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Quando Nelson scese dalla colonna
Quando Nelson scese dalla colonna
Quando Nelson scese dalla colonna
E-book181 pagine2 ore

Quando Nelson scese dalla colonna

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Info su questo ebook

Com'è possibile che la statua di Orazio Nelson sia scomparsa dalla cima della colonna di Trafalgar Square?

Possibile che sia stata sottratta da una banda di ladri?
Che sia stata scalzata via da una poderosa scarica di fulmini?
O forse le leggende che si raccontano intorno al fantasma dell'Ammiraglio Nelson centrano qualcosa con questa straordinaria sparizione?

E poi, chi è quello strano gatto nero che di notte se ne va in giro per le strade di Londra a mangiare ostriche?

Carlo Mulas, autore di romanzi e di racconti più volte premiati, ci offre una storia fantastica che si svolge in una Londra dei giorni nostri, sospesa tra un solido passato e un futuro incerto.

Una storia surreale e grottesca, satirica e romantica che, pagina dopo pagina, si trasforma in un viaggio alla scoperta dei segreti della capitale inglese, dei suoi personaggi e delle sue leggende; un invito a partecipare alla festa dei morti per guardare con disincanto e ironia al mondo dei vivi.

L'eBook
Questo eBook, dotato di un funzionale sommario, è stato progettato per i dispositivi Kindle secondo gli standard stabiliti dall'IDPF (International Digital Publishing Forum) e ha superato i criteri di validazione FlightCrew ed EpubCheck.
LinguaItaliano
EditoreIndibooks
Data di uscita7 gen 2016
ISBN9788890759314
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    Quando Nelson scese dalla colonna - Carlo Mulas

    Quando Nelson scese dalla colonna

    Carlo Mulas

    Proprietà letteraria riservata

    © 2012 Carlo Mulas

    Indibooks  - www.indibooks.it

    ISBN 978-88-907593-0-7 (Kindle edition)

    ISBN 978-88-907593-1-4 (ePub edition)

    Per contattare l'autore: carlo.mulas@yahoo.it

    Questo eBook è stato realizzato secondo gli standard stabiliti dall'IDPF (International Digital Publishing Forum) e ha superato i criteri di validazione FlightCrew ed EpubCheck.

    Ad Antioco Casula Montanaru, poeta ed eroe della nostra isola

    L’uomo non tende alla felicità, solo gli inglesi lo fanno

    Friedrich Nietzsche

    PARTE I

    1. Il sogno di Napoleone

    La notte di venerdì trentun ottobre, poco dopo le ventuno ora locale, René e Viviane Beauvoir lasciarono la banchina della stazione Nord di Parigi, diretti al terminal internazionale di St Pancras, per trascorrere qualche giorno di vacanza alla scoperta della capitale inglese e dei suoi tesori.

    Il treno era carico di persone, soprattutto turisti europei di una certa età, famiglie con bambini e solitari uomini d’affari. Ma non mancavano i giovani, per lo più asiatici e americani, che si accingevano a toccare l’ultima città del loro tour sabbatico nel Vecchio Continente.

    Per tutti i passeggeri si trattò di un tragitto spensierato e rilassante. Anzi, per i coniugi Beauvoir, originari di un piccolo centro della Normandia, fu anche proficuo, in quanto passato a stendere un elenco dei posti da visitare ed un dettagliato programma della vacanza.

    Proprio nel momento in cui il treno attraversava il tunnel sotto la Manica, Viviane propose al marito di cominciare il loro tour da Trafalgar Square e dalla National Gallery, dato che il loro albergo si trovava a non troppa distanza da questi siti, raggiungibili a piedi l’indomani mattina dopo colazione.

    «Cosa c’è da vedere a Trafalgar Square?» chiese per avere maggiori delucidazioni René alla moglie, che custodiva gelosamente la guida di Londra e si accingeva a ingoiare l’ultima fetta di mela, ponendo fine così alla sbrigativa cena.

    «C’è la famosa colonna che sorregge la statua dell’ammiraglio Orazio Nelson, il vincitore della battaglia di Trafalgar appunto, colui che spezzò il sogno di Napoleone di conquistare l’Inghilterra via mare...» rispose Viviane, pulendosi le mani e incominciando a leggere l’intera voce dedicata al celebre monumento.

    Già, il sogno di Napoleone: battere la marina britannica, conquistare l’isola e poi costruire un ponte, o addirittura un tunnel, per legarla ed assoggettarla per sempre al Continente.

    Un incubo per gli inglesi, che solo grazie all’astuzia ed alla sagacia tattica dell’Ammiraglio non si avverò. Perché fu lui a risolvere l’equazione perfetta della politica britannica: conservando il controllo sulle rotte marittime, si otteneva la supremazia commerciale e allo stesso tempo si salvaguardava la patria dall’invasione.

    Per questo se ne stava lassù, più in alto dei divini imperatori romani e dello stesso Bonaparte di Place Vendome.

    Certo, il mondo era cambiato. La nuova Europa, nata per far circolare liberamente le merci, alla fine si era accalappiata pure l’Inghilterra, legandola per sempre al Continente. E così i turisti, anche francesi, invadevano pacificamente Londra per il ponte di Ognissanti, pagando il tributo alla memoria dell’immortale Lord Nelson.

    Il convoglio raggiunse con assoluta puntualità la stazione di St Pancras.

    Scesi dal vagone, i Beauvoir guadagnarono subito l’uscita. Non appena la donna mise piede fuori dal terminal, tutto parve cambiare all’improvviso: il cielo, che brillava di mille e più stelle, si fece subito cupo, aumentando notevolmente il proprio senso di gravità; mentre un forte vento, umido e caldo, cominciò a spazzare le serafiche colline poco più a nord.

    Viviane si portò il foulard sulla testa, annodandoselo sotto al mento asciutto e tastando col naso l’aria odorante di fumo di pipa e legna umida. I capelli raccolti e legati lasciavano intravedere una lunga cicatrice sul collo, dietro all’orecchio sinistro.

    Un vecchio taxi blu cobalto sembrava attenderli. Così i due francesi, indirizzo alla mano, salirono in macchina. E non appena lo chauffeur ebbe chiuso lo sportello, l’acqua cominciò a colpire con forza la capotta bombata, mentre i lampi baluginavano sempre più vicini, seguiti dall’immancabile rotolio dei tuoni.

    Fu solo in quel momento che madame Beauvoir si rese conto di essere appena venuta fuori, non tanto da una moderna stazione dei treni, ma piuttosto da un pittoresco ed intricato castello dai mattoni rossi e dalle forme gotiche, le cui guglie, dal sapore medievale, parevano evocare le cime del Brocken al crepuscolo. Tanto che, quasi d’istinto, levò gli occhi al cielo in cerca di streghe a cavallo di scope.

    La fulgente luce dell’alta torre delle telecomunicazioni e le mirabolanti acrobazie dei pipistrelli venuti fuori dall’oscura selva di Highgate in cerca di ghiotti insetti da consumare vivi: queste furono le uniche cose che ella vide aleggiare nel violaceo cielo londinese.

    Dopo qualche curva, la disordinata e tentacolare metropoli cominciò a prendere forma, carica come non mai del suo caotico mosaico di rumori, luci e colori.

    Viviane guardò oltre il finestrino, verso i marciapiedi stracolmi di gente. E questa volta le streghe le vide davvero. Ma non si trattava di vecchie sdentate a cavalcioni di polverose scope o in groppa a gatti neri, bensì di giovani e ben truccate fattucchiere dai lunghi cappelli appuntiti, che camminavano a braccetto di festosi zombie e di vampiri dai denti lunghi e affilati.

    Nonostante il traffico e il maltempo, in meno di mezz’ora i continentali giunsero di fronte all’hotel dalla fredda facciata in mattoni grigiastri. Sul marciapiede, una banda di colorati folletti e candidi fantasmini si trascinava con premura tra ombrelli e cerate, ripetendo la solita nenia a chiunque capitasse loro a tiro.

    I due turisti scesero dall’automobile ed entrarono in gran fretta nel portone dell’albergo.

    Una grande zucca vera, svuotata e intagliata a mano, faceva bella mostra di sé sulla parte sinistra del bancone della reception. Le luci elettriche dell’ingessata sala d’ingresso impedivano che la candela accesa, posta all’interno, emanasse tutto il suo bagliore.

    Poco più in là, con le braccia appoggiate sul bancone, se ne stava il portiere dal viso pallido, gli occhi blu e i capelli rossastri. Di età indefinibile, aveva il classico viso segnato da esperto uomo di mare. Portava una divisa scura stropicciata. La camicia azzurrognola, aperta sul petto per nulla villoso, e le maniche, rimboccate fin sopra i gomiti, lasciavano intravedere numerosi tatuaggi: una coda di drago, una mandibola di teschio e una sezione di croce celtica, con tanto di scritta, forse in gaelico.

    L’uomo, alternando la lettura dell’oroscopo a quella di un grosso fumetto, salutò un po’ rudemente i turisti, ai quali per prima cosa chiese i documenti. Quindi gettò ai passaporti uno sguardo sapiente, confrontando le facce attuali con quelle ben più giovani delle fototessere.

    La donna era praticamente la stessa: viso magro dai lineamenti dolci, occhi giallo paglierino, capelli che tendevano ormai verso la cenere e che dolcemente le scendevano sulla schiena. Il consorte, invece, aveva un volto più segnato dalle rughe, occhi castani, pelle scura e una bella fronte ampia stempiata che aveva rubato terreno ai capelli brizzolati.

    Dopo aver indugiato un poco sulla profonda cicatrice della francese che, simile a un serpentello, le correva dall’orecchio alla clavicola, copiò i loro nomi sul registro, torcendo a sufficienza il busto per acchiappare un portachiavi numerato. Poi, con un gesto veloce, porse ai due la chiave della stanza numero 213 e un regolamento plurilingue.

    «Secondo piano, a sinistra uscendo dall’ascensore» disse con ritrovata allegria l’inglese.

    «Due?» chiese Viviane, mostrandogli l’indice e il medio, giusto per farsi capire meglio.

    Lui allora la fulminò con lo sguardo. E con le stesse dita sollevate, con voce lenta e cadenzata, sentenziò: «Mai fare questo gesto ad un inglese, a maggior ragione se siete francesi!».

    I due turisti non colsero il significato letterale delle parole, ma piuttosto ne carpirono il senso e il tono scherzoso, esplodendo in una fragorosa risata.

    Sciolto il ghiaccio, il portiere si alzò, lasciando intravedere ai due la sua enorme stazza. Offrì loro alcune caramelle che teneva sotto al bancone, pronte per le birbanti marmaglie di piccole anime che ogni anno si presentavano con i loro sacchetti arancioni. Quindi prese le valige e li accompagnò all’ascensore.

    Neanche un minuto ci volle ai due per guadagnare la camera matrimoniale, completamente tappezzata di carta da parati viola glicine con fantasia floreale.

    L’arredamento era semplice e un po’ retrò. Il letto comodo e il bagno in camera. Lo spazio nel complesso un po’ angusto ma confortevole. Inoltre, da un’ampia finestra dalla spessa intelaiatura in legno verniciata di bianco, era possibile osservare il movimento incessante della strada, mentre la pioggia seguitava a cadere rumorosa.

    Visto il brutto tempo ed affaticati dal viaggio, i due si misero a letto, prendendo sonno quasi all’istante.

    2. Fulmini e lanterne

    Intorno alla mezzanotte furono svegliati dal fragore di numerose esplosioni, chiare e distinte, la cui forza fece tremare anche tutto lo stabile.

    Il tintinnio in sottofondo della pioggia, che continuava a tamburellare sulla finestra e a scendere copiosamente, fece immediatamente pensare a monsieur Beauvoir che si fosse trattato delle chiassose onde d’urto di alcune saette, cadute non troppo distanti.

    Sollecitato dalla consorte, si alzò. Provò ad accendere la luce della stanza, ma solo quella d’emergenza parve funzionare.

    Madame Beauvoir, spaventata ed alquanto agitata, volle maggiori rassicurazioni. Così chiese al marito di accompagnarla di sotto, che mai e poi mai sarebbe andata giù da sola, né tantomeno sarebbe rimasta ad attenderlo in camera. I due quindi, in pigiama e pantofole, scesero nella hall, accompagnati dalle sirene dei pompieri che correvano da una parte all’altra della città.

    La reception era avvolta da una luce arancione tremolante.

    L’assenza dell’illuminazione elettrica aveva dato nuova vita alla zucca intagliata, permettendole così di liberare tutto il suo splendore nell’ambiente circostante. Sul muro, l’ombra lunga del portiere, sembrava vivere di vita propria.

    Oltre ai due francesi, anche altri ospiti erano scesi per saperne di più, spaventati o solo incuriositi; tutti comunque molto attenti a non pronunciare la parola bomba.

    Il portiere stava facendo uno spuntino, gustando alcuni frutti di mare e sorseggiando una lattina di sidro. Nel vedere tutti quei clienti davanti a sé, mise da parte cibo e bevanda.

    Accese immediatamente la potente lampada d’emergenza che, con la sua radiazione lucente, di colpo congelò il bancone e parte della hall, restituendogli il suo volto di ghiaccio.

    L'uomo non era solo. Sul bancone, al fianco della zucca, un gatto se ne stava accovacciato.

    Si trattava di un esemplare adulto di felino comune, dal dorso lucido e nero come il petrolio. Immobile come una statua, teneva il muso sollevato, per controllare, con dignitosa serietà, che gli umani rimanessero a debita distanza.

     Per nulla stupito di quell’improvvisata assemblea, il portiere rassicurò gli astanti, sottolineando la provenienza naturale di quei fenomeni rumorosi. E per farsi comprendere meglio, disegnò col dito un improvviso zig-zag, richiamando alla mente l’immagine della folgore. Poi, indicando la zucca, disse: «Tutto normale, non preoccupatevi: è solo la notte di Halloween!».

    «Te l’avevo detto che si trattava di tuoni» disse il marito alla moglie, «adesso però torniamocene a dormire».

    Ma prima di risalire in stanza, come stavano già facendo gli altri ospiti, Viviane si accostò al gatto e lo accarezzò, avvertendo una piccola scossa elettrica sulle dita.

    Infatti, quel manto lucido e scuro non era formato di soffice pelo, ma risultava piuttosto solido e metallico al tatto, come se l’animale fosse fatto di bronzo e non di carne.

    Il gatto la guardò con aria misteriosa, sollevando il musetto e facendo brillare gli occhi. Poi, con un repentino scatto delle zampe, andò ad accovacciarsi tra le gambe del portiere, sotto il piano del bancone.

    «Lei gli piace, madame. Di solito non si fa mai accarezzare da nessuno» spiegò lentamente l’uomo tatuato dal volto marinaresco. Quindi, sgusciando un’ostrica e porgendola al gatto, disse ancora: «Adora i frutti di mare».

    Il felino, con un gesto rapido e mirato, acchiappò il polposo frutto

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