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Il dipinto maledetto
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E-book469 pagine6 ore

Il dipinto maledetto

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Info su questo ebook

Dall’autrice di Cospirazione Caravaggio, ai primi posti delle classifiche italiane

Un grande thriller

VENEZIA, 1555. Nella città del doge il pericolo è in agguato. Un rigido inverno avvolge la città nella bruma, e sulle banchine affiorano degli inquietanti cadaveri. Sono le vittime di uno spietato serial killer, rese irriconoscibili dalle torture… 
LONDRA, oggi. Gli studiosi d’arte di tutto il mondo sono in fibrillazione per un antico dipinto di Tiziano, che si credeva perduto per sempre. È il ritratto di Angelico Vespucci, noto mercante veneziano. Il grande artista è riuscito a riportare sulla tela, con estremo realismo, i tratti somatici dell’uomo, ma non la crudeltà del suo animo. Proprio quel Vespucci, infatti, potrebbe essere il terribile mostro colpevole di aver scuoiato numerose giovani donne: una colpa che nessuno riuscì a provare e che rimase senza condanna. All’indomani del ritrovamento del quadro, però, vengono rinvenuti in giro per il mondo una serie di cadaveri senza pelle. Chi è l’assassino?

Un bestseller mondiale

Un dipinto di Tiziano cela un antico segreto.
Tra i canali di Venezia affiorano inquietanti cadaveri sfigurati.
Chi è l’assassino che semina il terrore?

«Un thriller bestseller. Un’autrice che possiamo definire, senza ombra di dubbio, la nuova Dan Brown in gonnella.»
Libero

«Il giallo di Alex Connor, ai primi posti della classifica dei libri più venduti, è ambientato nel mondo dell’arte.»
Il Corriere della Sera

«Trovare una brava scrittrice di thriller non è semplice, ma trovarne una straordinaria come Alex Connor è quasi impossibile.»
Alex Connor
È autrice di molti thriller e romanzi storici, perlopiù ambientati nel mondo dell’arte, tutti bestseller e in cima alle classifiche di vendita. Lei stessa è un’artista e vive in Inghilterra. Cospirazione Caravaggio, uscito per la Newton Compton nel 2016, è diventato un bestseller immediato, ai primi posti delle classifiche italiane.
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2016
ISBN9788822703217
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    Anteprima del libro

    Il dipinto maledetto - Alex Connor

    en

    1427

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, società, organizzazioni, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.

    Titolo originale: Isle of the Dead

    Copyright © 2013 Alex Connor

    The moral right of Alex Connor to be identified as the author of this work has been asserted in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act, 1988.

    All rights reserved.

    First published in Great Britain in 2013 by Quercus Editions Ltd.

    Traduzione dall’inglese di Francesca Noto

    Prima edizione ebook: febbraio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0321-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Alex Connor

    Il dipinto maledetto

    omino

    Newton Compton editori

    A Viv

    Libro primo

    Una decina di metri sotto la prima colonna portante di Grosvenor Bridge, un groviglio rabbioso di uccelli stava lottando, muovendosi sulla superficie tremante del Tamigi, tra battiti d’ali e beccate, solo per avvicinarsi al pacco che era appena stato abbandonato lì. Nella precedente manciata di minuti, avevano cercato di strapparne l’involucro di plastica, ma quando infine riuscirono a raggiungerne l’interno, volarono via, delusi. Lenta ma inesorabile, la marea finì il lavoro degli uccelli e tirò via la plastica, mostrando l’angolo di un dipinto.

    Strano sotto il cielo cupo di Londra, il viso del ritratto guardò in alto, come se fosse sorpreso di ritrovarsi in mezzo alle colonne del ponte, i vestiti del mercante bagnati dall’acqua mentre il quadro galleggiava verso un piccolo rimorchio. Poi, spinto da un altro soffio del vento freddo di quell’inizio di novembre, roteò sull’acqua e fu trascinato via dalla corrente. Dieci minuti dopo, il ritratto si arenò sulla limacciosa sponda del Tamigi, dove fu notato da un turista che camminava lungo l’argine.

    Era la prima volta che il ritratto di Angelico Vespucci veniva visto in pubblico, dopo oltre quattro secoli. Mentre veniva tirato fuori dal fiume, la superficie dipinta scintillò alla luce del giorno, il sinistro sguardo del modello fisso e stranamente sprezzante. Nessuno conosceva la storia del dipinto o dell’uomo che vi era ritratto sopra.

    Nessuno sapeva che quella scoperta avrebbe condotto a un brutale omicidio e all’identificazione di un assassino che era stato attivo centinaia di anni prima.

    Prologo

    Venezia, 1555

    Ho paura dell’acqua. Anche se sono nato con l’amnio in testa, il che, secondo la tradizione popolare, è una protezione sicura contro l’annegamento. Nessuno lo sa, perché la gente sa poco, di me. Questo è il mio talento, rendermi invisibile. Andarmene in giro tra le persone non visto, come i mostri sotto la Laguna, con le loro viscide dita coperte di alghe che scivolano sotto i ponti e l’eco degli uomini annegati, sbiancati e dissanguati sul fondale marino.

    L’inverno è arrivato in fretta a Venezia. Troppo presto, troppo freddo, con le sue spirali di nebbia che si avvolgono tra vicoli e ponticelli, e figure che si aggirano come fantasmi mentre si occupano dei propri affari quotidiani. Anche l’atmosfera della città è cambiata. Lunghe notti impenetrabili e giorni cupi e malsani attirano in città gli abitanti con il richiamo delle campane di San Marco. Un’oscurità più profonda di quella che chiunque possa ricordare cala sulla città dopo il tramonto. Le lanterne faticano a penetrarla, e si dice che più di cinquanta cani siano annegati, perdendo l’equilibrio nel buio.

    Ma non sono soltanto i cani che stanno morendo. Non molto tempo fa, ho visto una donna tirata su dal Lido e lasciata esposta alla vista sgomenta dei passanti. Era rimasta in acqua per diverso tempo, incastrata sotto uno dei ponti, ed era ormai irriconoscibile: gli occhi ridotti a opali ciechi, la lingua viscida, gonfia come una lumaca di mare. Le avevano tagliato la gola e strappato via la pelle dal torso e dagli arti.

    Dapprincipio, si pensò che fossero state le maree a mutilarla, ma più tardi si scoprì che era stata scuoiata. Iniziarono a girare delle voci: l’assassino era stato disturbato prima di poter concludere il lavoro, prima di poterle strappare la pelle dalla faccia. Qualcuno parlava di un pazzo venuto in città da lontano. Altri suggerivano che dovesse trattarsi di un uomo non privo di mezzi e ricchezze, che aveva spazio e tempo a sufficienza per mutilare un cadavere. Altri ancora incolpavano le prostitute. Ma tutti si facevano la stessa domanda: dov’era la pelle della vittima? Dov’era la parte che le era stata strappata dalla carne?

    Venezia è in attesa, e teme ma si aspetta un’altra vittima. Le cortigiane non parlano d’altro e se ne stanno ben lontane dalle piazze di notte, mentre le donne rispettabili vanno a trovare i loro confessori e bruciano ceri mentre cala la notte.

    1

    Londra, oggi

    Faticando a stringere il pacco sotto un braccio, Serafina Morgan risalì con uno sforzo l’argine fangoso del Tamigi e raggiunse il lungofiume poco oltre. Lì si sedette, appoggiando accanto a sé l’oggetto che aveva appena salvato dalle acque. Capì subito che il dipinto doveva essere antico, e che la cornice era dorata e di valore, il che la portò a domandarsi perché fosse stato abbandonato con tanta noncuranza nel Tamigi. Scostando l’involucro marrone, Serafina si rese conto che il dipinto doveva essere rimasto nell’acqua per poco tempo. Non aveva subìto danni, o almeno non che le fossero immediatamente visibili.

    Il pomeriggio volgeva al tramonto, il cielo fiammeggiava, e Serafina ricordò il mercante d’arte Gaspare Reni. In passato, Reni era stato un personaggio guittesco e teatrale, un italiano che viaggiava in lungo e in largo per comprare grandi quantità di opere d’arte rinascimentali per i suoi collezionisti privati. Originario di Venezia, si era poi stabilito a Londra, dove aveva prosperato. Ma l’età l’aveva costretto a rallentare, e quando aveva superato i settanta, mercanti d’arte più giovani e spietati avevano usurpato la sua supremazia. Gaspare Reni aveva ancora la sua famosa galleria a Kensington, nell’ex chiostro di un antico convento, ma il denaro che un tempo accumulava con estrema facilità era quasi del tutto sparito, e il suo stile di vita, un tempo ricco e lussuoso, era diventato molto più modesto.

    Fissando ancora il dipinto, Serafina prese la sua decisione. Il giorno dopo sarebbe tornata a Venezia, dal suo marito americano Tom Morgan, ma prima di lasciare Londra, avrebbe trovato il tempo di restituire un favore. Molti anni prima, Gaspare Reni aveva comprato dei dipinti dai suoi genitori, evitando loro di dover vendere la loro casa a Venezia. Aveva pagato molto bene quelle opere d’arte, ma più tardi, quando si era trovato in difficoltà, aveva rifiutato qualsiasi aiuto in cambio della sua generosità, che dunque non era mai stata ripagata a dovere.

    Fino a quel momento, almeno. Adesso, Serafina Morgan, che da nubile si chiamava di Fattori, stava salendo su un taxi diretta a Kensington. Sarebbe dovuto essere un atto di gentilezza.

    E invece avrebbe scatenato un bagno di sangue.

    2

    Curvo davanti al caminetto, Gaspare Reni allungò le mani verso il calore, la stanza alle sue spalle immersa nelle ombre. Un giornale era abbandonato ai suoi piedi, insieme a un piatto con un toast mezzo mangiato. La sua testa, un tempo grande e nobile, si era rinsecchita con l’età, il collo taurino pieno di pieghe, come un guanto di pizzo. Intorno agli angoli esterni degli occhi, le rughe si estendevano in semicerchi, correndo verso la fronte come gli affluenti di un pigro fiume grigio.

    Accanto a lui era seduto un uomo sulla trentina.

    Nino Bergstrom, come un figlio, per lui. Un uomo che tempo prima era molto malato e che, non avendo familiari o amici a Londra, si era rifugiato nella casa del mercante d’arte ed era stato invitato da lui a restare. Uno stretto legame si era venuto a creare tra loro, i normali ruoli rovesciati, mentre il vecchio si occupava dell’uomo più giovane.

    Da tempo vedovo, Gaspare era stato più che contento di offrire un ricovero temporaneo a un amico sofferente. Gli affari, alla galleria, procedevano a rilento, sia per la recessione che per l’età di Gaspare, dunque spesso aveva del tempo libero che non sapeva come impiegare. I giorni silenziosi e le notti che non passavano mai erano venuti in odio al vecchio mercante d’arte, ed era stato davvero sollevato di avere con sé qualcuno che gli facesse compagnia.

    «Stavo pensando alla prima volta che ho messo piede qui dentro», commentò, rivolto a Nino. «Comprai il convento alla chiesa – immagina le scartoffie e la burocrazia! – e lo trasformai in galleria d’arte. Mi ci volle più di un anno per sistemare tutto, e altri sei mesi per ottenere una collezione abbastanza valida da far infuriare qualsiasi altro mercante d’arte a Londra. A quei tempi ero bravo… uno dei grandi del mio campo. Ma ormai… sono diventato vecchio, non è così?».

    Nino gli lanciò un’occhiata. Sembrava fatto di toni di grigio, come un dagherrotipo vivente.

    «Ora non mi sono rimaste che le cartilagini», continuò Gaspare, pizzicandosi un braccio. «Cartilagini e ossa».

    Nino si strinse nelle spalle. «Forse. Ma sono io quello con i capelli bianchi».

    Era vero. A causa della sua malattia, i suoi capelli corvini avevano perso il loro originario colore e, ad appena trentott’anni, erano candidi come le piume di un’oca delle nevi. L’effetto era ancora più notevole, contro il nero giaietto dei suoi occhi, e non faceva che dare l’idea di quanto avesse sofferto. Ora era completamente guarito, ma gli bastava guardarsi allo specchio per ricordare l’estate che l’aveva cambiato. Dopo essere crollato sul set di un film a Londra, era stato affidato alle cure del dottor Steven Morrison, la più importante autorità del mondo quando si parlava di malattie neurologiche. Morrison si era rivelato degno della sua fama, ma Nino aveva dovuto affrontare una lunga e costosa risalita verso la salute, che l’aveva lasciato senza il becco di un quattrino.

    Il lungo e doloroso periodo di malattia aveva trasformato un avventuriero incurante di tutto in uno spettatore pensieroso. Niente più California, per Nino Bergstrom; niente più viaggi interminabili. Era cambiato, aveva visto finire l’esistenza del passato e non sapeva dove l’avrebbe condotto il futuro. E non era stato d’aiuto, in tutto ciò, il fatto che non avesse una famiglia, e i suoi amici più cari fossero in California, negli Stati Uniti d’America. A Londra, dove aveva avuto la sfortuna di ammalarsi, Nino Bergstrom non aveva nessuno.

    A parte il vecchio mercante d’arte Gaspare Reni. Venuto a conoscenza della malattia di Nino, l’italiano era andato a trovarlo in ospedale e gli aveva offerto di vivere a casa sua per tutto il tempo di cui avrebbe avuto bisogno per guarire. Il gesto aveva lasciato Nino senza parole. Conosceva Gaspare, professionalmente, da anni, ed era un uomo che gli piaceva, ma quell’aiuto incondizionato gli era sembrato un miracolo, oltre che una totale sorpresa. Troppo debole per protestare e troppo fragile per cavarsela da solo, Nino era scivolato oltre le mura protettive e solide dell’imponente convento tramutato in galleria d’arte. Imboccato da Gaspare e lasciato dormire per tutto il tempo necessario, non era migliorato molto durante la prima settimana, ma poi, alla fine della seconda, aveva iniziato a rifiorire. Alla fine del mese, era del tutto guarito. Niente, nella sua corporatura o nei lineamenti del viso, faceva immaginare che fosse stato così gravemente ammalato; l’unico indizio erano quei capelli, rimasti bianchi come a volerlo silenziosamente sfidare.

    «Perché non accendi la luce?».

    Il vecchio si strinse nelle spalle. «Costa troppo».

    «E il riscaldamento?».

    «Lo sai, perché», borbottò Gaspare, esasperato. «Te l’ho ripetuto cento volte. Costa troppo».

    «E io ti ho ripetuto cento volte di permettermi di pagare l’affitto, mentre sono qui».

    «Bah!», rispose Gaspare, agitando con impazienza una mano. «Non voglio i tuoi soldi! Quello che voglio è solo la tua compagnia. E poi mi piace il buio. È più drammatico».

    «Sì, come cadere dalle scale», replicò Nino, alzandosi in piedi e accendendo la luce.

    Le ombre della stanza svanirono di colpo. Le alte pareti sostenevano tappeti persiani arrotolati, e una serie di dipinti a olio torreggiavano sulla severa mobilia spagnola e sui cassettoni francesi. Dell’argenteria, ammucchiata pezzo annerito su pezzo annerito, se ne stava appoggiata in una pila instabile contro candelieri moreschi e volgari specchi dalla cornice dorata. Volumi rilegati in pelle erano schiacciati sotto il peso di orologi antichi e cherubini obesi, mentre un’armatura giapponese tentava una posa da samurai vicino alla porta.

    Alzando lo sguardo, Nino osservò il soffitto dipinto, che ingialliva sempre di più, con gli angeli color caramello che fluttuavano sopra la stanza polverosa e decadente al di sotto.

    «Cristo, Gaspare, ma perché non metti un po’ in ordine? Lascia che ti aiuti».

    «Sei ancora convalescente».

    «Non è vero, sono di nuovo in forma», obiettò Nino. «E comunque, devo cominciare a pensare di tornare al lavoro».

    «È troppo presto!».

    Il vecchio si voltò rigido sulla sedia. Gli era piaciuto avere intorno Nino, e gli dispiaceva fin troppo di lasciarlo andare. Il convento ristrutturato, che ai suoi tempi d’oro era stato ammirato e considerato spettacolare, adesso era troppo grande per un uomo anziano e solo. La manutenzione era un buco nero in cui stavano finendo tutti i suoi risparmi, e pian piano, una stanza dopo l’altra, il luogo era stato abbandonato a se stesso, e lo spazio ridotto man mano che i suoi anni aumentavano.

    «Non c’è fretta», continuò Gaspare. «Ti piaceva, questo posto. L’hai affittato più di una volta…».

    «Sì, ma non era così, al tempo, ti pare?».

    Era vero che aveva affittato quel luogo per una compagnia cinematografica di Los Angeles, e tutti si erano entusiasmati in merito e l’avevano utilizzato più volte. Ma era stato dieci anni prima, quando ancora i dipinti non erano stati rovinati dall’umidità, né la polvere si era incollata all’argenteria. Adesso quella bellezza era diventata decadente, rovinata dal tempo e dalla mancanza di fondi.

    «Perché non lo vendi?».

    Alzandosi in piedi, Gaspare spense di nuovo la luce, facendoli piombare nella semioscurità delle candele.

    «Venderlo? E chi lo comprerebbe?»

    «Kensington è una zona di prim’ordine. Questo posto potrebbe valere una fortuna».

    «Magari voglio morire qui. O magari dovrei lasciarlo a te? Sei la persona più simile a un familiare che mi resti».

    Lo stava deliberatamente provocando: l’affetto di Nino non aveva niente a che fare con eventuali eredità.

    «Allora perché non vendi almeno un po’ della tua roba?»

    «La mia roba», ribatté Gaspare, secco, «è importante per me. Conosco ognuno di quei pezzi, e quanto vale».

    «E allora almeno lascia che paghi la bolletta della luce…».

    «Sei al verde, Nino. Lo sai tu e lo so anch’io. E comunque, cosa sono ora tutte queste storie per l’elettricità? Non devo mica tenere tutte le luci accese come se questo posto fosse un supermercato! Non ho bisogno di vederlo, per sapere quanto è bello».

    Pensieroso, Nino studiò il mercante. Quello che diceva era vero: virtualmente, era davvero al verde. Non che avesse mai messo da parte chissà quanto, in effetti. La sua vita a Los Angeles, alla periferia del mondo del cinema, era stata ricca e lussuosa, e lui non aveva badato a spese, immaginando che sarebbe andata sempre così. Il suo lavoro consisteva nel trovare luoghi per ambientare i film in giro per il mondo, e così aveva viaggiato dall’Australia allo Sri Lanka, da Londra a Tripoli, da Hong Kong all’Africa. Il fatto che fosse a suo agio con la gente e la sua abilità nel trovare ambientazioni magnifiche gli avevano sempre garantito molto lavoro. Il denaro continuava ad arrivare. E così le feste. E le opportunità.

    Un breve matrimonio infelice aveva destabilizzato la sua sicurezza, ma un uomo attraente che lavorava nell’industria del cinema non poteva certo rimanere solo a lungo. I cliché della fama – sesso, auto di lusso e abiti acquistati su Rodeo Drive – avevano colpito anche lui. Era difficile apprezzare l’abbondanza, quando per lui equivaleva alla quotidianità. E nel vortice del successo, la previdenza era un’idiozia. Così come pensare al domani era da vecchi.

    E poi era svenuto.

    Era al lavoro a Londra, sull’Isola dei Cani, e un dolore lancinante gli era esploso all’improvviso nella testa come un ritorno di fiamma. Come un colpo di pistola. Come un vetro schiantato da un impatto violento ed estremo. Nel nanosecondo in cui quel suono gli era riverberato in testa, Nino aveva guardato davanti a sé, cercandone la fonte, e poi aveva sentito i muscoli del collo irrigidirsi per uno spasmo involontario, la fronte afferrata da un calore lacerante e il cervello trapassato da mille chiodi piantati nel cranio. Aveva sollevato di scatto le mani, cercando di proteggersi la testa, di tenere insieme la massa sanguinante e in disfacimento del cervello.

    Ricordava di essere caduto… ma nient’altro, finché non si era risvegliato in ospedale, con Gaspare Reni seduto al suo capezzale…

    Il ricordo fu interrotto dal suono del campanello, nella galleria al piano di sotto.

    Sorpreso, Gaspare lanciò uno sguardo all’amico, con espressione interrogativa. Avevano pochi visitatori, durante il giorno. Ma proprio nessuno di sera.

    «Chi diavolo sarà mai?», esclamò, andando al citofono, per poi rispondere in tono brusco: «Chi è?».

    In strada, all’esterno, Serafina restò per un attimo in silenzio, stupita. «Signor Reni? Sono Serafina Morgan». Sapendo che il cognome del marito non l’avrebbe aiutato, soggiunse: «Serafina di Fattori, si ricorda?»

    «Di Fattori?»

    «Sì, conosceva i miei genitori a Venezia».

    Sorridendo, Gaspare le aprì il portone, scendendo all’ingresso per accoglierla. Sotto la luce fioca di una lampadina a basso voltaggio, Serafina gli sembrò sorprendentemente giovane, mentre teneva un involto stretto tra le braccia. Non abituata alla luce delle candele, la donna si lasciò guidare nel salotto e puntò verso un tavolo rotondo, mentre Gaspare, a malincuore, accendeva un lampadario sospeso sopra di loro.

    Mentre si risvegliava, inondando la stanza di luce, Serafina sbatté le palpebre, posando il pacco sul tavolo e guardando il mercante d’arte.

    «Dunque si ricorda di me?».

    Lui annuì, studiandola. «Sì. Sei sempre stata bella».

    «E lei è sempre stato prodigo di complimenti», ribatté lei, con un forte accento italiano. «Mia madre diceva che sarebbe riuscito a convincere un santo a rivelare qualche indiscrezione, con i suoi modi affascinanti».

    «Come sta?»

    «È avanti con gli anni, ma sta abbastanza bene… Mio padre ha avuto un ictus. Si sta riprendendo, ma lentamente, purtroppo».

    «Mi spiace molto», disse Gaspare, in tono sincero. «Porta loro i miei saluti, e di’ loro che li penso spesso. E tu come stai?»

    «Mi sono sposata. Con un americano. Sono venuta a Londra per delle ricerche sulla terapia genetica…».

    «Una scienziata in famiglia?»

    «Ahimè, non tutti possono essere colti», rispose lei, in tono scherzoso.

    Gaspare fece cenno a Nino di avvicinarsi. Le presentazioni furono informali e leggere. «Questo è il mio più caro amico, che considero come un figlio: Nino Bergstrom». Fece una smorfia. «Madre italiana e padre svedese, da cui il nome. Che ci vuoi fare? Nino è uno scopritore di location…».

    «Un… cosa?»

    «Mi incaricano di trovare le location per ambientare i film. O meglio, era quello che facevo».

    A disagio, Nino cercò di cambiare argomento e indicò il pacco sul tavolo. «E quello cos’è?»

    «Un dipinto…».

    «Un dipinto?», le fece eco Gaspare, curioso.

    Sorridendo, Serafina guardò alternativamente i due. «Posso togliermi il cappotto? È un po’ umido», spiegò, appoggiandolo sullo schienale di una sedia e occhieggiando Gaspare. «Ecco, sono entrata nel fiume».

    Divertito, Gaspare la provocò in tono bonario: «Non ti vedo da anni, e l’ultima volta che ti ho visto è stata a Venezia. E ora sbuchi dal nulla con un dipinto. Umido, per giunta».

    Interessato, aprì il pacco e a quel punto trattenne il respiro. Quello che stava osservando era un dipinto famoso… e preziosissimo.

    3

    Ginza, Tokyo

    Per anni a venire, Jobo Kido avrebbe ricordato il momento in cui gli era arrivata la telefonata. Aveva appena perso un’asta a New York ed era tornato a casa, da una moglie sgradevole e con un problema al sistema d’allarme della sua galleria d’arte da risolvere. Un’inattesa ondata di caldo aveva contribuito al fastidio che provava, così, esasperato, si era chiuso in ufficio. Quando il telefono si era messo a squillare, era stato tentato di ignorarlo, ma alla fine aveva tirato su la cornetta prima che la segretaria potesse rispondere.

    La voce maschile dall’altra parte della linea era elegante, con un accento acculturato. Per un attimo Jobo pensò che l’interlocutore fosse inglese, ma poi si rese conto che in realtà si trattava di un americano con l’accento di Boston.

    «Signor Kido, avrei qualcosa di interessante di cui parlarle».

    La solita storia, pensò Jobo; sempre le stesse parole usate per incuriosire e sperare alla fine di chiudere una vendita. Contrariato, abbassò la temperatura dell’aria condizionata in ufficio, ribattendo in tono impaziente: «Cosa vorrebbe vendermi?»

    «Non ho niente da venderle», rispose con freddezza l’uomo. «Voglio soltanto darle un’informazione che credo le sarà utile. È ancora interessato ad aggiungere dei pezzi alla sua collezione privata?».

    Esitante, Jobo considerò quella collezione. Quella che non veniva mostrata nella galleria, né nella sua abitazione privata, ma che si trovava in un luogo segreto, a diversi chilometri da lì. I pezzi di quella collezione unica erano stati messi insieme, nel corso degli anni, dalle più disparate fonti, e sebbene la sua esistenza non fosse un segreto, di solito non era conosciuta al di fuori del mondo dell’arte.

    Aveva avuto inizio quando lui era ancora un bambino, ed era andato in gita con la scuola a Londra. Ma la Torre di Londra, Buckingham Palace e perfino il museo delle cere di Madame Tussauds non l’avevano affascinato come avrebbero dovuto, mentre Jobo era stato conquistato dalle mostre dell’Hunterian Museum. La sua curiosità era stata catturata dalle brutali e macabre immagini esposte in quel luogo. I ricordi di innumerevoli crudeltà gli si erano uniti nella mente con le leggende giapponesi dei samurai e dei ronin. Jobo non era interessato alle torture in sé, quanto ai ritratti dei criminali. Una sorta di ossessione per la fisiognomica di quegli individui l’aveva affascinato e condotto a una ricerca incessante dell’essenza del male. La sua domanda era sempre la stressa: si poteva leggere il male in un volto? Anche Shakespeare se l’era posta. Come pure frenologi ed esperti di ricostruzioni facciali.

    Sempre quella singola, elusiva e irrisolta questione.

    «Signor Kido, è ancora lì?»

    «Con chi sto parlando?»

    «Il mio nome non ha importanza. Sono solo le informazioni che posso darle ad averne», replicò l’uomo. «Ha mai sentito parlare di Angelico Vespucci?».

    Quel nome gli arrivò come un dardo maligno attraverso la linea del telefono. «Sì, ne ho sentito parlare. Lo conoscevano anche come il Cacciatore di Pelli».

    «E Tiziano ne fece un ritratto».

    «Sì, è così», rispose con cautela Jobo, «ma quel dipinto è sparito poco dopo essere stato completato…».

    «E se le dicessi che invece è ricomparso…».

    Jobo sentì la pelle formicolare per l’eccitazione.

    «…e che il famigerato ritratto dell’assassino in questione è ora a Londra?». L’uomo fece una pausa, attendendo che l’informazione fosse assorbita dall’interlocutore. «Molti acquirenti lo eviteranno. Del resto, quel pezzo ha una cattiva reputazione. Ma potrebbe essere una meravigliosa aggiunta alla sua collezione personale».

    Jobo aveva deglutito a vuoto. «E ne è in possesso?»

    «No, ma so dove si trova».

    «Sarà messo all’asta?»

    «Chissà…».

    «A Londra?»

    «Forse».

    «E si tratta di un venditore privato?», lo incalzò Jobo, senza dargli tregua. «Lavora come broker per questa persona?»

    «Posso soltanto dirle che il ritratto di Angelico Vespucci è ricomparso. E se lo vuole, le suggerirei di iniziare a drizzare le antenne, prima che qualche altro compratore glielo porti via».

    Prima che Jobo Kido potesse rispondere, la telefonata si interruppe.

    Con la testa che gli girava, mise giù il ricevitore e si afflosciò sulla sedia dietro alla scrivania. Fuori, poteva vedere l’azzurro innaturale del cielo giapponese, la selva di edifici che si slanciavano verso il sole già sorto. Il dipinto era a Londra, aveva detto l’uomo. A Londra, pensò, tra sé e sé. Valeva la pena fare un viaggio sino in Inghilterra? Forse non finché non ne avesse saputo qualcosa di più. Ma come poteva riuscirci? L’uomo al telefono non gli aveva lasciato alcun contatto; magari non avrebbe richiamato mai più. Forse un altro si sarebbe aggiudicato quel trofeo… No, pensò Jobo, calmandosi, quell’uomo sapeva che avrebbe trovato in lui un acquirente sicuro. Sapeva che l’avrebbe pagato una fortuna, per quel ritratto.

    Un pensiero inquietante lo afferrò, a quel punto. E se il suo interlocutore aveva già contattato un altro compratore? O diversi altri? Forse stava cercando di moltiplicare l’interesse e, di conseguenza, il valore del pezzo. Tutti coloro che lavoravano nel mondo dell’arte sapevano che il prezzo di un’opera dipendeva dalla competizione. Forse se quell’uomo fosse riuscito a mettere la pulce nell’orecchio a diverse persone, e in diversi paesi, si sarebbe assicurato una vendita più vantaggiosa. Con sua grande sorpresa, Jobo si rese conto che stava sudando, nonostante l’aria condizionata al massimo. Avvertì un morboso senso di ansia, il terrore di perdere quell’affare. Che qualcosa che per lui valeva più di qualsiasi altra potesse sfuggirgli.

    Appena cinque minuti prima, Angelico Vespucci era soltanto poco più che una nota a margine, nella mente di Jobo Kido. Un miraggio intangibile, una storia quasi dimenticata che aveva sentito raccontare molti anni prima. Ma ora quell’opera notevole e temuta, quell’immagine del male, era tornata in circolazione. In modo melodrammatico e misterioso. Come un vampiro, il dipinto era tornato in vita e, come un vampiro, aveva la capacità di tormentarlo.

    Pensieroso, Jobo aprì la cassaforte e recuperò una vecchia borsa di pelle. La fissò per un attimo, poi ne tirò fuori una chiave. Era l’unica in suo possesso. C’era, in effetti, una copia, ma era nella sua banca, per evitare che sua moglie, suo figlio o i colleghi di lavoro potessero metterci le mani. Premendo la chiave contro la guancia, Jobo ripensò alla sua collezione privata.

    Fuori, Tokyo poteva essere quasi surreale, umida per il caldo, con le foglie autunnali che cadevano dagli alberi sebbene la temperatura superasse i trenta gradi. A casa, sua moglie poteva continuare a brontolare senza tregua, e alla galleria l’allarme poteva scattare di nuovo all’alba, ma cosa importava? Ora tutto ciò a cui riusciva a pensare era il ritratto di Vespucci.

    Ritrovato.

    A Londra.

    Per ora.

    E ben presto in Giappone. Ben presto suo.

    Sorridendo tra sé e sé, Jobo immaginò dove avrebbe posizionato il dipinto nella sua collezione. Non aveva paura della sua cattiva reputazione. La superstizione era solo per gli sciocchi. Ciò che gli interessava non erano i crimini, ma il modello del ritratto. Voleva scoprire com’era davvero il volto del Cacciatore di Pelli. E bramava di possedere il magnifico ritratto di Tiziano di un uomo che aveva ucciso e mutilato quattro donne. Non vedeva l’ora di studiare i lineamenti di Angelico Vespucci e di confrontarli con quelli di altri assassini venuti dopo di lui. Per scoprire se il male avesse una forma, se si ripetesse nei lineamenti o nell’espressione.

    Jobo Kido non aveva paura di Angelico Vespucci. Quella sarebbe venuta dopo.

    4

    Kensington, Londra

    «L’ho trovato nel Tamigi», spiegò Serafina, lanciando uno sguardo al ritratto. «Be’, in realtà, non proprio. Era stato lasciato sull’argine dalla corrente, e io l’ho preso». Si strinse nelle spalle, guardando Gaspare. «Immagino sia stata una brutta cosa da fare, quasi come rubarlo, ma ho pensato che doveva essere lei ad averlo. Lei, più di chiunque altro, avrebbe saputo cosa farne». Ammiccò, maliziosa. «E poi, potrebbe valere molto e farle guadagnare una fortuna».

    Alla luce che illuminava la stanza, il ritratto, ora completamente fuori dall’involucro, scintillava in modo maligno, il volto di quell’uomo inquietante, i suoi occhi brillanti e spietati come quelli di una biscia.

    «Di certo è un Tiziano», affermò a mezza voce Gaspare. «Conosco il dipinto. O meglio, ne ho sentito parlare».

    «E ha un valore?»

    «Inestimabile, direi».

    Mentre Gaspare si girava a esaminare l’involucro, Nino osservò il ritratto. Allungò la mano sinistra verso la placca d’ottone al di sotto e ne cancellò lo strato di sporcizia, rivelando il nome Angelico Vespucci.

    «Dice che l’uomo ritratto era Angelico…».

    «Vespucci», finì Gaspare al suo posto.

    Serafina inarcò le sopracciglia. «E sa anche chi era?»

    «Sì, temo di sì», replicò il mercante d’arte, volgendosi a lei. «Hai visto qualcuno abbandonare il ritratto nel fiume?»

    «No. Come ho detto, è stato spinto sull’argine dalla corrente».

    «Non ci sono scritte sull’involucro», continuò Gaspare, in tono irritato, mentre spingeva via il cartoncino marrone. «Niente nomi, né indirizzi… niente. Dunque non è stato spedito da qualche parte. E non è stato mandato a nessuno. Il che significa che deve essere stato abbandonato di proposito. E in modo anonimo». Studiò il dipinto per diversi minuti, per poi rivolgersi a Nino. «Di sicuro è un Tiziano. Anche senza la firma, lo si può affermare con certezza. Le pennellate, le tonalità dell’incarnato, i riflessi, e quel rosso nel mantello di Vespucci. Magnifico». Sfiorò la parte posteriore della tela. «E comunque il dipinto non è rimasto a lungo nel Tamigi. Non ci sono danni permanenti, niente che non si possa asciugare nelle prossime ore… Chi l’ha gettato via si aspettava che venisse trovato».

    «Se lo aspettava?», ripeté Serafina. «Ma come?»

    «Contavano sulla marea», disse Nino, guardandola. «Qualcuno che conosce bene la città e il fiume sapeva anche come il Tamigi si alza e si abbassa, e quindi che il dipinto sarebbe finito presto sull’argine».

    «Ma come facevano a sapere che io l’avrei preso?»

    «Oh, questo non potevano saperlo», continuò Nino. «Ma sapevano che lì intorno ci sarebbe stata di sicuro molta gente. Turisti, impiegati. E se non fosse stato uno di loro a recuperare il dipinto, lo avrebbero fatto gli accattoni in cerca di bottino ogni volta che il Tamigi si ritira. Chiunque l’abbia gettato nel fiume sapeva che non ci sarebbe rimasto a lungo. La domanda è perché…». Lanciò uno sguardo a Gaspare, ma l’uomo non disse nulla. «Perché non portarlo direttamente a Bond Street? O in una casa d’aste? Non è complicato: ci sono moltissimi posti dove ottenere una valutazione e vendere un dipinto». Continuò a fissare Gaspare. «Hai detto che è di valore».

    «Che è inestimabile», lo corresse il vecchio.

    «Dunque molti mercanti d’arte lo vorrebbero, immagino».

    «Alcuni sì. Altri farebbero di tutto per tenersene alla larga».

    Sorpreso, Nino lo fissò. «Non capisco».

    «Quando era in vita, il modello del ritratto, Angelico Vespucci, veniva chiamato il Cacciatore di Pelli».

    Serafina sussultò. «Cosa?»

    «Non fu mai dimostrato, ma si credeva che avesse ucciso sua moglie. E poi altre tre donne di Venezia. Le uccise, le scuoiò e si tenne la loro pelle. Che però non venne mai ritrovata». Gaspare si strinse nelle spalle. «Una persona con il gusto del macabro, e ammettiamolo, c’è tanta gente che compra cimeli nazisti, tanto per dirne una, potrebbe desiderare un ritratto del genere. Ci sono individui che farebbero di tutto per possedere il ritratto

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