Il monitoraggio ambientale: Un efficace strumento di controllo
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Anteprima del libro
Il monitoraggio ambientale - Chiara Scamardella
Chiara Scamardella
Il monitoraggio ambientale:
un efficace strumento di controllo
Abel Books
Proprietà letteraria riservata
© 2014 Abel Books
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
Abel Books
via Terme di Traiano, 25
00053 Civitavecchia (Roma)
ISBN 9788867521029
INTRODUZIONE
Il monitoraggio ambientale: un efficace strumento di controllo
Da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla Terra ha profondamente modificato l’ambiente. Il cambiamento apportato alla natura è stato, purtroppo nella maggior parte dei casi, a svantaggio di quest’ultima, con uno sfruttamento forsennato delle risorse disponibili, con la distruzione ed il danneggiamento degli ecosistemi, uniti alla minaccia di stravolgere i delicati e complessi equilibri che governano il nostro pianeta. Alla base di questo comportamento vi è una visione esclusivamente antropocentrica, caratterizzata da un forte egocentrismo che vede l’uomo orientato al proprio esclusivo beneficio, senza considerazione alcuna e rispetto per gli altri esseri viventi che popolano la Terra e nemmeno per le generazioni future. Prima che l’irrazionale progresso riduca questo mondo in polvere di Cantor
, qualche segnale fa sperare che questa tendenza negativa possa un giorno essere invertita. Il monitoraggio ambientale si inserisce nel panorama delle iniziative di salvaguardia dell’ambiente, con la misura dei parametri inquinanti ed il loro controllo costante. Infatti il monitoraggio prevede la sistematica raccolta di dati qualitativi e quantitativi, usando una procedura standardizzata per il periodo temporale di studio. La tecnica del monitoraggio è costituita da varie fasi:
Definizione dell’obiettivo;
Selezione degli indicatori e del segnale da misurare;
Piano esecutivo per definire i punti di monitoraggio, i tempi di raccolta dei dati e la durata dell’azione;
Raccolta ed interpretazione dei dati;
Valutazione finale.
Quindi il monitoraggio ambientale è costituito dall’insieme delle operazioni che permettono, con la rilevazione di una serie opportuna di indicatori, di valutare lo stato di qualità dell’ambiente. Per quanto riguarda, l’inquinamento atmosferico le tecniche previste si possono avvalere di strumenti automatici o semiautomatici per l’individuazione diretta degli inquinanti e di organismi viventi che interagendo con l’atmosfera a più livelli, possono servire da bioindicatori. Di pari passo, con il miglioramento delle tecniche di monitoraggio, bisognerebbe cercare di aumentare le conoscenze dell’ambiente e delle dinamiche degli ecosistemi. Solo così si potrebbe effettuare un’analisi più realistica dei problemi ambientali, essenziale per una più efficace strategia di salvaguardia e risanamento del meraviglioso mondo che ci circonda.
CAPITOLO 1
1.1 Il biomonitoraggio
Il termine biomonitoraggio indica una tecnica di analisi che fa uso di organismi viventi per la valutazione dello stato dell’ambiente. In particolare, con tale metodo di indagine si monitora l’inquinamento attraverso la componente biotica dell’ecosistema. Alla base del biomonitoraggio vi è il concetto secondo cui fra l’organismo vivente e l’ambiente circostante si realizza un continuo scambio di materia ed energia che porta ad un equilibrio dinamico. Questo equilibrio viene però ad essere interrotto, se il rapporto fra organismi ed ambiente viene alterato oltre determinati limiti. In realtà il biomonitoraggio nasce anche come esigenza per compensare i limiti del monitoraggio di natura puramente fisica e chimica. Esempi, relativi al tipo di organismi usati, fanno parte di una vasta gamma di esperimenti. Per citarne solo alcuni abbiamo: anellidi, chiromidi, aracnidi, lamellibranchi, pesci, anfibi, rettili, uccelli, mammiferi, piante, muschi, licheni… Gli organismi possono essere utilizzati come:
Indicatori;
Accumulatori;
I primi presentano variazioni morfologiche e funzionali della struttura, in presenza di determinate concentrazioni di contaminanti (risposta qualitativa). Nel secondo caso i bioaccumulatori sopravvivono all’esposizione di specifici contaminanti e li accumulano (risposta quantitativa). Quindi, il biomonitoraggio ha il grande merito di permettere la valutazione della tossicità dell’inquinante a livello di sistemi viventi. Il tipo di risposta del bioindicatore varia a seconda del livello di organizzazione biologica del sistema assunto come indicatore ed al tempo di esposizione alla causa scatenante lo stress e la conseguente reazione. Infatti i bioindicatori con un basso livello di organizzazione biologica vengono utilizzati in particolare come sensori; quelli che sono prevalentemente fissi, selezionati con un patrimonio genetico il più possibile uniforme, sono ottimi come test di verifica. Informazioni di massima le forniscono invece bioindicatori nati in natura. Infine organismi capaci di bioaccumulare sostanze inquinanti possono dare utili notizie di carattere storico.
I vari livelli a cui i bioindicatori ambientali possono esplicare la loro azione sono:
Subcellulare (risposta di tipo genetico, biochimico e fisiologico);
Cellulare (microrganismi che rivelano i contaminanti del suolo);
A livello di organismo;
A livello di specie;
A livello di comunità.
I primi studi sul biomonitoraggio risalgono alla metà del XIX secolo e riguardano i licheni, associazioni simbiotiche fra funghi ed alghe, che sono considerati dei buoni indicatori dell’inquinamento atmosferico a bassa concentrazione. Inoltre risale al lontano 1935 l’uso delle api nel monitoraggio, ad opera di Jaroslav Svaboda, dell’Istituto di ricerche in Agricoltura di Praga; egli verificò le ripercussioni negative degli inquinanti industriali, sulle api che bottinavano nelle zone densamente antropizzate ed industrializzate della Cecoslovacchia. Il biomonitoraggio dei metalli pesanti è stato effettuato, di recente, utilizzando api morte, miele, polline e propoli (Cavalchi, Fornaciari 1983).
Focalizzando l’attenzione sul biomonitoraggio per lo studio dell’inquinamento atmosferico, possiamo individuare indicatori biologici appartenenti al regno vegetale, fra cui:
Piante;
Muschi;
Licheni.
La vasta gamma di interazioni possibili fra gli inquinanti e le specie vegetali, a causa della netta differenza nella risposta che organismi diversi presentano per uno stesso agente chimico, consente lo sviluppo di varie metodologie. In particolare abbiamo:
Indicatori di reazione (individui molto sensibili ad una precisa sostanza fitotossica che manifestano sintomi caratteristici quando esposti a bassi livelli di contaminante. La risposta deve essere rapida, riproducibile e ripetibile, univoca, facilmente quantificabile e correlabile in funzione della quantità, con il composto nocivo);
Bioaccumulatori (organismi particolarmente resistenti all’inquinante considerato, ne sopportano senza conseguenze l’esposizione prolungata. In caso di persistenza lo accumulano in funzione della sua concentrazione nell’ambiente; l’analisi del contenuto elementare dei tessuti permette di determinare la presenza dello stesso inquinante);
Indicatori di presenza (essi si basano sul differente grado di resistenza e sensibilità di diverse specie nei riguardi di un contaminante. Viene studiata la distribuzione geografica comparata di determinate unità tassonomiche, valutando i livelli di biodiversità e considerando che le specie sensibili si rarefanno e quelle resistenti aumentano in funzione del carico inquinante).
Esistono due tipi di approccio nell’uso del biomonitoraggio:
Passivo;
Attivo.
Con il primo per esempio si impiegano i vegetali naturalmente presenti nell’ambiente, con l’osservazione diretta e l’analisi chimica dei tessuti. Invece nella forma di tipo attivo, si introducono nell’area di studio individui selezionati e standardizzati. Concludiamo mettendo in evidenza l’importanza del biomonitoraggio: quando nel 1995 un attacco chimico paralizzò la metropolitana di Tokio, per verificare la scomparsa del contaminante furono usati test biologici con organismi appartenenti all’avifauna.
1.2 Le briofite ed il biomonitoraggio
Le briofite sono organismi vegetali ampiamente utilizzati per gli studi sul biomonitoraggio, sin dagli anni sessanta del secolo scorso ed in modo più esteso negli anni 70. Il loro ruolo è duplice, essendo utili sia come bioindicatori della qualità dell’aria, sia come accumulatori di inquinanti, in particolare di metalli pesanti. Una specie di muschio molto diffusa nelle zone boreali, Hylocomium splendens, riceve quasi totalmente gli elementi nutritivi minerali dalle precipitazioni atmosferiche dirette e dal percolato delle chiome degli alberi (Tamm 1950). Le briofite inoltre hanno una notevole capacità di scambio ionico, grazie all’assenza di cuticola nei tessuti ed alla grande concentrazione di acidi poliuronici nella parete cellulare (Knight et al. 1961, Brown 1984). Infatti questi acidi possiedono siti carbossilici a carica negativa, capaci di legare attraverso forze di tipo elettrostatico, i cationi.
Alla fine degli anni ottanta, da ricerche eseguite da Rolling et al. si è determinata una relazione, valida per i paesi del nord Europa, che mette in rapporto quantitativo la concentrazione di ogni metallo pesante nei tessuti muscinali e la quantità depositata dalla precipitazione atmosferica umida e secca:
Log10 [concentrazione muschio] = 0.59+ 1.0 log10 [dep.atm.]
Nella precedente equazione la concentrazione del muschio è espressa in mg kg-1 e la deposizione atmosferica in mg m-2 a-1.
Emerge dunque che le briofite sono degli ottimi indicatori biologici; le modificazioni morfostrutturali, l’accumulo di sostanze inquinanti e le variazioni della composizione floristica della comunità vegetale, rappresentano le modificazioni ecologiche dell’ambiente su questo tipo di organismi. Certamente sono le caratteristiche biologiche a rendere i muschi adatti per ricerche nel campo del biomonitoraggio; abbiamo già citato l’assenza di cuticola, a cui aggiungiamo la mancanza di tessuto epidermico e di vere e proprie radici con sistemi di conduzione. Quindi gli scambi gassosi avvengono tramite l’intera area superficiale delle foglioline e del gametofito; ciò permette un assorbimento diretto di acqua, elementi nutritivi e contaminanti che si protrae nel tempo. La capacità di accumulo di metalli pesanti da parte dei muschi in concentrazioni notevoli, risulta essere superiore alle normali capacità di assorbimento delle piante vascolari. Si tratta di un fenomeno di tipo passivo che avviene nella parete cellulare, come già detto, ad opera di numerosi siti carichi negativamente che agiscono come efficienti scambiatori cationici (Tyler 1990). In alcuni casi si è notato che la ritenzione dei metalli era dovuta a fenomeni di chelazione. Per il piombo ed il rame, ciò è realizzato grazie all’esistenza di gruppi con speciali affinità per questi metalli, mentre per lo zinco sono coinvolti meccanismi di assorbimento attivo. Particolari peptidi, le fitochelatine, complessano i metalli pesanti e la loro sintesi è indotta dalla presenza di questo tipo di inquinanti.
Bisogna considerare che l’elevato rapporto superficie/volume e la microscopica scabrezza della stessa superficie, permettono ai muschi di intrappolare minuscole particelle (Richardson 1981). L’assorbimento nelle briofite riguarda anche sostanze radioattive, con una capacità che è doppia, rispetto a quella delle piante superiori. Questa loro proprietà è data dall’elevato grado di ritenzione di acque meteoriche, che rende i muschi un perfetto ricettacolo di radionuclidi. È stato osservato che in condizioni di stress ambientali le briofite rallentano il proprio metabolismo, aumentando la resistenza agli inquinanti. Inoltre il lento accrescimento e la grande longevità, permettono di stimare