della vita sulla Terra.

    Le capacità d’intervento aperte dalle acquisizioni sulla genetica, consegnano all’umanità, infatti, interrogativi etico-morali e sociali inediti, come quelli di intervenire o meno sulla evoluzione delle specie viventi, sui cicli di vita del pianeta e sulla stessa storia evolutiva della specie umana. Alla potenza dei sistemi robotici, che si apprestano ad abitare le nostre case, le città, i luoghi della produzione, si affianca la potenza dell’Intelligenza Artificiale, che estenderà il dominio del suo intervento in ambiti lavorativi, relazionali e d’intrattenimento impensati. Un cambio che fa già parlare di ibridazioni uomo-macchina. Le nanotecnologie, infine, stanno costruendo una disponibilità di nuovi materiali dalle prestazioni ultra-naturali e nanostrutture che fanno presagire un sistema macchinico completamente inconcepibile fino a pochi anni fa. Creazione di nuovi materiali, di nanomacchine, di farmaci intelligenti, autonomi e silenti, di nanostrutture in grado di monitorare, interagire, lavorare e auto-assemblarsi, sono già oggi nei cuori di laboratori-industrie di nuova generazione. Tutte trasformazioni, come abbiamo visto, abilitate dall’avvento delle tecnologie digitali.

    Questi fenomeni, nella loro complessità, costituiscono e assemblano già il mondo nuovo di oggi, un mondo non automaticamente bello, né pacificato, equo, o privo di discriminazioni, schiavitù, asservimento, alienazioni. Anzi. Sono una realtà molto diversa, con nuove e inedite forme di sfruttamento (che si stratificano ed egemonizzano le altre precedenti), con capacità nuove di condizionamento, con nuove classi sociali che emergono nella scena sociale a pretendere ed estendere la loro voglia di dominio attraverso nuove forme di produzione di valore. E nuove forme di sfruttamento e asservimento che non hanno prodotto ancora le nuove organizzazioni in grado di candidarsi ad esprimere una nuova forma di potere. Un quadro al quale si può dare risposte solo controbattendo alle potenzialità nuove messe in campo e non attraverso ri/proposizioni di conflitto oggettivamente collocate nel passato e, alla fine, conservatrici nei loro esiti.

    Il dibattito intorno all’impatto della Intelligenza Artificiale o la robotica, dunque, sconta spesso un errore d’impostazione molto comune. Anche le analisi più dettagliate, infatti, non giungono alle conclusioni necessarie per comprendere la qualità degli impatti che il salto tecnologico del digitale sta imponendo alle società umane. Questo errore, che per semplicità potremmo definire di tipo quantitativo, impedisce lo sviluppo di analisi capaci di prevedere

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