Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il Club dei Fanti di Cuori. Parte prima: Rocambole vol. 3
Il Club dei Fanti di Cuori. Parte prima: Rocambole vol. 3
Il Club dei Fanti di Cuori. Parte prima: Rocambole vol. 3
E-book341 pagine4 ore

Il Club dei Fanti di Cuori. Parte prima: Rocambole vol. 3

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook


Parigi. Sono passati quattro anni da quando Armand de Kergaz ha sconfitto il suo fratellastro Andrea, alias sir Williams. Ma un giorno Andrea torna, colto da un pentimento che supera anche l'iniziale scetticismo delle sue vittime di un tempo.
E poiché a Parigi imperversa una misteriosa società criminale dedita al ricatto, Armand mette l'ex genio del male a capo della sua polizia segreta, per sgominare il Club dei Fanti di Cuori.
Ma a capo dell'organizzazione c'è una vecchia conoscenza, e per Armand, Jeanne, ma anche Fernand, Hermine, Léon e Cerise, i giorni sereni sembrano terminati...
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2018
ISBN9788899403607
Il Club dei Fanti di Cuori. Parte prima: Rocambole vol. 3

Correlato a Il Club dei Fanti di Cuori. Parte prima

Titoli di questa serie (64)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il Club dei Fanti di Cuori. Parte prima

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il Club dei Fanti di Cuori. Parte prima - Pierre Alexis Ponson Du Terrail

    33

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    L'eredità misteriosa. Rocambole vol. 1

    I drammi di Parigi. Rocambole vol. 11

    Pierre Ponson du Terrail, Il club dei fanti di cuori parte prima (Rocambole vol. III)"

    1a edizione Landscape Books, marzo 2018

    Collana Aurora n° 27

    © Landscape Books 2018

    Titolo originale: Le Club des Valets-de-Coeur pt. 1

    Nuova edizione italiana a cura di Guido Del Duca

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-60-7

    In copertina: Place Louis XVI di Giuseppe Canella

    Progetto grafico: service editoriale il Quadrotto

    www.ilquadrotto.it

    Ponson du Terrail

    Rocambole III

    Il club dei fanti di cuori

    parte prima

    Riassunto degli episodi precedenti

    Durante la ritirata di Russia dell’esercito napoleonico l’italiano Felipone approfitta del trambusto della disfatta per uccidere l’amico conte de Kergaz, della cui moglie e delle cui sostanze vuole impossessarsi. Il terribile piano gli riesce e Felipone lo completa criminalmente, precipitando in mare, dai merli del castello di cui si è impadronito, Armand, il piccolo figlio del defunto conte de Kergaz. Previdente, Felipone pensa a preparare un avvenire d’oro alla creatura che attende dalla donna sposata con l’inganno: Andrea. E, tuttavia, Armand non muore; Felipone sul letto d’agonia conosce il pentimento, e, al corrente del fatto che Armand si è salvato, decide di lasciare a lui la propria eredità, diseredando Andrea. È da questo momento che Andrea giura un odio mortale al fratellastro: se Armand vuole essere dalla parte della giustizia, faccia pure, sia pure il genio del bene, lui sarà il genio del male.

    È di nuovo a proposito di un’eredità che i due fratellastri si scontrano. Il ricchissimo Kermor de Kermarouèt, prima di esalare l’ultimo respiro, incarica Armand di fare avere tutte le sue sostanze alla figlia o al figlio che può essere nato da Thérèse, da lui sedotta quando era sottotenente degli ussari. Armand, ligio al suo compito, dà inizio alla ricerca. Ma, prima di lui, identifica l’erede del favoloso patrimonio Andrea, che è tornato a Parigi dall’Inghilterra, facendosi chiamare sir Williams e affettando stile e impassibilità britannici: la donna che fu sedotta dal sottotenente degli ussari ha sposato un certo de Beaupréau, e da quel drammatico incontro giovanile ha avuto una figlia, Hermine. Andrea medita di sposare Hermine per mettere le mani sull’eredità di Kermarouèt. Ma le cose non sono tanto semplici: di Hermine è innamorato, ricambiato, un dipendente di Beaupréau, Fernand Rocher. Questo Rocher ha un amico, l’ebanista Léon Rolland, il quale è innamorato, ricambiato anch’egli, di una bella e onesta sartina, Cerise. Costei ha una sorella traviata, Baccarat, una spregiudicata cortigiana. Ora, mentre de Beaupréau si invaghisce a prima vista, per strada, di Cerise, che naturalmente respinge le sue offerte, Baccarat, a sua volta, si fa divorare dalla passione per Fernand Rocher, che neppure si accorge di lei. Il perfido Andrea, sotto le mentite spoglie di sir Williams, è pronto a sfruttare le debolezze altrui, e a far di quei deboli i suoi complici, soprattutto quando gli capita di scoprire che a un’amica nobile e decaduta di Cerise, Jeanne de Balder, è vivamente interessato l’odiato fratellastro. Il trionfo di Andrea pare inevitabile: con l’inganno Fernand de Rocher viene buttato tra le braccia di Baccarat e poi mandato in prigione sotto una falsa accusa; Baccarat viene successivamente fatta rinchiudere in una casa di cura come pazza; messa al corrente della presunta tresca tra la cortigiana e i fidanzato, Hermine rinnega costui, diventando preda persino troppo disponibile per le mire matrimoniali. Quanto a Jeanne, è rapita senza troppi scrupoli e segregata in una casa nascosta nel bosco; Andrea medita di farne la propria amante. Sotto l’accanirsi delle disgrazie, Armand non si è però dato ancora per vinto e riesce, con l’aiuto di Baccarat miracolosamente evasa dal manicomio, a sventare all’ultimo momento sia le nozze di Hermine sia la seduzione di Jeanne.

    Sir Williams è stato tradito dal suo complice Rocambole, un ragazzo cresciuto nel più assoluto disprezzo del bene, un giovane criminale che promette, anzi minaccia, di far molta strada…

    I.

    Un pomeriggio verso le quattro, una vettura correva al gran trotto su una strada del Nivernese.

    Era l’autunno del 184*, verso la fine del mese di ottobre. In questa stagione non v’è nulla di più splendido del centro della Francia, e soprattutto di quella parte del Nivernese che confina con il dipartimento dell’Yonne e che appartiene al distretto di Clamecy.

    I pascoli passano allora dal verde cupo dell’estate al verde più tenero e quasi giallo che annuncia i prossimi geli. I boschi cominciano a spogliarsi, e quei grandi pioppi melanconici che fiancheggiano il canale e il fiume di Yonne si piegano al soffio dei primi venti di tramontana.

    Tuttavia l’aria è ancora tiepida e il cielo senza nubi; al mattino una nebbia diafana ricopre appena i prati e le paludi per dileguarsi poi al levar del sole; verso sera essa ridiscende lentamente dalla cima delle colline e s’allunga nelle vallate, resa trasparente e dorata dagli ultimi raggi del tramonto.

    La carrozza attraversava in quel momento uno dei punti più pittoreschi e più selvaggi di quel bel paese, una valle sul cui fondo correvano fianco a fianco in infiniti meandri il fiume – opera di Dio – e il canale – opera degli uomini.

    Nella carrozza, dal mantice rovesciato all’indietro, un uomo e una donna tenevano in mezzo a loro un bel bambino di quattro anni, dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, che chiacchierava senza sosta, interrogando il padre e la madre, e si estasiava al rumore dei sonagli tintinnanti al collare dei quattro vigorosi percesi che tiravano l’aristocratica vettura. Il padre del bambino era un uomo ancora giovane; poteva avere trentasette o trentotto anni, alto, bruno, con i capelli neri e gli occhi azzurri.

    Il suo viso, un po’ severo, era ancora di una grande bellezza, bellezza che diventava giovanile quando il bel bambino volgeva su di lui quello sguardo profondo e incantevole, pieno di ingenua curiosità e di rispettosa ammirazione che è proprio soltanto della prima infanzia.

    La madre aveva forse venticinque anni; era bionda, pallida e aveva un sorriso dove la felicità si rivelava attraverso la malinconia. Assomigliava al bambino come la rosa in fiore assomiglia al bocciolo.

    Il bimbo era seduto tra loro; entrambi lo tenevano con una mano, e passando l’altro braccio dietro le sue spalle, si allacciavano in una stretta affettuosa.

    Questo pegno del loro amore sembrava aver prolungato la luna di miele, così breve di solito, ma che per loro pareva non dover mai finire.

    Ora, quest’uomo e questa donna, di cui l’elegante abito da viaggio, i due lacchè seduti dietro la vettura, e la maniera aristocratica di affrettarsi rivelavano l’elevata posizione sociale, altri non erano che il conte e la contessa de Kergaz che, di ritorno dall’Italia, si recavano nella loro bella terra di Magny-sur-Yonne, dove contavano di passare la fine d’autunno per rientrare a Parigi verso la metà di dicembre.

    Il conte Armand de Kergaz aveva lasciato Parigi otto giorni dopo il suo matrimonio con la signorina de Balder.

    Essi avevano vissuto gli incanti del primo amore presso le coste del mare siciliano, all’ombra di una villa affittata a Palermo dal conte. Vi avevano abitato per sei mesi, tutto un inverno, la stagione del freddo intenso e del nevischio in Francia, quella dei caldi raggi e delle brezze primaverili laggiù.

    Ma là, il cambiamento d’aria e forse qualche amaro ricordo avevano nuociuto alla salute della signora de Kergaz. La fragile donna si era ammalata, abbastanza gravemente da inquietare i suoi medici, che le avevano ordinato di ritornare in Sicilia.

    Armand de Kergaz era dunque ripartito, riconducendo la giovane madre, perché Jeanne era allora incinta di sette o otto mesi, in quella terra di Sicilia dove il sole è così benefico per coloro che soffrono.

    L’effetto di quel clima benedetto non aveva tardato a farsi sentire. Jeanne aveva prontamente ritrovato la salute ed era più bella e più giovane che mai.

    Il bimbo era nato a Palermo, i verdi rami di un sicomoro avevano ombreggiato la sua culla e il mormorio dell’onda azzurra risplendente sotto il sole era stato il primo canto ch’egli avesse udito.

    E poiché l’aria tiepida e profumata di quella bella contrada era salutare al caro piccino, nonostante la contessa fosse completamente ristabilita già alla fine del primo anno, essi avevano indugiato a Palermo per altri tre anni. Tuttavia un giorno, la nostalgia, questo male bizzarro eppure assai comune, era venuto a bussare alla loro porta. S’imbarcarono dunque per Napoli, attraversarono l’Italia in tutta la sua lunghezza, visitarono rapidamente Roma, Firenze e Venezia, seguirono la strada della Corniche e rientrarono in Francia attraverso il dipartimento del Var, piccola Italia in miniatura.

    Quindici giorni dopo essi percorrevano la grande strada del Nivernese, dove appunto noi li ritroviamo, e verso le quattro del pomeriggio erano solo a cinque o sei leghe dal castello di Magny.

    «Jeanne, mia diletta», mormorava Armand contemplando con amore la giovane sposa, mentre le sue dita giocavano con i riccioli biondi del piccolo Gontran, «non rimpiangerete la nostra villa di Palermo, la nostra cara terra promessa, in quel solitario e silenzioso castello che ci attende?»

    «Oh! no», rispose Jeanne: «la terra promessa non è forse dove voi vi trovate e dove la mia mano è nella vostra?»

    «Angelo mio», disse il conte sottovoce, «voi mi avete reso così felice, che forse Dio mi toglierà la mia parte di paradiso. In Francia o in Italia, vivere con voi e vicino a voi è più che la terra promessa, è il cielo!»

    E il conte serrò la vezzosa e bianca mano di Jeanne nella sua, mentre, uniti da un pensiero comune e da uno stesso slancio, si chinavano entrambi sulla fronte del bambino e vi stampavano un doppio bacio, mentre i loro capelli si confondevano.

    «Se volete, mia cara», continuò il signor de Kergaz, «passeremo tutto l’autunno a Magny e non ritorneremo a Parigi che verso la fine di gennaio».

    «Ah! Lo vorrei davvero», rispose Jeanne. «Quella brutta Parigi è così buia e triste! Ci ricorda tanti affanni!»

    Armand trasalì.

    «Mia povera Jeanne», disse, «vedo una piega formarsi sulla tua fronte, e il tuo occhio colmarsi di una vaga inquietudine… e indovino…».

    «Ma no», ella rispose, «vi ingannate… mio diletto Armand… come può la felicità essere inquieta?»

    E così dicendo gli rivolse il suo miglior sorriso, quel sorriso quasi sognatore che sembrava dire: la calma del cuore è un po’ di malinconia.

    «Ma io ricordo», continuò Armand, «che talvolta a Palermo un nome fatale e maledetto errava sulle vostre labbra».

    «Andrea!» esclamò Jeanne con un’emozione improvvisa.

    «Sì, Andrea. Temo, mi diceste, il genio infernale di quell’uomo; la nostra felicità deve perseguitarlo come un rimorso. Mio Dio! se comparisse qui ora…».

    «Sì», mormorò la contessa, «è vero che vi dissi ciò, Armand; ma allora io ero pazza e dimenticavo che voi siete nobile e forte e che presso di voi io posso vivere senza alcun timore».

    «Hai ragione, bambina mia», replicò commosso il signor de Kergaz. «Io sono forte per difenderti, forte perché ti amo, forte perché Dio è con me e ti protegge».

    Jeanne posò sul marito lo sguardo pieno di fiducia della donna che nutre una fede profonda nell’uomo ch’ella ha scelto a suo sostegno.

    «So bene», riprese Armand, «che mio fratello è uno di quegli uomini, fortunatamente assai rari, che hanno fatto della nostra società un campo di battaglia sul quale brandiscono lo stendardo del male; so che il suo genio infernale è stato lento a scoraggiarsi; che l’odio che mi ha giurato, e che era già tanto violento, è stato certamente acuito dalla grandezza della sua sconfitta in questa lotta in cui egli ha osato contenderti a me. Ma rassicurati, bambina mia, viene l’ora in cui il demonio, stanco di lottare invano, si ritira per non ricomparire mai più; e quest’ora è certamente suonata da tempo per Andrea, poiché egli ci ha lasciati in pace, rinunciando per sempre a inseguire un’inutile vendetta».

    E dopo un attimo di silenzio, Armand soggiunse: «L’indomani del nostro matrimonio, angelo mio, ho fatto consegnare a questo fratello snaturato, attraverso Léon Rolland, 200.000 franchi, impegnandolo con una lettera a lasciare la Francia per andare in America, dove avrebbe potuto trovare l’oscurità, l’oblio e forse il pentimento… Io ignoro se Dio ha toccato quest’anima ribelle e colpevole. Ma già da quattro anni l’infaticabile polizia che ho organizzato a Parigi per fare un po’ di bene, e di cui in mia assenza ho dato la direzione al nostro eccellente amico Fernand Rocher, ha potuto constatare che mio fratello Andrea ha effettivamente lasciato la Francia e non vi è più riapparso… Forse è morto».

    «Armand», mormorò Jeanne addolorata, «non dobbiamo fare questo voto sacrilego».

    Il conte posò un bacio sulla fronte della moglie.

    «Ma», disse, «perché rattristarci con dei ricordi già lontani, e dai quali ci separano i quattro anni di felicità appena trascorsi? Viviamo felici, anima mia, con gli occhi fissi sul nostro bambino, e continuiamo a fare un po’ di bene, a confortare coloro che soffrono».

    Armand soggiunse tra sé e sé:

    «… e a punire coloro che hanno attirato sul loro capo dei giusti castighi».

    Infatti, a cinquecento leghe da Parigi, il conte aveva attuato la sua grande opera di riparazione sociale, spendendovi i due terzi della sua immensa fortuna, associato in questa impresa a Fernand Rocher.

    Vedremo tra poco quale aiuto il conte e la contessa de Kergaz avessero trovato nella persona di quella Maddalena pentita che si era un tempo chiamata Baccarat e ora non era più che un’umile suora di carità.

    Mentre il signor de Kergaz e sua moglie così chiacchieravano e la vettura continuava a correre al gran trotto, il postiglione gridò improvvisamente con voce aspra un Attenzione! con tale accento, che attirò l’attenzione dei giovani sposi e li fece guardare innanzi a loro.

    Un uomo, completamente immobile, stava disteso di traverso in mezzo alla strada che era in quel punto assai stretta.

    «Attenzione!» ripeté il postiglione.

    L’uomo non si mosse, benché i primi cavalli stessero quasi per raggiungerlo.

    Allora il postiglione, per evitare una sciagura, arrestò bruscamente il tiro.

    «Quest’uomo è certamente ubriaco», disse il signor do Kergaz.

    E, volgendosi a uno dei due lacchè seduti dietro la carrozza:

    «Germano, scendi e tira da parte quel povero diavolo, che non gli venga fatto del male».

    Il lacchè obbedì, mise piede a terra e s’avvicinò all’uomo steso sulla strada.

    L’uomo, che era a piedi nudi, vestito di stracci e col viso coperto di una gran barba incolta, sembrava svenuto.

    «Pover’uomo!» mormorò la contessa commossa fino alle lacrime… «forse è caduto per lo sfinimento…».

    E con un gesto vivace mise nelle mani di suo marito un flacone di sali che portava appeso al collo, dicendo contemporaneamente all’altro lacchè:

    «Presto! Francois, presto! cercate nel cofano, vi troverete una bottiglia di malaga e del cibo».

    Armand si lanciò a terra e corse verso il mendicante svenuto.

    Era quasi un ragazzo, e il suo viso smagrito dalla sofferenza conservava tracce di una grande bellezza. La barba e i capelli erano di un bel biondo dorato, e i piedi nudi insanguinati dai rovi, le mani bruciate dalla calura avevano tuttavia forme di una squisita delicatezza.

    Il conte fissò l’uomo e gettò un grido di stupore.

    «Mio Dio!» mormorò, «che strana rassomiglianza! sembra Andrea…».

    La signora de Kergaz aveva imitato il marito; era scesa dalla vettura e, come lui, si era avvicinata al povero mendicante… Come lui, gettò un grido di sorpresa.

    «Sembra Andrea!…». ripeté.

    Era tuttavia poco verosimile che il baronetto sir Williams, l’elegante visconte Andrea, fosse sceso così in basso da ridursi a mendicare sulla strada, senza scarpe e quasi svestito, sino al punto di cadere esausto per la debolezza.

    A ogni modo, se era lui, era stato duramente provato dalle privazioni di ogni genere, a giudicare dal viso scarno, smagrito, dove la sofferenza aveva lasciato la sua impronta fatale. E tuttavia erano proprio i suoi tratti, i suoi capelli biondi, la sua figura.

    Armand gli fece aspirare il flacone di sali mentre i due lacchè lo sollevavano. Il mendicante impiegò molto tempo aprire gli occhi; infine emise un lungo sospiro, e balbettò alcune parole appena intellegibili.

    «Faceva caldo…». balbettò. «Avevo molta fame… non so cos’è successo… ma… sono caduto…». Mentre così parlava, il mendicante, che i signori de Kergaz continuavano a fissare con ansiosa curiosità, volgeva atto a sé degli occhi torvi…

    Improvvisamente li fissò su Armand e, manifestando un subitaneo terrore cercò di svincolarsi dalle mani dei lacchè, che ancora lo sostenevano e tentò di fuggire… Ma aveva i piedi gonfi per la fatica di un lungo cammino, e non poté fare due passi…

    «Andrea!» gridò Armand, nel cui cuore stava sorgendo sentimento di profonda compassione. «Andrea, siete voi?»

    «Andrea?» ripeté il mendicante con voce smarrita, «perché mi parlate di Andrea? Egli è morto… Io non lo conosco. Io mi chiamo Jérome il mendicante…».

    E, come preso da un tremito convulso, mentre i denti gli battevano violentemente, tentò un ultimo sforzo per liberarsi e fuggire. Ma le forze lo tradirono, lo svenimento lo riprese ed egli s’accasciò morente.

    «È mio fratello!» gridò il conte che già, alla vista di quell’uomo ridotto in tale vergognoso e miserevole stato, aveva dimenticato tutti i suoi misfatti per non ricordare che una cosa, cioè che erano nati entrambi dallo stesso grembo.

    «È vostro fratello, Armand!» ripeté la signora de Kergaz animata dallo stesso pensiero e dalla stessa compassione.

    Il mendicante che era di nuovo svenuto, fu adagiato nella carrozza e il conte disse al postiglione:

    «Siamo solo a tre leghe da Magny; fa’ scoppiare i cavalli, ma devi farcela in tre quarti d’ora».

    La vettura ripartì, rapida come il baleno, e fu ben presto nel gran viale di tigli che conduce alla gradinata del castello.

    Qualche minuto più tardi, grazie a cure premurose, il mendicante riaprì gli occhi, e si ritrovò non più sulla strada, ma in una elegante camera da letto. Un uomo e una donna si chinavano ansiosamente su di lui, ascoltando il parere di un medico che era stato chiamato in gran fretta.

    «Questo svenimento», diceva il dottore, «ha avuto come causa prima la carenza troppo prolungata di alimenti, peggiorata da una lunga marcia. I piedi sono gonfi. Da ieri deve aver percorso almeno venti leghe».

    «Andrea», mormorò il conte, chinandosi all’orecchio del mendicante, «siete qui da me… da vostro fratello… a casa vostra».

    Andrea, perché era proprio lui, continuava a guardarlo con occhi torvi, atterriti. Pareva ch’egli credesse di fare uno strano sogno e cercasse di respingere qualche orrenda visione.

    «Fratello…». ripeté il signor de Kergaz con voce affettuosa e commossa, «fratello… siete proprio voi?»

    «No, no…». balbettò. «io sono un mendicante, un vagabondo senza focolare e senza casa… un uomo perseguitato dalla giustizia divina, assediato a ogni ora dal rimorso… Io sono uno di quei grandi colpevoli che si condannano volontariamente a correre il mondo senza posa, portando con sé il fardello delle loro iniquità».

    Il signor de Kergaz proruppe in un grido di gioia.

    «Ah! fratello, fratello», mormorò, «sei dunque alfine pentito?»

    Fece un segno alla giovane moglie, che uscì, accompagnando il dottore.

    Allora Armand, rimasto solo al capezzale del visconte Andrea, gli prese affettuosamente la mano e gli disse:

    «Noi abbiamo avuto la stessa madre, e se è vero che il pentimento è entrato nel tuo cuore…».

    «Nostra madre!» interruppe Andrea con voce sorda, «io sono stato il suo carnefice…».

    E aggiunse con un accento d’umiltà profonda:

    «Fratello, quando sarò un po’ riposato, quando i miei piedi decongestionati mi permetteranno di continuare il mio cammino, voi mi lascerete partire, non è vero?… Un tozzo pane, un bicchier d’acqua… Jérome il mendicante non ha bisogno d’altro…».

    «Mio Dio!» mormorò il signor de Kergaz, il cui nobile cuore batteva d’emozione, «in quale orribile miseria sei dunque caduto, mio povero fratello?»

    «In una miseria volontaria», disse il mendicante, abbassando umilmente la fronte. «Un giorno, il pentimento è venuto, e ho voluto espiare tutti i miei delitti… I duecentomila franchi che mi avevate dato, fratello, non li ho dissipati. Sono depositati alla Banca di New York. La rendita viene versata alla cassa degli ospizi… Quanto a me, non ho bisogno di nulla… Mi sono condannato ad andarmene per il mondo, chiedendo la carità, dormendo nelle scuderie e nei fienili… sovente al bordo della strada… Forse un giorno Dio, e io prego notte e giorno, finirà per perdonarmi».

    «È fatto!» rispose il conte. «In nome di Dio, fratello, ti perdono e ti dico che l’espiazione è sufficiente…».

    E il conte de Kergaz, stringendo Andrea tra le braccia aggiunse:

    «Mio diletto fratello, vuoi vivere sotto il mio tetto, non più come un vagabondo, non più come un colpevole, ma come mio amico, mio uguale, il figlio di mia madre, il figliol prodigo ricondotto dal pentimento e accolto a braccia aperte? Resta, fratello; tra mia moglie e mio figlio, tu sarai felice, perché sei perdonato…».

    II.

    Circa due mesi dopo la scena che abbiamo descritto, ritroviamo a Parigi, in via Culture-Sainte-Catherine, il conte Armand de Kergaz e la sua giovane moglie che discorrono nella stanza da lavoro.

    Erano le dieci di un mattino ai primi di gennaio. La brina che ricopriva gli alberi del giardino luccicava ai pallidi raggi di un sole invernale; faceva freddo e nel camino bruciava un gran fuoco.

    Il conte era seduto in vestaglia in una comoda poltrona, incrociando le gambe, e teneva in mano delle molle con le quali, mentre continuava a chiacchierare, attizzava il fuoco.

    La signora de Kergaz, in veste da camera, stava accanto al marito e volgeva su di lui il suo sguardo calmo e malinconico, mentre lo ascoltava attentamente.

    «Mia cara bambina», diceva il conte, «io ero già assai felice per il vostro amore, ma la mia felicità è completa da quando il nostro caro fratello è stato ricondotto a noi dal pentimento».

    «Oh!» rispose Jeanne, «Dio è grande e buono, amico mio, e toccando con la sua grazia quell’anima empia e ribelle, ne ha fatto quella di un santo».

    «Povero Andrea», mormorò il conte, «che vita esemplare!… che pentimento!… Jeanne, mia diletta, bisogna che io vi faccia un’orribile confidenza, e vi renderete conto di come egli è cambiato».

    «Mio Dio! che c’è ancora?» domandò Jeanne con inquietudine.

    «Voi sapete che Andrea ha voluto condividere soltanto le apparenze della nostra vita. Mentre alle volte siede in salotto accanto a noi, egli vive invece in una soffitta senza fuoco, in cima al palazzo, con il pretesto di seguire un regime imperiosamente imposto dai medici. Si è ridotto ai più rozzi alimenti. Mai un bicchiere di vino sfiora le sue labbra».

    «E digiuna tutti i giorni fino a mezzogiorno!» interruppe Jeanne.

    «Questo è niente!» disse il conte, «voi non sapete ancora nulla, mia cara amica».

    «Io so», riprese la signora de Kergaz, «che ci son volute tutte le vostre insistenze e le mie per impedirgli di andarsi a rinchiudere alla Trappe de la Meilleraye. So anche che tutte le mattine lascia il palazzo all’alba, vestito miseramente, e che sotto l’umile nome di André Tissot, si reca in rue du Vieux-Colombier, in una ditta di commercio dove tiene la corrispondenza, dalle otto del mattino alle sei di sera, per il modesto compenso di milleduecento franchi. Ha voluto far dipendere la sua miserabile esistenza dal lavoro, lui che

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1