Dreamwalker
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Info su questo ebook
Marco Ramuschi è nato a Parma nel 2001. Dopo aver conseguito il diploma come geometra, si è iscritto presso l’Università di Bologna, dove frequenta il corso di laurea in Storia. Da sempre appassionato di scrittura, ha deciso di intraprendere un percorso come scrittore solo nel 2021. Dreamwalker è il suo primo romanzo.
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Anteprima del libro
Dreamwalker - Marco Ramuschi
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
I sogni, sono risposte a domande
che non sappiamo ancora formulare
CAPITOLO I
«Tutto ha inizio in una giornata che si prospettava esser particolarmente calda, come la era stata ieri, e il giorno prima ancora, eppure era anche così tranquilla, con un cielo azzurro, terso e immacolato, non una nuvola lo sporcava e una leggera brezza che soffiava nel lieve tepore del mattino. Il sole era da poco salito oltre l’orizzonte e, se guardavo i binari, sembravano condurmi proprio verso di esso, nel suo caldo abbraccio, congiungendosi in un qualche lontano punto, verso l’infinito.
Già i primi pendolari uscivano dalle scale del tunnel che attraversava tutta la stazione, diversi metri più in basso, nel sottosuolo, per raggrupparsi poi sulle banchine in superficie. Il tabellone, con tutti gli orari e i codici illuminati, segnava alcuni ritardi, ma nulla di cui stupirsi, o preoccuparsi.
Le scuole e le università non erano ancora ricominciate: si notava dalla tranquillità della stazione nell’ora in cui, di solito, era assediata da ragazzi di tutte le età e dal loro rumoroso chiacchiericcio. Ora invece, non fosse per un leggero mormorio delle poche persone presenti, un brusio assonnato, ci sarebbe stato un inquietante silenzio, reso più grave dall’acustica distorta e amplificata dalle alte volte in acciaio e vetro che coprivano i binari, catturando e diffondendo anche i minimi rumori, come una camminata particolarmente pesante e frenetica dell’uomo alla mia destra, o le ruote della valigia trascinata da una signora dall’altro lato della stazione, mentre usciva dal baretto nel quale si era rifugiata, in attesa del suo treno.
Chi è un abituale frequentatore di stazioni, oramai saprà che le cose che non ci riguardano vengano registrate dal cervello ed elaborate inconsciamente, come l’inconfondibile voce meccanica che annuncia i treni in arrivo e in partenza.
«Il treno, TreNord, due-otto-due-zero, diretto a, Milano Centrale, è in arrivo al binario, quattro. Ferma a…»
Milano? Non mi sono mai piaciute le grosse città; odiavo quando, come in questo caso, ero costretto a fermarmici per lavoro o per uno scalo, sia esso ferroviario o aereo, per quanto breve. Perché? Sarà la confusione, il marasma di gente che si sposta con innaturale fretta, come in uno di quei vecchi film in bianco e nero, dove ogni cosa appare accelerata. Forse, a conti fatti, semplicemente sono io a essere fuori luogo in quei posti, a essere più adatto alla vita di campagna, a quei paesini tranquilli arroccati tra le colline italiane, incastonati come tante gemme in una collana di inestimabile bellezza e valore.
Volsi lo sguardo a sinistra, in fondo ai binari, dove fino a pochi minuti prima c’era il sole; ora era leggermente più in alto, lasciava il passo a una sagoma argentata che, accompagnata da un inconfondibile sferragliare, si avvicinava, si ingigantiva, per poi accostarsi docilmente davanti a noi passeggeri, tra il rumore dei freni e delle poche persone presenti che si avvicinavano alle sue porte per prendere posto.
Non si trattava certo di uno dei treni più moderni della flotta, con il suo corpo tozzo e squadrato, dipinto di uno strano verde-azzurro, e ovviamente, non uno dei più puliti, ma per essere un inter-regionale andava più che benone. Lento, sì, ma nel complesso una macchina affidabile.
Lungo tutta la fiancata si allungavano graffiti su graffiti, scritte indecifrabili e volti grotteschi. Bisognava ammettere però che il quadro generale era interessante, sicuramente inconfondibile, a tratti gradevole. Si vedeva parecchia street art in giro, e benché non ne fossi un ammiratore sfegatato, certe volte bisogna riconoscere che si trattava di veri capolavori, degni forse dei più grandi musei del mondo. La mia mente subito volò a un viaggio fatto ormai svariati anni fa, a Belfast, nell’Irlanda del Nord, e lì sì che vidi dei graffiti memorabili, grandi abbastanza da ricoprire intere facciate di palazzi, intrisi del peso della denuncia sociale di un popolo fiero, e allo stesso tempo opere di straordinaria bellezza. Taluni fatti così bene, che parevano essere pieni di vita, in grado di fissarti, come tu stavi facendo con loro, seguendoti con i loro grossi occhi luminosi.
Salii, dopo aver lasciato scendere un ragazzo con un grosso borsone al seguito. I vagoni erano quasi completamente vuoti, come sempre a quell’ora. Nella mia carrozza, cinque passeggeri appena, me incluso. Un paio di sedili più in là, prendeva posto un signore in giacca e cravatta, salito subito dopo di me, con folti capelli grigi, che coprivano leggermente le punte delle orecchie. A guardarlo, in quel suo abito blu scuro, senza l’ombra di una piega o una stropicciatura, seguito dal duro suono delle scarpe eleganti contro la pavimentazione del vagone, con una valigetta in cuoio marrone tra le mani, si direbbe essere diretto proprio a Milano, magari chissà, alla Borsa, o a tenere qualche lezione alla Bocconi.
Sull’altro lato della carrozza sedeva una giovane coppietta. Lei, sui vent’anni, dormiva, avvolta in un leggero scialle rosso porpora, appoggiata alla spalla di quello che ho immaginato essere il suo fidanzato, un ragazzo di poco più grande, intento a guardare il telefono. Entrambi ascoltavano la musica dal telefono di lui, dividendosi gli auricolari.
Che dolce quadretto, e quanti ricordi mi riportava alla mente. Ricordi dolce-amari.
Mi stavo per mettere sul sedile di fianco al finestrino sul lato destro della carrozza, rispetto al senso di marcia, appena superata la porta, dopo aver riposto la piccola valigia verde che mi portavo appresso sulla cappelliera. Ma a colpirmi fu il quinto passeggero, o meglio, passeggera.
Come la coppia, era già sul treno, dalla parte opposta della carrozza rispetto a dove mi trovavo io, proprio nell’ultima coppia di sedili. Vederla in viso era impossibile, dato che era messa in modo da darmi le spalle. A incuriosirmi non era tanto lei, ma quello che stava facendo.
Tic, tic.
Tic, tic.
Quel piccolo tintinnio, secco, ritmico, metallico, mi sbloccò subito un ricordo, che venne seguito da un sorriso tra il divertito e il nostalgico.
Tic, tic.
Tic, tic.
Ma certo! Come non riconoscerlo. Stava lavorando qualcosa ai ferri.
Alla fine ruppi gli indugi, appoggiai lo zaino che tenevo appeso per una sola spallina, quella sinistra, sul sedile a fianco a me, e mi sedetti, ancora con un mezzo sorrisetto sul volto, anche se la mia mente stava già volando altrove.
Scelsi quel posto non a caso, ma quasi per tradizione: in ogni mio viaggio mi sedevo nello stesso punto, l’ho sempre trovato essere il migliore per gli spostamenti più lunghi. Godeva di una buona visuale, la concordanza col senso di marcia non mi dava il benché minimo senso di nausea, e i giochi di luce dell’alba sul vetro erano perfetti per intrattenermi, o conciliare il sonno, ma soprattutto, nessuno dietro che potesse darmi fastidio chiacchierando o chissà in quanti altri modi.
Mentre mi sistemavo, sul binario adiacente passò un altro treno semi-vuoto, uno di quelli bianchi e gialli, a due piani, ma non si fermò,sferragliò via seguito solo da un fischio per annunciarsi, dirigendosi in direzione opposta alla nostra, verso chissà dove.
Poco più avanti uno dei finestrini era aperto, e non appena il treno prese a muoversi, entrò nel vagone una brezza fresca, piacevole, a tratti fredda e pungente, prima che il sole rendesse incandescente qualsiasi cosa.
Mi strinsi appena nella giacca leggera che avevo indosso, sollevando un poco il colletto attorno alla nuca, per prevenire uno spiacevole torcicollo che sapevo altrimenti mi avrebbe tormentato per giorni.
Appoggiai poi la testa al braccio, che a sua volta veniva sostenuto dalla paratia del vagone, un paio di centimetri prima dell’ancor gelido vetro.
Dapprima un piccolo scatto in avanti, secco e deciso, poi la netta percezione di essere in movimento, il rumore del motore che aumentava e via, finalmente si era in viaggio.
Il ritmico dondolio del convoglio sulle rotaie, sempre più leggero, i sobbalzi dati dalle giunture delle stesse sempre più ravvicinati, fino a essere quasi indivisibili, mentre prendevamo velocità.
Il tepore del sole sul volto era piacevole, mentre la sua luce giocava con i colori dei graffiti, prima facendoli splendere, poi mettendoli in ombra, per tornare a illuminarli di nuovo, colpendoli, unendoli, dividendoli, con affascinanti proiezioni arcobaleno e altri svariati giochi cromatici contro lo schienale del sedile vuoto davanti a me.
Passarono secondi, minuti, non saprei dire quanti, forse dieci, non avevamo ancora raggiunto la stazione successiva. I suoni iniziarono pian piano a ovattarsi, a uno dei passeggeri prese a squillare il telefono, non saprei dire di chi fosse, non gli diedi nemmeno peso. La suoneria, un allegro motivetto fischiettato, iniziava a farsi lontana, attutita, come se avessi la testa coperta da cuscini, cuscini sempre più pesanti, come le palpebre, che parevano ora essersi fatte di piombo, quasi impossibili da risollevare, mentre scivolavo in uno stato di torpore, tra il sonno e la veglia, consapevole di dove fossi, ma incapace di ricacciare quella sensazione. Non ero più padrone del mio corpo, ma andava bene così, abbandonarsi al riposo è una delle sensazioni che sempre mi sono piaciute di più. Proprio mentre il mio corpo raggiungeva l’apice del rilassamento, mentre la mente vagava leggera, saltando da un pensiero all’altro, accompagnata dal cullare del viaggio, accadde qualcosa.
Inaspettato e violento.
Un gran frastuono, generato dai freni bloccati, improvvisamente riempii il vagone.
Venni sbalzato dal mio posto in avanti, sollevato di netto dalla seduta con tutto il peso, tra le grida confuse degli altri passeggeri, il bracciolo del sedile di fronte a me si fece pericolosamente grosso e vicino, troppo vicino… Fu un attimo, e infine il buio.
La prima cosa a tornare fu la consapevolezza di essere ancora vivo. A seguire, come dopo una pesante anestesia, iniziai a sentire le varie parti del corpo riprendere sensibilità. Prima il busto, col battere del cuore al suo interno, poi le braccia e infine le gambe, giù fino ai piedi, dei quali mossi tutte le dita.
Sapevo che c’erano, anche se non riuscivo ad averne il pieno controllo, e solo a quel punto sopraggiunse un gran dolore alla testa, proprio sulla parte destra della fronte, accompagnato da un fischio acuto nelle orecchie.
Ancora non riuscivo ad aprire gli occhi, la testa era troppo pesante. Provare anche solo a sollevarla significava perdere ogni minimo sentore di equilibrio, anche se potevo affermare con assoluta certezza di essere sdraiato.
Non lontano da me, mi pareva di sentir parlare delle persone, le parole erano distorte, ma le sentivo. Ne riconoscevo qualcuna, eppure non sapevo che significato darle, le frasi suonavano sconnesse e incomplete.
Fu di nuovo buio, un buio assoluto, senza sogni o sensazioni, che poteva benissimo esser durato un minuto, così come un giorno.
La seconda volta che ripresi i sensi andò un po’ meglio, anche se non fu altrettanto piacevole, paragonabile a un pesante dopo sbornia, ma sicuramente meglio del primo, per quanto fallimentare, tentativo di risveglio.
Mi trovavo disteso per terra, almeno questo lo avevo indovinato. Sul pavimento di quella che mi sembrava essere una rimessa, con un tetto tondeggiante in lamiera, sorretto da alcune tensostrutture in acciaio. Ognuna di quelle travature, portava appese delle luci al neon, ciascuna lunga un paio di metri. Erano otto in totale, due per ogni trave, ma al momento erano tutte spente.
Per quanto il cemento non fosse il giaciglio più comodo – anzi, non lo era per nulla se ci aggiungiamo l’umidità che mi penetrava nella schiena, fin dentro le ossa e i muscoli – almeno la testa era appoggiata su qualcosa di morbido. Provai a mettermi in piedi. Afferrai la struttura metallica che sorreggeva degli scaffali, a pochi passi da dove mi trovavo, sui quali erano adagiati in ordine come soldatini degli strumenti da meccanico.
La giacca, la mia, che mi era stata messa addosso a mo’ di coperta, cadde al suolo. Ma le gambe non avevano i miei stessi piani, e in men che non si dica mi ritrovai col sedere per terra, producendo un tonfo sordo che echeggiò in tutte le direzioni.
«Dannazione…» esclamai, massaggiandomi con la mano sinistra una natica, mentre una lacrimuccia faceva capolino da un occhio.
Evidentemente il mio goffo tentativo da pinguino non era passato inosservato. Dalla stanza accanto, più precisamente oltre la porta a un paio di metri sulla mia destra, lungo la parete alla quale ero appoggiato, sentii provenire il rumore di una sedia che veniva trascinata sul pavimento. A dire la verità non ero ben sicuro se fosse una porta con un vetro, oppure una finestra interna, come alcuni uffici hanno. Fatto sta che potevo vedere della luce attraverso lo scaffale uscire da un vetro, ma la vista restava ancora appannata, e per me si trattava solo di sagome non ben definite.
«Si è svegliato, finalmente» udii.
Preso dal panico, mi guardai frettolosamente attorno. La mente, appena si rischiarò, venne inondata da una scarica di adrenalina.
La mia prima impressione era corretta, mi trovavo in un’officina, o un qualche deposito. Le pareti si allungavano per una quarantina di metri ed erano distanti tra loro all’incirca di dieci o dodici. In fondo alla struttura, proprio al centro, c’era un grosso portone in lamiera diviso in due ante, come quelle che si vedono negli hangar, pitturate di un verde acceso, con delle finestrelle, quasi degli oblò, che le tagliavano orizzontalmente a metà altezza.
Dall’esterno non entrava molta luce, al punto che a un primo sguardo mi sfuggii la porta, situata all’incirca a tre quarti della struttura, che divideva due degli immancabili scaffali.
Dalla stanza venivano anche altre voci; riuscivo a distinguerne chiaramente almeno due, di cui una di donna, ma nuovamente non fui in grado di capirne le parole, essendo più distanti della prima.
Sentii il cuore accelerare, quasi tentasse di arrivarmi in gola. Il sangue scorrere più velocemente nelle vene, i battiti aumentare sempre di più.
L’istinto mi diceva di scappare, ma ero come bloccato, paralizzato.
La maniglia della porta fece uno scatto, secco, duro e deciso. La testa non smetteva di dolermi, e come se non fosse abbastanza, iniziò a pulsare, al ritmo del cuore, sempre più veloce, sempre più forte, le tempie sembravano voler scoppiarmi.
Sentii la porta aprirsi, ruotando su dei vecchi cardini non troppo oliati, che la facevano cigolare e stridere come nel classico cliché dei film horror.
Qualcuno uscì, ne vidi la sua sagoma, ma con la visuale impedita dagli scaffali e la generale penombra che gravava nell’edificio, era letteralmente impossibile sapere e vedere di più.
Seguirono una serie di passi, cadenzati e pesanti, sul pavimento di cemento spoglio e