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Golfo Mistico
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E-book294 pagine4 ore

Golfo Mistico

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Info su questo ebook

Napoli è il teatro a cielo aperto di incontri destinati a lasciare segni indelebili.

L'amore, quello che stravolge le prospettive, terrene ed eterne, è la sinfonia che si dipana tra i vicoli e le vedute mozzafiato.

I personaggi si muovono tra le alchimie luminose del barocco e le oscure rimembranze del male. La fede in Dio diventa, come briciole sul sentiero, il mezzo per ritrovare la strada della liberazione e della felicità.

*** L'autore ***

Nato nel 1970.
Maestro D'arte.
Compositore, autore, scrittore, produttore, interprete, musicista ed editore musicale.

Già autore e compositore di Luciano Pavarotti, con il brano “Neapolis” che è stato per nove mesi primo in classifica sul sito del maestro, come brano più apprezzato dai fan di tutto il mondo.

Ha all'attivo 3 libri:

“La soglia dell'aldilà”, manuale di apologetica cattolica. Esperto nel settore delle realtà soprannaturali e demonologiche collabora da anni con molti sacerdoti.

Due libri di aforismi e pensieri spirituali e poetici, corredati da sue fotografie dal titolo "L'ermeneutica dei sospiri" e "L'introspettiva del Cielo".

Studioso e innamorato di Napoli e della napoletanità. Ha coniato la locuzione “napoletani sostanziali” che è anche il titolo di un libro al quale sta attualmente lavorando.
Esperto delle realtà connesse ai sentimenti e all'amore, umano e divino, ha tenuto per 10 anni catechesi su questi argomenti.
Maestro e istruttore di difesa personale, Krav Maga.
LinguaItaliano
Data di uscita19 dic 2017
ISBN9788827537503
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    Golfo Mistico - Roberto Bonaventura

    Roberto Bonaventura

    Golfo Mistico

    UUID: 231caee0-f714-11e7-82e9-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Sommario

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Epilogo

    L’autore

    Copyright © 2017 Roberto Bonaventura

    Tutti i diritti riservati.

    Pubblicato con la

    Esclusiva Strategia Editoriale

    " Self Publishing Vincente "

    www.SelfPublishingVincente.it

    Un romanzo è il sogno di uno scrittore di far veleggiare la vita di qualcun altro al soffio del proprio vento.

    Roberto Bonaventura

    Capitolo 1

    La camera d’albergo in stile direttorio era immersa nell’ombra; a tratti violata da qualche striscia di sole che, attutita dai tendaggi di seta, filtrava dalle persiane.

    Edward aprì gli occhi. Immediatamente i suoi sensi furono strappati al torpore che la notte tesse sul corpo durante il sonno.

    Saltò giù dal letto con uno scatto di gioia, come faceva da bambino la mattina di Natale; quando con il cuore in gola, si precipitava scalzo e in pigiama, giù per la fredda scala di marmo di Carrara che si riversava nel grande salone. Cataste di pacchi regalo dai colori più disparati, sorte nella notte come funghi, lo attendevano ai piedi del gigantesco e fragrante abete verde riccamente addobbato.

    Ora, a distanza di tanti anni, mentre correva verso la porta finestra che dava sul balcone, quella infantile emozione si ripeteva amplificata nelle vene di un ragazzo ormai divenuto uomo. I suoi piedi nudi volavano sulla soffice moquette blu della sua camera Deluxe. Trattenendo il respiro, spalancò tende, finestre e imposte, offrendosi inerme alla luce del sole.

    Era la mattina del coronamento del sogno più atteso.

    A pochi giorni dal suo ventisettesimo compleanno, Dio gli aveva fatto un dono destinato a rimanere scritto, per sempre, nel libro delle cose indimenticabili.

    Quella giornata, a lungo sognata, si presentò radiosa, così come l’aveva vissuta e sperata fin dal momento in cui quella grande passione sbocciò nel suo petto di fanciullo.

    Nonostante la luce abbagliante riusciva a godere del meraviglioso spettacolo offerto da quello scenario incantato.

    La brezza tiepida, profumata di mare, accarezzava i suoi capelli ancora scompigliati dalla notte quasi insonne.

    La figura slanciata e armoniosa rimase immobile nel luccichio abbacinante del mare che specchiava il sole generoso di fine giugno.

    «Gesù mio», mormorò, con il bel viso leggermente contratto in un sorriso immobile, «hai esaudito la mia preghiera. Ti ringrazio e Ti lodo dal profondo della mia anima».

    Arpionò con le forti mani la ringhiera di ferro battuto che delimitava il piccolo balcone rettangolare al terzo piano del Grand Hotel Santa Lucia; stringendola come se temesse di precipitare da un momento all’altro.

    Era veramente e finalmente a Napoli.

    I suoi straordinari occhi verdi, incastonati tra ciglia scure e folte, si bagnarono di lacrime. Il suo sguardo da ammaliante si fece ammaliato.

    Il Vesuvio dominava quello stupendo quadro tridimensionale, come un enorme totem, custode di quel sacro golfo. Un foulard di migliaia di case cingeva d’assedio le pendici della famosa Montagna, nella zona in cui diventa verde scuro per poi sfumare, verso il cratere, in un marrone scuro. La forma gli parve simile a quella di una sella da cavalcatura americana. Il monte Somma, antico cratere vulcanico che, a semicerchio, si sviluppa a nord est, ne ricordava la forcella, mentre il cono del vulcano, l’arcione posteriore.

    Né una nuvola né un po’ di foschia si frapposero tra lui e il grande spettacolo disegnato dal Creatore: il cielo, il golfo, il mare, il Vesuvio, la Penisola Sorrentina e Capri.

    Si voltò. A destra la fortezza di Castel dell’Ovo, maestosa e mesta nave di tufo sembrava legata al suo approdo da un antico pontile alla stregua di una grossa fune.

    In basso, a sinistra, nella curva tra via Partenope, dove sorgeva il suo Hotel e via Nazario Sauro, ammirò i tre archi a tutto sesto della bianca fontana dell’Immacolatella, con le sirene, le sue cariatidi; opera di Pietro Bernini e del Naccherino. Era veramente un armonioso ricamo di marmo. Contemplò nuovamente il tappeto azzurro del mare che baciava quel tratto di costa, appena striato di bianco dalla scia di un aliscafo.

    Tutto ciò su cui posava lo sguardo era molto più attraente di quanto avesse mai potuto immaginare. Ebbe l’illusione che tutto quell’incanto fosse lì solo per lui, mentre l’infuocato astro screziava l’acqua e illuminava la propria città: Il paese del sole.

    Eddy conosceva bene la sua amata, anche se non vi era mai stato prima. Grazie alle foto, ai film, ai documentari e soprattutto a Internet. In particolare con Google Earth che genera immagini virtuali del pianeta utilizzando riprese satellitari e foto aeree, il ragazzo aveva fatto quotidiane visite alla città, inoltrandosi in tutti i vicoli, attraversando le piazze, entrando nei parchi e nei giardini, soffermandosi come un gabbiano lungo le assolate scogliere di via Caracciolo o sui pendii scoscesi della suggestiva collina di Posillipo.

    Si sentiva come in paradiso. Non fu semplice riprendersi da quell’estasi. Ci provò, lasciando finalmente la presa. Sul palmo delle mani rimase impresso, in bassorilievo, il segno della balaustra di gusto liberty, stile con il quale tutto lo storico albergo fu costruito, agli inizi del ‘900.

    Si sfregò i palmi per cercare di riattivare la circolazione, mentre lo colse una gran voglia di scendere giù, di varcare la porta del palazzo e di immergersi nella vita concitata delle strade a lungo percorse solo con la fantasia.

    Rientrò in camera ma, colmo di eccitazione, uscì per riaffacciarsi altre quattro volte prima di imporsi di lavarsi e di vestirsi. Lanciò il pigiama sul letto e indossò una maglietta blu scuro a coste di Ferré. Un paio di jeans e poi fu la volta dei calzini e delle fedeli Nike.

    La maglietta elasticizzata con il collo a V metteva in risalto l’imponente torace. Le maniche corte evidenziavano due braccia muscolose.

    Due spruzzate del suo prezioso profumo e, sistemati con pochi e abili tocchi di mano i capelli castano scuro leggermente ondulati, fu pronto. Il ragazzo aveva i lineamenti delicati e mascolini al tempo stesso.

    Afferrò il suo zainetto, disinserì dall’interruttore a muro la tessera magnetica, che da anni aveva soppiantato le scomode e pesanti chiavi e si precipitò lungo il corridoio ricoperto da pregiata moquette. Preferì, senza indugio, le scale all’ascensore perché, con tutta quell’adrenalina in corpo, non poteva tollerare l’idea di starsene fermo ad aspettare. Corse così velocemente da non fare caso agli sguardi di due giovani ragazze che nelle loro divise si apprestavano a rifare le camere. Al suo passaggio rimase la scia di una fragranza così delicata e inebriante che le cameriere, ammutolite, guardandosi, inalarono copiosamente.

    Giunto nella Hall, che già la sera prima aveva potuto apprezzare per l’eleganza degli arredi e i marmi pregiati, salutò con gentilezza il personale di turno alla reception, che lo ricambiò con cortesia.

    Mentre si avviava verso la porta girevole, il facchino, uomo di mezza età, con i capelli grigi e un’aria un po’ triste, gli andò incontro e facendogli segno con la mano di avvicinarsi, gli sussurrò:

    «Mi raccomando, signore, state attento che qua a Napoli può essere pericoloso girare con un orologio come il vostro. Non andate in zone isolate, non si può mai sapere... ci stanno certi fetenti che campano sugli scippi e le rapine ai turisti come voi». Fece una pausa solenne fissandogli il Rolex Daytona, allacciato al polso destro. Inclinò la testa da un lato con una smorfia eloquente come a voler sottolineare che a riguardo aveva una certa esperienza.

    Edward restò sorpreso che quell’uomo s’intendesse di orologi. Il Rolex era un regalo del nonno paterno per il giorno della sua laurea in giurisprudenza, ma per quanto costosissimo, per lui aveva un mero valore sentimentale. Il giovane Green lo guardò con riconoscenza e, con un delizioso e leggero accento americano, rispose: «Vi ringrazio, ma non vi preoccupate per me, non mi può accadere niente di male. Non sono un turista, ma un napoletano come voi. I miei nonni erano dei quartieri spagnoli...», rispose, pieno d’orgoglio, con uno scintillio di luce negli occhi e un’enfasi a stento controllata. Tuttavia, sorrise riconoscente e si sfilò l’orologio riponendolo in una tasca del piccolo zaino. Era felice per quella breve conversazione con un napoletano vero.

    Il facchino, un po’ disorientato da tutte quelle singolari informazioni, fece un leggero cenno con il capo e rispose: Mio dovere, signore. Buona visita, e mentalmente aggiunse: « Chistu ’mericano nun sta bbuono c’ ’a capa!».

    Edward si fiondò all’esterno, rinunciando, senza alcun

    rammarico, al ricco buffet della prima colazione.

    Una volta fuori, respirò più volte a pieni polmoni come se fosse in procinto di fare una lunga immersione, finché non ebbe un leggero capogiro. L’aria delle nove, in quella mattina straordinaria, era calda come un abbraccio materno. Si mosse lentamente verso il massiccio di Castel dell’Ovo che sembrava trafitto dagli alberi delle barche a vela dondolanti in quel lembo di mare detto di Santa Lucia. La sua memoria rispolverò la leggenda secondo cui Virgilio nascose nelle segrete dell’edificio un uovo, in una gabbia di ferro, dal quale sarebbe dipeso il futuro della fortezza e dell’intera città. Affascinato più che mai da questi antichi misteri napoletani, attraversò l’antico pontile che porta al Borgo Marinari.

    Ebbe così inizio la sua giornata perfetta.

    Capitolo 2

    A New York erano quasi le quattro della mattina e la signora Emma Russo, in Green, non riusciva proprio a prendere sonno. Si girava di continuo in cerca di una posizione adeguata sul suo confortevole e costoso letto matrimoniale Vividus. Aveva più volte acceso e poi spento la lampada sul comodino nella disperata speranza che una massiccia dose di pagine del romanzo: Il vincitore è solo di Paolo Choelo, uno scrittore che non amava, potesse, provvidenzialmente, aiutarla a dormire. D’altronde questo era l’effetto che, fin da bambina, le aveva sempre fatto la lettura. Tuttavia, non riusciva a concentrarsi e, dovendo riprendere sempre dallo stesso punto, alla fine, desistette. Più sveglia di prima.

    Mentre il sonno sembrava essersi dimenticato dell’abituale appuntamento notturno con lei, Emma continuava a domandarsi, sempre più nervosa, a che cosa accidenti servisse avere un materasso che costava quasi quanto una Jaguar in una situazione del genere. Avrebbe preteso, a fronte di un valore tanto esorbitante, almeno una funzione effetto sonnifero cui ricorrere nei momenti di necessità.

    Il Vividus, realizzato interamente a mano, in Svezia, con materiali di prima scelta tra i quali il cotone, il legno di pino e i crini di cavallo, era stato il regalo di un noto petroliere, cliente di suo marito avvocato, dopo la sentenza di assoluzione in una causa che aveva ben poche speranze di essere vinta.

    Una mattina il corriere si presentò con il prezioso dono, di cui lei non avrebbe mai nemmeno ipotizzato il valore folle, se non fosse stato per il commento che uno dei ragazzi di UPS si lasciò sfuggire, in tono scherzoso e forse un po’ polemico. «Per guadagnare i cinquantamila dollari che costa questo letto, dovrei lavorare per più di tre anni». Questa inaspettata informazione salvò lei e suo marito da una situazione che sarebbe diventata a dir poco imbarazzante. Aveva intenzione di donarlo a una famiglia povera della parrocchia, rischiando così di fare una figura ignobile con Mister Brown. Il magnate del petrolio, un giorno in visita da loro, orgoglioso del suo prezioso regalo, infatti, insistette per vederlo. Senza contare che un oggetto del genere sarebbe finito inutilmente a persone che mai l’avrebbero potuto apprezzare pienamente, poiché l’eventuale difficoltà a prendere sonno non sarebbe stata causata dall’inidoneità del materasso, quanto dai pensieri per sbarcare il lunario, se non addirittura dalla fame inappagata.

    Emma, quella notte pensava continuamente al proprio figlio Edward. Era certamente preoccupata, ma anche attanagliata da una nostalgia dolorosa.

    Per contro, suo marito dormiva sereno e pacifico alla sua destra, tutt’altro che turbato dal pensiero del figlio lontano e, men che meno, dall’irrequietudine quasi molesta, della propria moglie che accendeva e spegneva la luce, sbuffava, si rigirava continuamente ed era già andata al bagno quattro volte. Lei avrebbe desiderato che il suo sposo le facesse compagnia, condividendo le sue ansie e la sua preoccupazione. Patrick però non si sarebbe destato neanche se lei avesse acceso lo stereo al massimo del volume.

    Presa da una sempre più crescente agitazione decise di telefonare nuovamente al figlio con la speranza di riuscire a parlagli, supponendo che, alle nove ora italiana, l’avrebbe certamente trovato sveglio.

    Compose il numero del cellulare di Eddy e attese invano fino all’attivazione della voce preregistrata della segreteria telefonica. Delusa disse: «Ciao amore, immagino che tu stia ancora dormendo, la tua mamma voleva sentirti... fammi il regalo, chiamami quando sentirai il mio messaggio».

    L’irrequietezza che l’aveva tenuta sin lì sveglia, si velò d’ansia. Decise di alzarsi. Indossò la sua vestaglia blu notte e uscì dalla camera da letto per dirigersi al piano di sotto. Non poté sfuggire alla propria immagine riflessa nel grande specchio antico, situato nel corridoio vicino alla porta dello studio privato del marito. Ciò che vide non contribuì a migliorare il suo umore. I capelli erano arruffati e due leggere ombre di occhiaie si stavano insidiando sotto i suoi occhi, un po’ gonfi. Emma, a cinquantatré anni, era ancora una donna avvenente. Da ragazza era stata di una bellezza straordinaria: occhi verdi, capelli lunghi castano scuro, leggermente ondulati. I denti perfettamente allineati e bianchissimi contribuivano a rendere il suo dolce sorriso, un autentico incanto. Il suo fisico, poi, era magistralmente abbinato al viso. Un metro e sessantasei, snella. Le gambe toniche, salivano inesorabilmente verso un sedere alto e proporzionato, bilanciato dai seni. Un personale oggetto di qualche invidia, da parte delle donne, e di tentazione, da parte di certi uomini. Tutta quella prorompente avvenenza, esaltata dalla luminosità tipica della gioventù, aveva iniziato ad abbandonarla. L’età che, inevitabilmente avanzava, si stava riprendendo ciò che Dio le aveva donato. L’eleganza e il fascino, invece, aumentavano di anno in anno.

    Presto dimentica del responso non proprio incoraggiante che le aveva offerto il suo riflesso, scese per l’ampia scala. Con i piedi nudi, ben modellati e curati.

    Camminare scalza era per lei un piacere irrinunciabile. I suoi familiari, per convincerla ad abbandonare questa inveterata abitudine, le avevano pronosticato profezie nefaste per la sua salute. Incredibilmente, Emma non si ammalava mai. Amava sentire il freddo del marmo, il soffice della moquette o la sensazione di lieve tepore che rimandava il parquet: le piaceva il contatto con i pavimenti e detestava le pantofole, nonostante ne avesse un armadio pieno.

    Giunse nei pressi della grande cucina, attraversando il salone finemente stuccato dove quadri del settecento italiano aprivano misteriose finestre su momenti di vita rurale o marinara. Nel silenzio, il rumore attutito dei suoi passi e l’impercettibile frusciare della sua vestaglia, facevano da sfondo ai suoi pensieri. Si guardava attorno, nel buio svelato solo dalla timida luce della luna calante che filtrava dalle ampie vetrate. In quella specie di museo, tra mobili antichi, vasi e sculture pregiate, tornò a ragionare sulla grandezza esagerata di quel loro attico, soprattutto ora che Eddy non c’era. Era felice di vivere lì.

    Quel posto era il luogo dove, con suo marito, aveva sempre vissuto e dove si erano amati teneramente. La loro lussuosa dimora non era stata sempre così ricca di preziose opere d’arte. Ricevuta in dono per il loro matrimonio dal padre e dal nonno di suo marito, era stata arredata negli anni con autentica passione per la bellezza, grazie alla sempre crescente disponibilità economica che Patrick conquistava vincendo cause sempre più importanti. Quasi tutti gli oggetti artistici di pregio erano stati acquistati, a prezzi spesso d’occasione, da antiquari americani ed europei, ma un gran numero era stato loro donato. La straordinaria bravura professionale di suo marito rendeva generosi e riconoscenti i suoi facoltosi clienti.

    Il gusto per le cose belle e pregiate, nel senso più alto del termine, specie se di fattura italiana, era per i Green, scevro dalla vanità del possedere e dell’apparire.

    Non erano soliti dare feste mondane per vantare la loro posizione sociale, come alcune mogli di avvocati, soci del marito, facevano senza sosta e senza senso.

    Emma era rimasta semplice come le sue origini. I suoi occhi, decisamente inclini al romanticismo, guardandosi attorno, vedevano quella casa museo come la cornice del ritratto della propria stupenda famiglia. Luogo dell’infanzia di Edward, che incredibilmente aveva giocato in mezzo alle preziose antichità facendo meno danni di quanti non fece la loro storica cameriera Consuelo. Non c’erano dubbi, tra quelle ricche e accoglienti mura Emma, sarebbe voluta partire da questo mondo, un giorno... quando Dio avrebbe voluto. Districandosi tra tutti questi pensieri, si avvicinò, attratta dalla tenue luce lunare, all’ampia vetrata della sala che scrutava, come un occhio amico, l’immenso rettangolo verde di Central Park. Di notte sembrava proprio un enorme lago di pece, delimitato da una foresta di austeri palazzi e lussuosi grattacieli. Aprì le imposte e uscì, cauta, sul grande terrazzo ornato con alberi da frutta e frondose piante d’arredo. Si affacciò al balcone di pietra bianca, nella notte fresca. Per strada c’era ancora traffico, segno che la città che non dorme mai teneva fede al suo soprannome.

    Stanca per il sonno perso e spossata dall’agitazione, si sedette sul divano di tessuto, posto sotto al pergolato. Tirò su i piedi, raccolse le gambe con le braccia e, con la testa leggermente estesa all’indietro sui morbidi cuscini, chiuse gli occhi.

    Iniziò a viaggiare nel tempo, su di un treno a vapore che, silenzioso, attraversava le pianure dei tanti ricordi che lentamente riaffioravano.

    La prima figura che bussò all’uscio della sua mente fu quella di sua madre. La donna che l’aveva messa al mondo dopo nove mesi di quella dolce intimità, che solo chi è a sua volta madre può pienamente comprendere.

    Anna Gambardella, era dotata di un cuore ricolmo di generosità. Aveva passato lunga parte della sua vita in una botteghina nel sottoscala del loro umile appartamento a Little Italy, cucendo e rammendando, con meticolosa precisione, gli abiti di tanta povera gente. Anna la sarta, come veniva chiamata con affetto, ritornava spesso nei suoi pensieri. Curva su un tavolino, ditale dorato al dito e occhiali a mezza luna inforcati sul naso. Dal parroco, Padre Frank Cappiello, al salumiere, Gaetano De Vita, fino al medico dottor Gerard Fuzzi, tutti ritenevano, Anna, una preziosa risorsa per prolungare la vita, ormai segnata, degli indumenti che passavano come un lascito di fratello in fratello. Tra l’abito e lo straccio c’era spesso di mezzo, per i poveri del quartiere, Anna e la sua preziosa maestria.

    La propria madre era stata, per Emma, un esempio edificante di donna dedita alla preghiera, al marito, ai figli e al lavoro. Tutto faceva bene, con amore e cura.

    Suo padre, Gennaro Russo, tassista di giorno e pittore di notte; uomo forte nel corpo quanto sensibile nell’animo, sapeva di essere un uomo molto fortunato. Anna era per lui tutto il suo mondo. L’intesa tra loro era perfetta, si capivano e sostenevano con uno sguardo, amandosi sempre come il primo giorno. Sia Emma che il fratello più piccolo, Francesco, erano consapevoli che non avrebbero mai potuto sperare di mettere i genitori l’uno contro l’altro come talvolta fanno maliziosamente i bambini per ottenere ciò che desiderano. Il divide et impera era solo una locuzione latina da libri di storia, inapplicabile ai meccanismi familiari.

    Nella loro cucina, dignitosa e ordinata, vicino all’immagine di San Pio X, era appesa sul muro la foto in bianco e nero di Anna e Gennaro in abiti nuziali. Si stringevano le mani con la felicità dipinta sui volti. Com’erano belli. La giovane sposa aveva diciannove anni, e ventitré lo sposo. Emma si era immersa nella contemplazione di quella fotografia tante volte cercando di immaginare i colori, i profumi, la temperatura dell’aria di quel giorno di festa, per i suoi genitori. La gioia era dipinta anche nei volti delle tante persone ritratte dietro gli sposi. Il popolo dei Quartieri si era ritrovato unito e stretto in un abbraccio felice davanti alla chiesa di Trinità degli Spagnoli. Grazie all’amore che i suoi genitori nutrivano l’un per l’altra, lei e suo fratello erano venuti al mondo. Questo pensiero la commuoveva sempre e le faceva sperimentare un grande rispetto per il sacramento del matrimonio che non poteva che essere un dono di Dio.

    Sua mamma non era particolarmente alta, ma così ben proporzionata da sembrarlo. Aveva occhi profondi e scuri come i suoi lisci capelli, che teneva spesso legati durante il giorno

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